giovedì 6 marzo 2025

Silvano Barbesti: Pelle e ossa


Prova a chiederlo in giro, tanto non lo sa nessuno. Nessuno sa da quanto dura questa fottutissima guerra. Qui in trincea la vita è infernale. Senti nell'aria la tensione e il puzzo della paura: atmosfera cristallizzata da un tempo senza tempo.
E l'attesa di un cambiamento radicale si fa esigenza concreta, angoscia quotidiana.
Qualche movimento nel fronte opposto. Forse stanno preparando un ennesimo attacco. Ma il nemico non ce l'hai solo davanti, devi guardarti da tutti, anche dal tuo compagno, da chi hai di fianco. Anche lui può sempre diventare orrendo, implacabile nemico.
Ecco! Saltano fuori a centinaia, goffamente, e corrono verso di noi, con i fucili puntati.
Bisogna aspettare a sparare, aspettare che siano vicini, molto più vicini, altrimenti è inutile.
È difficile mantenere i nervi saldi. Vedi la morte che ti corre incontro, e devi lasciarla avvicinare. Quasi un gioco d'azzardo.
Cinquanta metri, e qualcuno comincia già a sparare. Inquadro nel mio mirino un nemico. Aspetto.
Trenta metri. Ancora qualche passo e poi... Parte il colpo.
Il lungo scheletro cade a terra a una ventina di metri da me. L'ampia tuta mimetica sembra afflosciarsi come un sacco vuoto.
La scena si ripete lungo tutta la linea d'attacco. In qualche istante i colpiti si ritrasformeranno in uomini e si rialzeranno, correndo verso di noi, cercando scampo nella nostra trincea. I più fortunati ce la faranno, altri verranno colpiti nuovamente dai loro ex compagni e ritorneranno scheletri ossessionanti.
Ma non ho tempo per guardare. Devo sparare ancora: i nemici sono troppi.
Dopo una decina di minuti, si ritirano. È stato soltanto il primo attacco della giornata, un assaggio.
Mi guardo attorno. È tutto tranquillo. Solo la trincea sembra un po' più affollata di prima. Qualche scena di gioia: fra i nuovi arrivati forse c'è qualche vecchio amico, perso.in un attacco precedente.
L'attesa ricomincia. Quello di fianco a me è nervoso, troppo. Si agita, pesta i piedi per terra come se avesse freddo. Scarta una gomma, se la mette in bocca. Comincia a masticare, ma non si calma. Ogni tanto guarda fuori. È pericoloso. Sto per dirglielo: stai attento, non sporgerti troppo, abbassa quella testaccia dura. Ma non faccio in tempo che si sente uno sparo isolato.
Il mio vicino si porta le mani al viso, il sangue prende a scorrergli fra le dita. Si abbatte a terra. Un ultimo rantolo. Dalla bocca un fiotto di sangue e saliva si riversa nella polvere, trascinando con sé la gomma masticata a metà.
Sono teso. Ho già visto più volte scene come questa, ma non mi ci abituerò mai. Fra qualche attimo avverrà la trasformazione. Lentamente la carne sembra svanire, la pelle si raggrinzisce e diventa trasparente. La divisa pare quasi vuota, e il cinturone pende, troppo largo. Affiora il biancore delle ossa e questo scheletro, di fianco a me, accenna un piccolo movimento. Come quando, svegliandoti, provi a piegare le dita, per scacciare il torpore del sonno.
Gli infilo la canna del fucile nella gabbia toracica e tiro il grilletto. La carcassa ha un sussulto, poi più niente. Adesso, pigramente, si ritrasformerà in uno di noi. Ma non guardo.
Dopo pochi minuti si rialza e riprende il suo posto accanto a me, come prima. Sembra molto più calmo. Giro la testa verso di lui. Mi guarda, mi schiaccia l'occhio e si rimette a sbirciare di fuori, molto più attento.
È inutile parlare, ringraziare. Sparandogli ho salvato anche me.
È la guerra, questa maledetta guerra.
Il veccho Zombie sta girando la trincea per controllare che tutto sia a posto. Alto, inagrissimo, sempre un po' piegato in avanti, coi suoi due piedi enormi. È stato il mio istruttore per tre mesi. Se sapesse che lo chiamiamo così... È un tipo simpatico, e in gamba. Ricordo ancora le sue parole, le sue raccomandazioni, urlate con voce acuta e rauca. Noi ridevamo, allora. Ci parlava di tutto, ma per noi era solo teoria e non capivamo, non lo prendevamo sul serio: non avremmo potuto.
Ci parlava dei nemici, delle armi "... sono le solite, uguali per tutti, per noi e i nostri nemici. Il fenomeno della trasformazione, in un senso o nell'altro, non dipende dall'arma, ma da chi la usa..." delle attenzioni da usare in trincea durante gli attacchi "... aspettate a sparare che siano vicini, poi cercatevi un altro obiettivo, ma seguite sempre con la coda dell'occhio chi avete appena colpito. Se lo raggiunge un colpo nemico e voi non ve ne accorgete, vi ritroverete in trincea degli scheletri che non si lasceranno impietosire dalle vostre bocche aperte dallo stupore. E non vi stringeranno la mano...", e nei momenti di calma "...attenzione ai cecchini. Se qualcuno viene colpito, aspettate a stenderlo di nuovo che sia avvenuta completamente la trasformazione, e che abbia fatto qualche movimento. Accertatevi insomma, che sia vissuto almeno per un attimo come scheletro, sempre che si possa dire vissuto. Altrimenti quello ci lascia la pelle definitivamente, ed
è senz'altro meglio un compagno in più che non un mucchietto di cenere per terra..."
Ora mi accorgo che aveva ragione e i suoi consigli mi sono stati utilissimi.
Raccontano che una volta durante un attacco molto violento sia arrivata una raffica di mitra proprio dov'era lui. E in una decina caddero colpiti. Si era ritrovato, improvvisamente, da solo in mezzo a quei cadaverischeletri. Riuscì a mantenere il suo sangue freddo e intervenne al momento giusto, sparando un colpo per volta e ritrasformando tutti, senza danni né per lui né per gli altri.
Se in trincea riuscisse a infilarsi un nemico, in un modo o nell'altro, sarebbe un grosso guaio.
Ogni tanto a qualcuno saltano i nervi, e allora si getta fuori e comincia a correre verso la trincea opposta. Davvero la morte è liberazione? Ma questa ricerca del suicidio è un'illusione: se anche vieni colpito non muori, ma passi, più  semplicemente, dall'altra parte... e l'incubo ricomincia.
L'attesa continua snervante. Oggi i nostri nemici sono piuttosto quieti. Troppo. Ho paura che preparino qualche brutta sorpresa, qualche manovra imprevedibile. Questa notte, quando le pattuglie rientreranno dal loro solito giro, forse ne sapremo di più. Spero solo che questa volta non tocchi a me.
È già un po' di tempo che non sono più di turno, ma non mi sono ancora rimesso dall'ultima sortita.
Il nostro caposquadra era Zombie. Uscivamo come seconda pattuglia, dieci minuti circa dopo la prima. Zombie dice che è una precauzione necessaria, per premunirsi da sgradevoli imprevisti. Dopo più di un'ora che camminavamo, sentimmo degli spari lontani. In breve, quella che ci era sembrata una scaramuccia si trasformò in un vero e proprio scontro.
Affrettammo il passo senza distrarci, forse ancora con più cautela di prima. Giunti in cima a una piccola altura, ci fermammo di botto. Qualche metro sotto di noi, in una piccola infossatura del terreno, la nostra prima pattuglia si stava scontrando a distanza ravvicinatissima con un gruppo nemico.
La situazione era così caotica che ci appostammo al riparo sull'altura, aspettando un'evoluzione del combattimento.
Lo spettacolo era allucinante. Le due pattuglie nell'impeto si erano mescolate, e i colpi si intrecciavano illuminando la scena. Ci si sparava ad dosso da pochi metri; a volte anche meno. Gli scheletri cadevano goffamente e qualche attimo dopo si rialzavano ed erano uomini. E venivano colpiti di nuovo e ricadevano, e si rialzavano e ricadevano...
La confusione era totale. Solo una torcia elettrica finita a terra e i numerosi colpi delle armi da fuoco ci permettevano di assistere, allucinati, a questo macabro balletto di tute mimetiche, che cadevano e si rialzavano animate a turno da uomini e da scheletri.
Non sapevamo cosa fare. Non sapevamo dove sparare e a chi. I bersagli cambiavano in continuazione. Ed era troppo pericoloso mescolarsi nel combattimento.
Dopo qualche momento Zombie si riscosse dallo stupore e prese l'unica decisione possibile. Togliemmo le sicure alle nostre bombe a mano e le lanciammo. I nostri ananas piovevano di sotto, sui combattenti, facendo strage. L'unico modo per risolvere la situazione e impedire che il caos dilagasse, ormai, era la morte, definitiva, di tutti.
In breve fu il silenzio, e nella fossa restarono solo piccoli crateri e mucchietti di polvere.
Rientrammo in fretta per non cadere a nostra volta in un'imboscata. Percorremmo i chilometri che ci separavano dalle nostre postazioni in silenzio e molto velocemente. Eravamo in trance, buttavamo un piede davanti all'altro in modo meccanico, senza vedere, senza sentire, senza pensare. Forse riuscimmo a rientrare solo per puro caso. Anche Zombie era scosso.
Da allora non sono più uscito e ho il terrore di sentire di nuovo il mio nome fra i componenti di una pattuglia.
L'odore di zuppa si spande (non lo puoi certo definire profumo).
Dai camminamenti sbucano gli addetti alle cucine, con i pentoloni fumanti. Ma non è ancora il mio turno.
La trincea è divisa in settori di circa cinquanta metri, e gli uomini mangiano alternati, per evitare che si allenti la sorveglianza. Adesso è la volta dei settori dispari, e io sono nell'84°.
Mi guardo in giro. Quelli dell'83 e dell'85 cominciano a mangiare. Tengono le teste chine sul cibo, senza dire niente. Forse è un momento di quiete, ma non di sollievo. Ti riempi lo stomaco, ma la testa ti resta vuota, stordita. Ognuno si siede per conto proprio, chiuso nel proprio mondo.
Uno (lo chiamano Barbablù) si mette davanti una foto della moglie e poi comincia il pasto silenzioso. Tutti i giorni compie questo rito. Forse, se un giorno perdesse quella foto, potrebbe anche smettere di mangiare; è già successo, in questo universo allucinato.
E io lo capisco.
Da quanto tempo non vedo più una donna?
Da quanto tempo non vedo più la mia donna?
La penso spesso. Me la rivedo davanti, i grandi occhi azzurri, la bocca piccola, i capelli biondi che le cadono sulle spalle. Ma non è desiderio di sesso. Sì, mi ricordo il suo corpo piccolo, i seni pesanti, la carnagione chiara, ma devo quasi fare uno sforzo.
Forse è la vicinanza con la morte, con questa morte che si materializza in scheletri in divisa che ti saltano addosso, spuntano dappertutto.
Forse è questa atmosfera irreale. Ti senti come in un'altra dimensione, non materiale.
Ricordo il suo corpo, non lo desidero. Ho nostalgia del suo sorriso, della sua voce. Ricordo le discussioni, i momenti dolci, i litigi, le risate. Vorrei riprovare certe sensazioni, ricreare il clima di serenità e comprensione. L'intesa senza parole, senza gesti. L'equilibrio di un rapporto vissuto intensamente, in piena libertà.
Barbablù ha finito di mangiare, ripone la foto. Fra dieci minuti finalmente anch'io potrò mandar giù qualcosa di caldo.
Apro lo zaino appoggiato in terra, tiro fuori la gavetta. Il metallo un po' ammaccato è tutto unto, ma dove lo trovi il tempo per lavare gavetta e cucchiaio? Anch'io avrei bisogno di un bagno...
A uno a uno, senza formare file pericolose e inutili, ci accostiamo al pentolone. Il mestolo si riempie e si rivuota, si riempie... Una volta sola a testa, la nostra razione; ma il resto lo mangiamo tutto con gli occhi.
Mi siedo in terra, senza togliere l'elmetto.
Guardo dentro: zuppa. Acqua sporca, in effetti, e le palline di carne che vi galleggiano sembrano i testicoli di un topo. Ci spezzo dentro una galletta. Immergo il cucchiaio, mescolo un attimo e metto in bocca il primo cauto boccone, mastico il primo coglione. Non è male, o forse è la fame...
La zuppa finisce quasi subito. Le porzioni oggi erano scarse, la trincea più affollata. Meglio così? A volte ti viene la tentazione di sparare a ripetizione contro lo stesso nemico, distruggendolo. Le razioni sarebbero più abbondanti... e forse questa guerra finirebbe prima.
Bevo un sorso d'acqua e mi rimetto al mio posto, in attesa.
Guardo l'orologio: il tempo sembra non passare mai. È strano, mi sono sempre ricordato di caricarlo (è vecchio, non è automatico), come se per me significasse qualcosa. Le lancette che girano alimentano la speranza, o l'illusione, che non tutto si sia fermato irrimediabilmente. E indicano lo scorrere del tempo. Il tempo, e il Tempo... Non ci devo pensare. Mi perderei in un universo assurdo. Tanto più assurdo quanto più concreto e reale. Mi concentro sulla trincea nemica.
D'un tratto, come un solo essere, gli scheletri si buttano fuori, lungo tutta la linea. Sono pochi, però, e non portano i fucili.
I fischietti dei capisettore lacerano l'aria, per un inutile richiamo all'attenzione.
Gli scheletri hanno cambiato tattica. La prima ondata, formata da pochi elementi, ci attacca con le bombe a mano, cercando di creare scompiglio e falle nel nostro sistema difensivo. Seguirà poi l'assalto massiccio del resto delle truppe.
Sparo all'impazzata, non dobbiamo lasciarli avvicinare. Alcuni cadono. Le raffiche si intensificano. Qualche scoppio vicino alle nostre difese. Uno scheletro, colpito, si rialza rapidamente: ormai uomo, toglie la sicura a una bomba, la rimette nel tascapane ancora pieno, e lo lancia verso la trincea nemica. Un altro cade ferito, ma il suo ordigno, già innescato, gli scoppia addosso, mentre le sue ossa volano dappertutto.
Il tentativo dura poco, e restano molti caduti in quella terra di nessuno, bruciata e accidentata.
L'attacco, ormai, è già nel passato. Faccio fatica a ricordarlo nei particolari, ma resto turbato da certe inevitabili considerazioni. Se fossero riusciti a rompere le nostre difese? E non mi preoccupo tanto della mia sorte, ma di tutto quel mondo che sta alle nostre spalle... se c'è ancora qualcosa. Qui noi formiamo una specie di cordone sanitario armato: cerchiamo di impedire il dilagare di un'epidemia misteriosa (e letale?).
Non riesco a immaginare, ad accettare un universo popolato da goffi ammassi di ossa e cartilagini. La mia mente rifiuta questa possibilità, e l'archivia come una fantasia malata e ributtante, un assurdo incubo. Eppure, se un giorno dovessimo cedere, sarebbe un mondo ben reale. E terrificante.
Fisso la trincea opposta. Alcuni miei compagni riordinano i sacchetti di sabbia, rinforzano alcuni punti, spostano qualche asse di legno secco e scheggiato. Zombie, sicuro ed esperto, coordina gli sforzi di un piccolo gruppo armato di badili e picconi.
Questa volta i danni sono limitati.
Sono tutto sudato. Il caldo è soffocante. Per fortuna il sole è ormai basso. Il cielo è sgombro. Non un uccello. Non si vede neanche un aereo. Da mesi l'aviazione non dà più segni di vita. E anche l'artiglieria sembra scomparsa: l'altro giorno ha tuonato per due ore, prima di un attacco, però erano colpi radi e poco precisi. Poi più niente. Strano... Anche l'azione disperata con le bombe a mano di questa sera non rientra nella norma.
Se davvero stesse cambiando qualcosa...
La giornata è quasi finita. In attesa di smontare mi guardo in giro. Terra: terra martoriata e sabbia.
Zombie controlla l'orologio. Silenzioso segnala a ognuno con un cenno che è ora, mentre i nostri posti vengono rilevati dalle truppe del turno di notte. Mi carico sulle spalle lo zaino e il sacco a pelo. Percorro il breve camminamento e sbuco in una fossa quadrata coperta da un tettuccio di assi e terra. Il rifugio, il nostro dormitorio.
Srotolo il sacco a pelo e v'appoggio vicino la mia sacca. Mi avvicino all'orologio, prendo da una tasca il mio tesserino magnetico. A disagio, fisso la sottile banda magnetizzata che attraversa il rettangolo di plastica. Nella sua apparente uniformità è scritta la mia vita: tutti i giorni, passati e futuri, secondo il tempo che mi è assegnato. Un segreto condiviso solamente dal tesserino, carta di credito di un deposito di cui non mi è dato sapere il saldo, e dal computer, che registra (regola?) il mio vivere.
Quanto tempo mi resterà ancora?
Timbro, infilando di taglio nella sottile fessura del lettore il tesserino. Una spia rossa si accende per un breve istante, beffarda: un messaggio che non conosco (e non conoscerò mai) è stato registrato, dettato da impulsi alieni ai miei sensi.
Mi allontano impotente dal lettore. Mi infilo nel mio sacco a pelo. Anche per oggi è finita.
 

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