giovedì 27 marzo 2025

URANIA n.29 - Jack Williamson: Gli uomini della cometa




Su Phobos il tempo si calcolava come sulla Terra, perché gli antichi
conquistatori della piccola luna di Marte ne avevano modificato la rotazione
in modo da adattarla alle esigenze imperiali. Non solo: ne avevano coperto la
roccia con erba verde, l’avevano dotata di un’atmosfera artificiale e da lì
avevano comandato sui pianeti come se fossero isole prigioniere.
Ma le orgogliose navi imperiali erano state sconfitte e dimenticate molto
prima della metà del trentesimo secolo, che è l’epoca in cui comincia questo
racconto: le isole intorno al sole erano tornate libere e l’ultimo erede delle
vaghe memorie imperiali non era altro che un prigioniero inquieto nell’ormai
declassato Palazzo di Porpora.
La notte cedeva il posto a un’alba minacciosa, e la lunga mezzaluna di
Marte si alzò come una scimitarra chiazzata di sangue davanti al sole. Sotto la
sua luce rossastra, una porta scorrevole si aprì e il giovane signore del
palazzo uscì dalla gigantesca torre centrale per incamminarsi nel giardino
pensile dell’ala ovest.
Era un uomo snello, con indosso la divisa verde della Legione dello
spazio, ma senza gradi e senza onorificenze. La faccia era ancora quella di un
ragazzo, ed era corrucciata; aggrottando le sopracciglia, scrutò il cielo buio a
occidente. Un altro uomo in verde sbucò dalla porta dietro a lui.
«Bob Star, dove…? Ah, eccoti, ragazzo!» Il più anziano soldato dello
spazio era basso, calvo e grasso, la tunica coperta di decorazioni accumulate
durante una lunga carriera ma ora sbottonata per la fretta. «Non puoi
aspettare un momento il povero Giles Habibula?»
«Mi dispiace, Giles.» Bob Star si girò rapidamente e la faccia abbronzata
dal sole si rilassò mentre sorrideva con affetto alla sua guardia del corpo.
«Sono uscito solo per dare un’occhiata al cielo. Devi seguirmi a ogni passo
che faccio?»
«Sai che devo» ansimò il grassone. «Hal e io abbiamo l’ordine di badare
alla tua vita e di difenderla con la nostra, se è il caso. È tuo padre che lo
vuole, e il grande John Star è un ufficiale che merita obbedienza.»
«Il grande John Star!» Per un momento l’amarezza soffocò la voce del
giovanotto, ma si riprese quando vide l’espressione offesa del volto del fedele
legionario. «Sì, immagino che mio padre sia veramente grande.» Annuì
semplicemente. «So che è l’eroe di una terribile guerra, il proprietario di
Phobos e il marito di mia madre.
«Ma perché mi fa sorvegliare come un criminale?»
«Per piacere, ragazzo!» Giles Habibula arrancò faticosamente al suo
fianco, nel giardino trapiantato che spandeva i profumi della lontana Terra.
«Forse tuo padre è più severo del vecchio Giles, ma sta solo cercando di fare
di te un soldato.
Inoltre, sai perché devi essere sorvegliato.»
«Per la mia sicurezza.» Il giovane alzò con impazienza le spalle esili. «O
così dice mio padre. Ma io sono un diplomato dell’Accademia della Legione,
e con lode, mi hanno insegnato come difendermi. Perché mio padre non
lascia che sia io a pensare alla mia sicurezza, come chiunque altro?»
«Perché c’è in ballo qualcosa di più importante della tua vita, ragazzo.»
Giles Habibula lanciò un’occhiata sospettosa ai viali deserti e allontanò il
giovane dalla porta. «Sei in pericolo più di quanto credi. Non è un segreto,
per Hal e me, che il Consiglio abbia deciso di nominarti erede all’ufficio di
tua madre.»
La faccia abbronzata di Bob Star sembrò all’improvviso più sottile per la
preoccupazione.
«Stai parlando dell’…AKKA?» La voce gli mancò quando
dovette pronunciare l’acrostico che nascondeva il misterioso segreto. Era
la risorsa più preziosa dei pianeti uniti, un’arma così potente che il suo
custode doveva giurare di rivelarne il principio solo al suo successore.
«Infatti, ragazzo: sarà questo il tuo compito» disse con solennità il
vecchio legionario. «Il compito più nobile che essere umano possa sognare:
essere l’unico depositario della grande arma, come oggi lo è tua madre. È
stato il Consiglio a dare l’ordine di guardarti a vista fin dal giorno che sei
stato scelto. Hal e io siamo fieri di servirti: allora, perché fare tante storie?»
«Perché ora come ora non custodisco alcun segreto» protestò il giovane.
«So soltanto che mia madre me lo rivelerà quando i medici diranno che in lei
non è più al sicuro… e spero che quel giorno non venga per altri cent’anni
almeno. Devo considerarmi prigioniero per tutto questo tempo?»
«Forse gli ordini ti sembrano un po’ troppo severi.» Il vecchio fece un
cenno di simpatia con la testa calva. «Ma perché te la prendi tanto? Siamo
confinati su Phobos, è vero, ma è un piccolo paradiso. Viviamo nel comfort
del più grande palazzo del sistema solare, per non dire della magnifica
cantina piena dei vini più pregiati. Dimmi, che male c’è in tutto questo ben di
Dio?»
 

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