venerdì 21 marzo 2025

Pierfrancesco Prosperi: Non si torna indietro


Anche quel giorno mi svegliai avvinghiato al cuscino. Mi sollevai sui gomiti strabuzzando gli occhi. Il letto appariva sconvolto, le lenzuola sprimacciate, le coperte erano cadute sul pavimento.
Mi sentivo malissimo. Barcollai fino al bagno e dall'armadietto semiaperto arraffai dal solito flacone due, tre pillole, le solite. Le mandai giù senz'acqua e mentre deglutivo ero già col capo sotto il rubinetto aperto, cercando di dimenticare gli incubi di quella notte.
Vivevo come in un sogno. È l'unica espressione che posso usare per descrivere la confusione mentale di quei giorni, e per di più ho la sensazione che la mia volontà e la mia memoria procedessero a sbalzi. Non ricordo di essermi vestito, eppure la scena successiva di quel sogno ad occhi aperti mi trovava per la strada, lungo il marciapiedi percorso da una folla allegra e vociante. E ricordo anche che era sera, fuori era buio, dovevo aver dormito buona parte della giornata. Era una sera d'autunno e un venerdì, e questo spiegava il movimento colorato dei pedoni e il traffico caotico per le strade.
La gente stava preparandosi a due frenetici giorni di festa. Io stavo preparandomi a due giorni d'incubo, da trascinarsi fra il pub, il letto e le passeggiate senza meta con le mani in tasca, pause tra una sbronza e la successiva. Non ero più io.
E Laura, quella cretina, era andata a farsi mettere sotto da un taxi, tre mesi prima.
All'inizio l'avevo presa abbastanza bene. Quando mi telefonarono la notizia era lunedì e decisi ipso facto di fare un viaggio di due o tre giorni, e difatti fino a mercoledì sera non fui in grado di ricordare ii mio nome. Quando ebbi smaltito l'effetto della droga non mi sentivo troppo male. Dormii per altre dodici ore e venerdì tentai persino di lavorare.
Non mi preoccupai più di tanto del fatto che non riuscivo a concludere nulla. Lasciai perdere e mi riposai fino al lunedì successivo. Ci vollero diversi giorni prima che mi rendessi conto che, ogni volta che tentavo di accostare la matita al foglio, sentivo chiudersi automaticamente le saracinesche del cervello e restavo per ore a tracciare geroglifici idioti sul bordo del tavolo da disegno, cercando invano di afferrare qualche appiglio. In altre parole, un tentativo dopo l'altro mi convincevo di aver perduto la mia capacità creativa. Ammetterete che per un disegnatore di fumetti questo non è un piccolo inconveniente.
"Cristo" pensai "dev'essere simile a quello che prova un impotente quando cerca di farselo rizzare".
Seppi poi che il paragone era esatto. Me ne accorsi quando cercai di passare a vie di fatto con una dattilografa del West End che avevo portato fuori a cena un paio di volte. Per la prima volta, non combinai nulla. Questo succedeva circa un mese dopo la scomparsa di Laura.
La mia abilità fumettistica e la mai potenza virile calavano di pari passo, in modo fin troppo avvertibile. Spesso, quando stavo con Laura, mi era capitato di pensare che quella ragazza aveva colmato un grosso vuoto nella mia vita. Ora mi accorgevo che il vuoto lei me l'aveva lasciato, che ci fosse prima o no. Aveva assorbito ed esaurito completamente ogni mia capacità, ogni mia risorsa di fantasia, di impulso creativo, di ambizione di successo. Le scadenze editoriali mi misero definitivamente fuori combattimento. Quando ebbi spedito alle due riviste cui collaboravo le strisce che avevo disegnato in sovrappiù in modo da poter sempre avere un certo margine di sicurezza, mi resi conto che piuttosto che inventare strane giustificazioni o spiattellare semplicemente la verità, era molto meglio, come feci, staccare il telefono e cercare di accantonare tutta la faccenda. Momentaneamente.
Quel "momento" durava da quasi tre mesi. In luogo delle telefonate, mi erano arrivate due raccomandate dal tono piuttosto esplicito e glaciale, e io affogavo le mie giornate nell'inedia, rendendomi vagamente conto che il transitorio stava diventando permanente e che nulla, salvo un miracolo, avrebbe potuto rendermi la perduta vitalità, quella che un tempo era stata pazza e creatrice, smaniosa e animalesca, quella che mi aveva fatto fare in poco tempo grandi passi nel mondo del fumetto e che la stessa Laura aveva qualche volta trovato esuberante.
Gli sceneggiatori smisero di spedirmi le sceneggiature. Gradualmente la cassetta delle lettere rimase vuota. Un paio di volte sentii suonare il campanello a lungo, rabbiosamente, e mi limitai a prendere un altro cuscino e a schiacciarmelo attorno alle orecchie.
Così, dopo tre mesi ero un relitto, che si trascinava da uno stupido passatempo a un altro, da un giorno a un altro più lungo e tedioso dei precedenti. E fu quella sera, quel venerdì sera che ero uscito senza meta dopo un lungo sonno, che lo scienziato pazzo mi disse: «Io posso aiutarvi.»
Fu in un posto pieno di gente strana, dove ero entrato unicamente perché ero sicuro di non conoscervi nessuno. Il piatto principale della festa era l'erba e la gente fumava riunita in piccoli gruppi accatastati su larghi divani coperti di pelo e su enormi tappeti cosparsi di cuscini.
C'era buio e aria pesante. Lo scienziato pazzo (io ancora non lo conoscevo) era seduto in un angolo, al centro di un gruppetto di giovanissimi dall'aria piuttosto ambigua che andavano cedendo al sonno, con la bella testa bianca rovesciata in alto all'indietro e una mano che sorreggeva gli occhiali. Dal suo alito si sentiva chiaramente che si era limitato ad ubriacarsi.
Qualcuno mi passò una mezza sigaretta, e dopo due o tre boccate la mia mente si sciolse. Sentii riaffacciarsi davanti agli occhi contemporaneamente tutti i ricordi di quei tre mesi, ma in forma meno angosciosa, più distaccata. Li avevo sempre paurosamente presenti e vicini, ma mi sentivo meno coinvolto. Non è facile a spiegare. Stavo rivedendo il film della mia tragedia, seduto in una poltrona di platea. E mentre lo guardavo le mie labbra parlavano e raccontavano al vecchio, come a uno spettatore cieco, tutto ciò che scorreva sullo schermo. Mentre parlavo piangevo, e ciò nonostante non mi ero mai sentito così sereno.
E soprattutto, descrissi a lungo, appassionatamente, senza imbarazzo alcuno, l'ultima notte d'amore passata con Laura, quella notte di cui ogni momento mi era rimasto impresso, fissato nella mente, quella notte nel cui ricordo mi beavo e mi dannavo. Gli raccontai tutto, nei minimi particolari, più volte, anche se in realtà non parlavo con lui. E fu al termine che lo scienziato pazzo mi disse: «Credo di poter fare qualcosa per voi.»
Si chiamava Sexton Ward, ma questo lo appresi solo il giorno dopo, quando risvegliandomi sul tappeto del mio soggiorno mi ritrovai infilato nel taschino della camicia un biglietto da visita gualcito. Ricordavo assai poco della sera precedente e mi ci volle un po' per ricollegare i frammenti sparsi, ma anche nella mia confusione mentale sentivo che quell'indirizzo era molto importante per me.
Ci andai la sera successiva, dopo aver bighellonato un'intera giornata attorno ai cantieri di costruzione dei nuovi ponti sul Tamigi. Impiegai diverso tempo a localizzare la strada. La casa era piuttosto vecchia ma ben tenuta, l'interno era invece moderno, con un contrasto che mi stupì. Dal portoncino socchiuso dell'ingresso intravidi una poltrona Le Corbusier e una lampada sferica di vetro opalescente, posata su una folta moquette blu. Dopo aver suonato un paio di volte il campanello senza risposta, entrai un po' titubante.
Dall'altra parte della casa giungevano le voci di un colloquio piuttosto animato
«Vi assicuro, signor Harding, che non dipende dalla mia volontà potervi aiutare. Ciò che mi chiedete è assolutamente impossibile.»
«Andiamo! Se si tratta di spese tecniche, la cifra che la mia società è in grado di offrirvi può coprire tutto, lo sapete. Con un congruo compenso per voi.»
«Non mi avete capito. La mia attrezzatura non può assolutamente funzionare nel senso che voi dite»
«Ma vi rendete conto di quanto sarebbe importante per noi conoscere in anticipo le innovazioni tecniche e di carrozzeria delle auto che usciranno nei prossimi anni? Potremmo risolvere i più grandi problemi che attualmente rallentano il nostro sviluppo. Potremmo...»
«Vi ho già detto, signor Harding, che non è possibile e basta. Se vi calmaste e ci pensaste, ci arrivereste da solo. Le macchine in questione le dovete disegnare voi, perché oggi non esistono. Il futuro non esiste, perché deve essere ancora costruito. E come volete che io possa farvi andare in un posto che non c'è?»
Sentii una porta sbattere. Un attimo dopo, un tipo dai tratti affilati, vestito di chiaro con un'orrenda cravatta coloratissima, l'aria vagamente gay, mi passò accanto fendendo l'aria, teso e appuntito come una freccia, senza neppure vedermi. Il portoncino di casa rintronò alle sue spalle.
Sexton Ward comparve nel corridoio qualche istante dopo, con addosso un camice color aragosta. Pensai che non mi avrebbe riconosciuto, dal momento che ci eravamo presentati in condizioni di ebbrezza per entrambi, invece parve ravvisarmi subito.
«Ah, voi siete quello dal cuore infranto. Venite, accomodatevi.»
Lo seguii nel suo studio, tutto bianco con pareti rivestite di scaffalature metalliche stipate di libri. Mi fece sedere su una poltroncina metallica Eames e si sprofondò su una poltrona dall'altra parte del tavolo.
«Vengo subito al punto, signor... Fear, vero? Pensateci su e rispondetemi. Potrebbe esservi di qualche aiuto rivivere gli ultimi momenti che avete passato con quella, uh, signorina?»
«Avete inventato una macchina per viaggiare nel tempo?» mi accorsi di dire una frase ridicola.
«Rispondetemi» insisté lui.
«Cosa intendete per rivivere?» mi informai ancora. «Fisicamente, mentalmente? Un'illusione psicosensoria?»
«Per rivivere intendo rivivere. Io sono in grado di rispedirvi, mente e corpo, nel passato, nel giorno e nell'ora che preferite, e di farvi rivivere letteralmente, come se fosse la prima volta, le esperienze che avete avuto in quell'epoca.»
«E per quante volte potete farlo?»
«Per tutte le volte che voglio. Per tutte le volte che voi volete. Una, cento, diecimila.»
Giocherellavo con un massiccio portacenere di vetro. «Se ho ben capito» dissi «non è che mi farete una iniezione per farmi dormire e nel sonno sognare di rivivere eccetera eccetera.»
«Sì, avete capito bene.» Il professore abbassò il capo con convinzione. «Non si tratta di un'illusione. Niente droghe o ipnotismi. Ciò di cui sto parlando è un vero e proprio VIAGGIO.»
Stavo pensando alla massima velocità possibile, cercando di scartare a priori l'idea di avere davanti un monomaniaco. Pensavo alle implicazioni pratiche. Mi chiedevo se una simile esperienza, ripetuta varie volte, sarebbe stata in grado di rendermi possibile un reinserimento, almeno parziale, nella vita e nel lavoro.
E pensavo anche ad altre cose. E, che il diavolo se lo porti, Sexton Ward pareva leggermi dentro.
«Chiarisco subito che ci sono delle limitazioni a quello che posso fare con la mia apparecchiatura. Una è fondamentale, basilare. Il passato non si può cambiare. Voi, se ci andrete, non potrete modificarne una virgola. Il perché è noto a chiunque si interessi a questi studi, ma ci potete arrivare anche voi: modificando un qualsiasi particolare del nostro passato, con effetto di reazione a catena verrebbe sconvolto o annullato il nostro presente, che da quel passato deriva, e probabilmente voi e io scompariremmo in un amen, insieme a chissà quante altre persone. Quindi toglietevi dalla testa l'idea di poter avvertire la vostra amica in merito alla sua prossima fine. Voi non potete fare nulla per salvarla, signor Fear. Questo deve essere ben chiaro.»
«E le altre limitazioni?» chiesi con un leggero tremito nella voce.
Ward tossicchiò «Il punto debole di tutta la faccenda» disse «è che l'apparecchiatura è tuttora in fase sperimentale. In effetti, è appena uscita dalla fase progettuale.»
«In altre parole» dissi asciutto «non sapete se funziona o no.»
«In linea teorica il funzionamento dovrebbe essere perfetto» replicò lui. «Ossia, so che la macchina è costruita perfettamente. Solo che, a tutt'oggi, non ho ancora avuto modo di spedire qualcuno nel passato.»
«Dunque, stavate cercando una cavia, l'altra sera?» Per quanto mi sforzassi, non mi riusciva di assumere un tono troppo risentito.
Il professore allargò le braccia. «Io vi ho detto tutto, con sincerità, mentre avrei potuto mentire con la massima facilità. Me ne dovete dare atto. Ora, siete voi che dovete rifletterci e darmi una risposta.»
Tornai a casa con la testa in fiamme, col proposito di chiudermi dentro a pensarci per tre giorni buoni. Invece, la mattina dopo avevo già deciso. Non potevo decidere diversamente, perché comunque fosse andata non potevo stare peggio di così. Se Ward non aveva mentito, la sua macchina infernale funzionava realmente, avrei potuto disporre di una potente àncora di salvezza, da usare ovviamente con il massimo senso della misura. In un certo senso sarebbe stata come una droga, ma mentre le droghe tradizionali mi estraniavano sempre di più dai miei simili, quella avrebbe potuto, forse, restituirmi alla vita.
Così, la sera stessa ero di nuovo davanti alla casa di Ward. Gli avevo telefonato per avvertirlo e lui mi aveva detto di arrivare piuttosto presto. In effetti, non era ancora ora di cena.
Ward venne ad aprirmi. Rividi la moquette blu dell'ingresso; una luce discreta pioveva negli ambienti da feritoie e cavità dissimulate nelle pareti. Lo scienziato aveva addosso la solita giacca arancione e sorrideva, e  che il diavolo se lo porti!  riuscì a darmi con la sua aria di complicità l'esatta impressione di entrare in un casino o nello studio di un dermosifilopata. Mi guidò in una stanza in fondo al corridoio e accese la luce. Era una normale stanza di forma pressoché quadrata, illuminata dai soliti buchi nel muro, completamente priva di mobili, tutta dipinta di giallo, moquette compresa. Al posto dove solitamente si appende il lampadario occhieggiava una lente nera simile a quelle usate per telecamere nascoste nei films di spionaggio.
«Be'» dissi dopo un po' «che io sia dannato. Non mi sono mai interessato di macchine del tempo, ma un paio di volte ne ho disegnata una in un fumetto di fantascienza. Non so se avete mai letto le avventure di Space Batrax su... no, non credo che le abbiate lette... e le ho dato l'aspetto di una gigantesca sfera di cristallo con al centro un sedile tipo trono tutto cromato, da cui partivano un sacco di fili che sparivano nel pavimento. Davanti poi c'era un quadro di controllo al cui confronto i comandi dello Shuttle sembravano il cruscotto di un Austin Metro. Insomma, mi aspettavo qualcosa di molto complicato.»
Ward scosse il capo divertito. «La mia apparecchiatura per viaggiare nel tempo è estremamente semplice, anche se non posso dirvi per ovvii motivi di riservatezza com'è composta. Pensate comunque che sono riuscito a occultarla tutta in venti centimetri di controsoffitto» indicò col pollice verso l'alto «ed è per questo che non la vedete. L'unica parte visibile è l'estremità del proiettore, e con questa» indicò una specie di interruttore della luce, vicino alla porta «posso comandare l'accensione del raggio proiettante e regolare la durata del viaggio. Anche la preparazione del viaggio non richiede nessun preliminare. Possiamo cominciare in qualsiasi istante. Allora, ve la sentite?»
Il dubbio che fosse un imbroglione si fece più forte. L'assenza di qualsiasi apparecchiatura visibile aveva aumentato le mie perplessità, ma ero deciso a non farci caso.
«Perdinci, se me la sento» dissi tutto d'un fiato.
«Bene.» Aprì la porta del corridoio e portò dentro una sedia pieghevole di perspex, di quelle che si vedono nelle sale d attesa. La collocò esattamente al di sotto dell'occhio del proiettore, stando attento a centrarla. Altro che sediletrono!
Non disse nulla. Indicò la sedia con un gesto fin troppo plateale, e io sentendomi spaventosamente cretino mi sedetti stando attento a non spostare la seggiola. Non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo verso l'occhio che mi fissava il centro del cranio.
«Siete pronto?» chiese il professore. «Penso che un viaggio di poche ore possa bastare, vero? Comunque possiamo ripeterlo quando volete...»
Accennai di sì col capo. Un bisillabo mi scoppiò nel cervello mentre aspettavo e rimbalzò da una parte all'altra del mio essere. Laura. Laura. LAURA.
Con la coda dell'occhio vidi o intuii il professore avvicinarsi alla sua rudimentale apparecchiatura di controllo. Strinsi i denti. Un attimo dopo la luce si spense, poi si riaccese e strinsi il bordo del sedile con le mani.
Aspettai un lunghissimo minuto. Due. Tre. Quando non resistetti più e mi voltai, sempre tenendomi stretto alla sedia, il professore mi sembrò invecchiato di colpo. Mi guardava come spiritato, tutto teso in avanti, le vene del collo in rilievo, la fronte lucida di sudore, come se pendesse dalla mie labbra.
«Allora?» dissi.
«Allora?» gridò lui quasi contemporaneamente.
"Mi prende in giro" gridava qualcuno dentro di me "si diverte con me e mi prende per le chiappe". Ma non osavo muovermi dalla sedia.
«Sentite» disse il professore con voce più calma «io non pretendo certo che mi raccontiate i particolari. Mi basta sapere se è andato tutto bene.»
«Di cosa cavolo state parlando?» biascicai. «Io non mi sono mosso di qui e voi lo sapete benissimo.»
Il professore mi guardò con aria incredula. «Volete dire che non vi siete accorto di nulla?»
«E di che cosa avrei dovuto accorgermi? Sentite per conto mio vi siete sbagliato e invece di accendere il vostro cronocoso avete premuto per un momento l'interruttore della luce. Tutto qui.»
Ward stava riflettendo intensamente. «Guardate l'orologio» disse. Guardai l'orologio. Le sei di mattina.
«Nove ore e mezza» disse Ward «Vi ho fatto fare il viaggio due volte, sapete? E voi non ricordate nulla.»
Scossi l'orologio accostandolo all'orecchio «Non mi vorrete far credere di avermi spedito realmente nel passato, vero? Non me la date a bere. Non mi avete fatto assolutamente niente.» Ero deluso e furioso, eppure stranamente calmo.
Ward si prese la testa bianca fra le mani. «Lasciatemi pensare» disse. «E alzatevi pure da quella sedia, restare lì impalato non vi serve a niente. Dunque voi non avete visto nulla, non avete sentito nulla. Solo una breve oscurità. Io invece ho visto il vostro corpo sparire da quella sedia per cinque ore, ricomparire e sparire nuovamente. E sono rimasto tutta la notte ad aspettarvi.» Dietro gli occhiali aveva grosse occhiaie livide.
«Voi non mi avete fatto niente» ripetei scuotendo il capo.
«Lasciatemi pensare. Sospettavo qualcosa del genere.» Si stropicciò gli occhi, si passò più volte le mani sui capelli. «Sapevo che doveva esserci un meccanismo di salvaguardia per impedire cambiamenti nel passato. Sapevo che esisteva la possibilità che non si ricordasse nulla del viaggio.»
«Ah sì?» dissi.
«Sì. Ma la cosa non mi era del tutto chiara. Vi dissi che non avreste potuto fare nulla per salvare quella ragazza. Questo perché la teoria mi suggeriva che il viaggio a ritroso nel tempo sarebbe stato possibile solo a patto di non modificare alcunché. Non sapevo come questo potesse essere garantito, ma il vostro caso me lo ha fatto capire in modo lampante.»
«Siate gentile» dissi asciutto «fatelo capire anche a me.»
«Vedete, voi avete vissuto nove ore nel passato senza sapere di riviverlo. Come ho fatto a non pensarci prima? Era impossibile che lo riviveste consapevolmente, perché non avreste potuto fare gli stessi gesti, dire le stesse parole di tre mesi fa sapendo di farlo per la seconda volta. Per non modificare il passato era necessario che lo riviveste come lo avevate vissuto la prima volta, senza di che la vostra consapevolezza, la vostra stessa presenza, nel passato, di uomo proveniente dal futuro e consapevole di ciò, avrebbe provocato microscopici cambiamenti con conseguenze catastrofiche per tutti. Evidentemente voi non potete ricordare ciò che non sapete di aver rivissuto.»
«Non credo una sillaba di quello che dite» gridai.
«Bene. Alzatevi, venite fuori. Avanti.»
Mi alzai e caddi in avanti sul pavimento giallo, puntellandomi all'ultimo momento sulle mani e sulle ginocchia. Mi sentivo le gambe tagliate, le reni doloranti, le ossa rotte. Per Cristo, era una condizione che ricordavo benissimo, anche se da tre mesi...
Mi rialzai. Il bacino mi doleva a ogni passo all'attaccatura delle gambe. Nel corridoio spalancai la tapparella. La notte di Londra stava illividendo in un'alba grigia, rigata di nuvole.
«Oh, merda» dissi con un filo di voce.
Alle mie spalle la voce del professore continuava con tono cattedratico.
«Un blocco mentale automatico. Ecco ciò che rende possibili i viaggi nel tempo e insieme ci preclude ogni possibilità di sfruttarli scientificamente. Il soggetto rivive veramente la propria esperienza, così veramente che essa è esattamente uguale alla prima volta, senza quindi nessuna sovrapposizione di ricordi. Voi avete fatto l'amore tutta la notte con quella donna» continuò inesorabile mentre mi avviavo con passi da ubriaco, barcollando, verso la porta «e il vostro corpo lo ricorda. Ma per la mente è come se il viaggio non fosse mai avvenuto, perché essa si è sovrapposta esattamente alla vostra mente di allora, ogni pensiero sopra ogni pensiero, ogni ricordo sopra ogni ricordo, come la proiezione di uno stesso film è esattamente uguale alla precedente. Quindi, nessuna consapevolezza, nessuna possibilità di ricordare» concluse mentre spalancavo la porta e mi lanciavo fuori stralunato, povero relitto d'uomo deluso e disperato, verso il nuovo giorno che cominciava a rianimare le strade.
Così stasera mi compro una pistola e domani mattina vado ad ammazzare quell'animale.

 

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