venerdì 9 maggio 2025

A. Bertram Chandler: Droga per colazione



Quella sera avevamo parlato di parecchi argomenti. Era stato uno di quei
ricevimenti in cui tutti hanno un parere da esprimere su questo, su quello, o su tutto.
E, cosa alquanto sorprendente, quasi tutti i presenti sapevano con esattezza di che
cosa stessimo parlando. Bingham, per esempio. Quando Croucher dichiarò con
grande fiducia che la vecchia madre natura avrebbe provveduto in un modo tutto suo
a controllare l’aumento della popolazione, Bingham scoppiò in una risata che però
non aveva niente di allegro.
— Quello — mi bisbigliò mia moglie — è uno che sa troppe cose. Ma perché sarà
così spaventato?
Bingham riuscì a sentirla. E si rivolse, a noi.
— Sono spaventato, infatti, e non mi importa che lo si sappia. Sareste spaventati
anche voi se...
— Se cosa? — chiese Croucher, reinserendosi nella conversazione.
— Se vi capitasse di assistere agli esperimenti che faccio. Che faccio? In realtà si
effettuano da soli. Secondo me bisognerebbe mostrarli ogni sera su tutti gli schermi
TV di questo mondo. Allora la gente si renderebbe conto... — Bingham vuotò il
bicchiere, si allontanò barcollando per andare al bar a farselo riempire di nuovo, poi
tornò da noi. — Perché domani non venite all’università? Dovreste vedere
l’esperimento...
Croucher disse che non aveva tempo. Anche sua moglie aveva altri impegni.
Sandra ed io, invece, eravamo liberi. La vita di uno scrittore, libero professionista,
presenta anche qualche vantaggio. Ci mettemmo d’accordo, poi ci trovammo
coinvolti in una conversazione sulla contestazione studentesca, e finimmo col
discutere il problema della droga. Tutti ebbero qualcosa da dire, nessuno ascoltò, e
tutti trascorsero una serata piacevole.
Il mattino seguente mi chiesi se Bingham si fosse ricordato di averci dato appuntamento.
Telefonai all’università. Se ne era ricordato. Ci disse che l’avremmo trovato
nella palazzina delle Ricerche Biologiche. La suddetta palazzina risultò una scatola
rettangolare di cemento in assoluta disarmonia con lo pseudogotico degli altri
edifici. Ci presentammo alla ragazza seduta dietro la scrivania del primo ufficio
accanto all’ingresso. Lei ci disse che il dottor Bingham ci stava aspettando, e ci fece
accompagnare fino al suo laboratorio da un fattorino in divisa.
Seguimmo l’uomo per corridoi spogli, fortemente illuminati, che ci sembrarono
lunghi chilometri. Ed alla fine si arrivò davanti a una porta grigia tagliata in una
parete dello stesso colore. Era, lo ricordo, la porta numero 13. Se questo avesse o no
un significato, non lo posso dire.
La nostra guida bussò alla porta, e Bingham venne ad aprire. Indossava un camice
bianco costellato di macchie ed un abito gualcito. L’espressione era la sua solita:
preoccupata. Cercò dentro di sé una scusa per sorridere, e disse:
— Entrate. Benvenuti nella Città del Futuro.
Città del Futuro?
La prima cosa che notai fu l’odore. Come molti, anch’io da ragazzino avevo
posseduto dei topolini bianchi, e durante la seconda guerra mondiale avevo prestato
servizio per diversi mesi su una vecchia nave da carico infestata dai topi. Perciò
conosco, e so riconoscere il puzzo di quei roditori. Ma quel fetore era addirittura
essenza concentrata di topo.
— Ci farete l’abitudine — mi disse Bingham. — Col tempo ci si abitua a tutto.
Fece una risata rauca. — Questo è il nostro guaio. Ci si abitua alle condizioni più
spaventose, e non facciamo niente per eliminarle.
— Spaventose, è la parola esatta — disse Sandra attraverso il fazzoletto che si era
portata al naso.
— Ma non avete ancora visto niente — disse Bingham.
— Se è spaventoso quanto il puzzo — gli disse mia moglie — non credo di averne
molta voglia.
Era proprio spaventoso quanto il puzzo.
Si trattava di un’enorme gabbia dalle pareti di vetro che permettevano di osservare
i interno. C’erano ventiquattro piani, in origine trasparenti come i lati della gabbia,
ma ora orribilmente sudici. Su ogni piano c’erano strade fatte di piccole case a forma
di scatola. Ogni piano era collegato all’altro da scale attaccate alle pareti interne della
gabbia. Mi ricordai dei topolini che avevo posseduto da bambino. Avrebbero
considerato una gabbia simile una specie di paradiso dei topi... però io non ho mai
posseduto più di sei piccoli animaletti alla volta. Quello che avevo di fronte, sia
chiaro, non era il paradiso dei topi. Somigliava più all’inferno dipinto da Hieronymus
Bosch, solo che non era popolato da esseri umani, ma da una massa in agitazione di
piccoli roditori dal pelo bianco.
— Quanti... quanti sono? — chiese Sandra con voce soffocata.
— Troppi — rispose Bingham. — Sono troppi, signora Whitley. Cinquemilacento,
per la precisione. Diciassette volte più numerosi di quanti ne potrebbero vivere in
questo spazio in condizioni normali.
— E... per il cibo?
— Sono ben nutriti. Una dieta bilanciata, ricca di tutto quello che serve loro per la
salute fisica. Hanno possibilità di fare molto moto grazie alle scale che uniscono un
piano all’altro...
— E combattono tra loro, anche, immagino — dissi, guardando con un misto di
orrore e fascino un povero animaletto, un pezzato, acquattato ai piedi di una scala.
Aveva perso quasi tutta la coda, ed il mozzicone che gli era rimasto sanguinava
ancora.
— Non certo per il cibo. Una volta stabilita la gerarchia per attingere al nutrimento,
tutti quanti la rispettano. Osservate con attenzione. Come potete vedere, i topi ai piani
superiori sono tutti ben nutriti e con il pelo lucido. Quelli delle classi inferiori sono
scarni e arruffati... Ma il fenomeno che spaventa è l’apatia generale. Nemmeno il
sesso sembra più interessarli. In un primo momento abbiamo pensato che il super
affollamento avrebbe raggiunto limiti insostenibili dato che madre natura, come dice
Croucher, segue sempre il suo corso. Invece abbiamo dovuto introdurre topi nuovi
per rimpiazzare quelli morti...
— Capisco — dissi, del tutto a sproposito. Quella gabbia di vetro aveva un suo
fascino mostruoso. Mi ricordava lontanamente le città viste in Oriente. Ma gli abitanti
di quelle città erano ancora troppo fecondi. Forse in quel ambiente artificiale
potevano aver trascurato qualche fattore. Ricordai i negozi di droghe viste nei
quartieri più poveri di Calcutta. Cosa c’era scritto sulle insegne? “Autorizzati a
vendere Charas, Bhang e Ganja”... Poteva esserci una relazione? L’animale umano
che vive in città superaffollate ha forse bisogno di qualche droga che lo metta in
grado lui di copulare, e la compagna di concepire?
— A cosa stai pensando? — chiese Sandra. Teneva ancora il fazzoletto premuto sul
naso, ma non poteva staccare gli occhi dalla brulicante città di topi.
— Mi è venuta una piccola idea...
— Quale sarebbe?
Scoppiai a ridere. — Lascia perdere. Io sono soltanto un povero profano.
— L’etologia è una scienza giovanissima — disse Bingham con serietà. — Le
conoscenze di tutti noi sono di poco superiori, se poi lo sono, a quelle di un profano.
— Come volete, allora. Mi è venuto in mente che non avete riprodotto una delle
caratteristiche di una città sovraffollata. Il fumo della droga.
Bingham si mise a ridere.
— I topi sono animali intelligenti, però non credo che siano in grado di arrotolarsi
sigarette di un certo tipo, anche se i nostri tecnici potrebbero magari rifornirli di
piccoli accendini in miniatura.
— Eliminiamo quindi la marijuana. Però ci sono altri sistemi per fare un “viaggio”,
come si dice in gergo. Che ne direste dell’hashish?
Bingham mostrò un maggiore interesse. — È un punto da tenere in considerazione,
Whitley. Ma come ottenere la droga, anche se a scopo di ricerca scientifica? Sapete
bene quali siano le consuetudini?
— Troppo giusto. Però... possibile che qualche vostro studente?...
— Voi mi state ficcando in testa idee molto illegali.
— Oppure, quelli del vostro laboratorio di chimica potrebbero prepararvi qualche
dose di LSD...
— Preferirei lasciarli fuori da una faccenda del genere. — Poi, parlando più a se
stesso che a noi, borbottò: — Hashish... Charas... Cannabis Indica... Si possono
prendere in modi diversi... come cibo, o come bevanda...
— Vogliamo andare, George? — disse Sandra, in tono di supplica. — C’è troppo...
puzzo. Scusate, dottor Bingham, ma mi sento svenire.
Così ce ne andammo, ed il dottor Bingham, mentre ci accompagnava fino alla porta
dell’edificio, ci promise di tenerci informati e di farci sapere quando sarebbe stato
interessante per noi tornare all’università. Mentre tornavano a casa in macchina,
Sandra, mi disse che sarebbe stato bello se lui si fosse dimenticato le sue promesse.
Quella mattina aveva già visto topi a sufficienza, in numero tale da bastarle
abbondantemente per tutto il resto della vita. Mi trovai propenso a darle ragione.
Rimasi alquanto sorpreso quando Bingham mi telefonò, circa una settimana dopo.
Per esperienza sapevo che le promesse di chi vuole tenere informato qualcuno non
vengono mai mantenute.
— Potete venire? — mi disse.
— Sì — risposi. Sandra mi fece subito sapere che io potevo fare come volevo, ma
lei sarebbe rimasta a casa. A lei non piacevano, assolutamente non piacevano i topi, e
più ne vedeva più ne provava disgusto.
Bingham mi stava aspettando davanti alla palazzina delle Ricerche Biologiche, e
senza preamboli disse:
— Avete messo in moto qualcosa di importante.
Avevo messo in moto qualcosa? Cercai di mettermi sulla difensiva.
— È stata soltanto un’idea.
— Ma un’idea vostra, Whitley. Non temete, farò in modo che ve ne venga
attribuito il merito in pieno.
Ci avviammo al laboratorio, e lui non disse altro.
L’enorme gabbia con le pareti di vetro era ancora al suo posto. Il puzzo era terribile
come la volta precedente. Alla prima occhiata mi parve che la città dei topi non fosse
cambiata. Le masse pelose continuavano a brulicare, una sopra l’altra, con apatia,
dipingendoci la possibilissima fine dell’umanità.
— Non mi sembra di vedere niente di nuovo — dissi.
— Guardate attentamente. Ed ascoltate quello che vi dico. Sono riuscito ad ottenere
un pezzo di hashish... non importa come. L’ho ridotto in briciole e l’ho mescolato al
cibo. Ma i topi sono animali molto sospettosi. Forse lo sapete, se vi è mai capitato di
voler distruggere col veleno quelli di razza dannosa. Le “classi superiori” hanno fatto
la parte del leone, come sempre, e si sono mangiata la maggior parte del cibo,
trascurando tutti i pezzi con la droga. Anche le “classi medie” non sono affamate, e
hanno lasciato tutto l’hashish. Alle “classi inferiori” è rimasta una quantità di cibo
sufficiente al sostentamento, così non si sono trovate nell’obbligo di adottare nuovi
sistemi di nutrizione. Tutti, tranne uno. Proprio così. Lo vedete? Guardai verso il
piano inferiore della gabbia... anche senza sapere con esattezza cosa cercare. E vidi i
piccoli animaletti scarni, arruffati, che giravano senza soste in mezzo al loro
sudiciume. Nessuno mi parve diverso dai compagni in miseria.
— Non lì — mi disse Bingham. — Più in alto, a metà. Lo vedete? È quel piccolo
pezzato...
Lo vidi. E lo riconobbi. Non per il suo colore, anche se era uno dei pochissimi
animali non interamente bianco. Era quello che aveva avuta mangiata la coda. Adesso
però il moncherino si era cicatrizzato. Il topo si era ingrassato, ed il pelo, per quanto
non ancora perfettamente liscio, era già più lucido. Uscì dalla piccola scatola in cui
aveva preso alloggio (chi aveva sfrattato, e come?) e venne con decisione verso la
parete di vetro, guardandoci. Lui non era un vero albino, come la maggioranza dei
suoi compagni, quindi aveva gli occhi marroni, e non rossi. Ed erano... strani.
Accidenti, uno non si aspetta di essere guardato dall’alto in basso da un topo, un
animaletto al cui confronto l’uomo diventa una torre gigantesca, sia per intelligenza
sia per statura. Invece fu proprio quella la netta impressione che ne ebbi.
— È lui — disse Bingham,
— È salito di grado — dissi io.
— Infatti. — Bingham girò le spalle alla gabbia, e lentamente si avviò verso la sua
scrivania, dove c’erano due poltrone. Si accomodò in una, e mi fece cenno di sedere.
— Le droghe non sono materia mia, Whitley. Cosa ne sapete voi?
— Pochissimo. Solo quello che si legge.
— Ah... Pensavo che voi, come scrittore, ne aveste fatto qualche esperienza
personale. Pensavo che aveste provato gli allucinogeni, gli ampliatori di conoscenza...
— No.
— Peccato. Speravo proprio che foste in grado di spiegarmi quali sono gli effetti.
— Perché non li provate di persona?
Rise, a disagio. — Intellettualmente non vedo niente di sbagliato in questa idea.
Emotivamente... è diverso. Per la mia educazione, immagino. Sento che alcune cose
non devono essere fatte, e drogarsi è una di queste. — Riempì con cura una vecchia
pipa e l’accese. — Cosa può succedere quando si aumenta la conoscenza di un topo?
— chiese a un tratto.
— Cos’è successo fino a questo momento?
— Ve l’ho detto. Il nostro piccolo amico pezzato ha preso del cibo con l’hashish.
Ha morsicato una delle pastiglie che avevo preparato. Non aveva altro da mettere
sotto i denti, e probabilmente gli è piaciuta. Ne ha mangiato diverse... ma non lo
hanno messo fuori combattimento, come pensavo. Né lo hanno intontito. Ha raccolto
le palline di cibo che erano rimaste, e le ha fatte rotolare in un angolo, nascondendole
sotto un mucchio di rifiuti. Non interessavano a nessuno... per la verità, agli altri non
interessavano affatto.
«Durante la successiva ora di cibo fece valere i suoi diritti. Si fece avanti per
ottenere la sua parte, più della sua parte, di cibo normale. E tutte le palline di hashish.
Poco dopo mi sono accorto che si era costituito un harem con femmine delle classi
inferiori. Queste femmine, come forse avete notato, sono molto più aggressive dei
maschi... ma in qualche modo lui è riuscito ad acquistare ascendente su di loro. Una
di queste femmine, tra l’altro, è la piccola disgraziata che poco tempo fa gli ha
staccato la coda con un morso.
—Gli è andata bene.
— Mmm. Sì, molto bene. Ieri la sua... banda ha fatto una scorreria nelle scatole dei
livelli medi, si è sbarazzata di quelli che le occupavano, e ha preso per sé i nuovi
alloggi.
— Una specie di “Re della Montagna” dei roditori.
Mi guardò. — Già. Forse avete ragione. Non avevo mai considerato la cosa sotto
questo punto di vista. Degli assassini, ricompensati con hashish...
— Immagino che adesso smetterete di darglielo — dissi.
— Perché?
— Non pensate che l’esperimento vi sia ormai sfuggito di mano?
— Si sta sviluppando in una direzione imprevista, ecco tutto. — Guardò l’orologio.
— È quasi ora di dar da mangiare ai piccoli mostri.
Lo squittio che si era levato nella gabbia era perfettamente udibile.
— Lo sanno anche loro — dissi.
— Fanno sempre così. Ma non sono mai stati tanto rumorosi, anche quando
diventavano impazienti.
Lo guardai con interesse dare il cibo ai topi. Questa operazione veniva fatta
attraverso una specie di presa d’aria che si trovava sul tetto della gabbia. Le
pallottoline di cibo, gialle quelle di nutrimento normale, e verdi quelle fatte con
l’hashish, cadevano nel serbatoio. Poi veniva premuto un pulsante, e le due porte
inferiori si aprivano lasciando cadere il cibo sul pavimento dell’ultimo piano.
Fino a quel momento, mi disse Bingham, le “classi superiori” avevano
mangiucchiato a volontà tutto quello che era a disposizione, poi venivano le “classi
medie”, ed alla fine le “classi inferiori” che si dovevano accontentare di quello che
era rimasto e tornavano poi rapidamente alloro piano, come se si sentissero colpevoli
di essere saliti tra i migliori.
Però adesso la linea di comportamento era cambiata.
Le pallottoline caddero. I grassi, lucidi topi si adunarono aristocraticamente attorno
al cibo, senza nessuna fretta, e cominciarono a mangiare. Improvvisamente la loro
compostezza si ruppe.
Sulla scena era comparso il piccolo animale pezzato, seguito da una mezza dozzina
di quelli della sua tribù. Erano tipi violenti, segnati di cicatrici, dall’aspetto
minaccioso. Facevano sentire alto il loro squittio. Gli abitanti dei piani superiori
fecero largo, comicamente goffi nella loro fretta dovuta alla paura. Uno o due non
furono veloci abbastanza, e strillarono, anziché squittire, nel momento in cui gli
intrusi cominciarono ad usare i denti. Macchie di sangue spuntarono sul lucido pelo
bianco.
Il pezzato cominciò a frugare nel mucchio di mangime ed i suoi amici si misero di
guardia. Il topo lavorava con intelligenza, separando le pallottoline verdi dalle gialle,
e usando le zampe per raccoglierle in un mucchio ordinato. Nel frattempo aveva
avuto inizio uno sfratto. Tre delle sue guardie del corpo erano entrate in una delle
scatolecasa... e poco dopo i due vecchi occupanti balzarono fuori, sbigottiti, con il
pelo arruffato e insanguinato. Uno dei due aveva perso mezza coda.
Le pallottoline di hashish vennero fatte rotolare nella casa evacuata. Solo a questo
punto gli invasori cominciarono a mangiare, lentamente, con la massima calma,
mentre l’impaurita popolazione della gabbia guardava timidamente. Finito di
mangiare, i gangster (perché tali cominciavo a considerarli) defecarono di proposito
sul cibo rimasto.
— Che carini — dissi.
— Lo erano, relativamente parlando, fino a quando non ho messo in atto la
“vostra” idea. Comunque è un fenomeno affascinante, vero?
— Mmm. — Guardai l’orologio. — Ho detto a Sandra che sarei tornato a casa per
l’ora di pranzo. Mi conviene andare.
— Vi ringrazio di essere venuto — disse Bingham. —Vi farò sapere come procede
questa storia.
— Fatelo, dottore mi incuriosisce estremamente. Comunque secondo me dovreste
fare un altro esperimento... passare dall’hashish al cianuro.
Non vidi più Bingham, però ci parlammo per telefono. La sua voce sembrava
terrorizzata, quasi isterica. Mi disse: — Sono scappati. Non tutti però. Solo il pezzato
e una dozzina dei suoi compagni...
— Pensavo che la gabbia fosse a prova di fuga.
— Lo è infatti... per i topi normali. Ma quei bastardi dei vostri... Hanno fatto una
scala. Devono aver lavorato di notte, quando non c’è nessuno in giro. Hanno tagliato
coi denti le pareti di una delle scatole, e hanno unito tutti i pezzi. Uno dei portelli
della botola inferiore non funzionava bene. Avevo intenzione di ripararlo, ma...
sapete come vanno le cose. In qualche modo hanno poi forzato il portello superiore.
Ho trovato un pezzo di coda troncato dai portelli nel momento in cui si sono richiusi
di scatto...
— Dove sono adesso i fuggiaschi?
— Non... non lo so.
— Avete informato le autorità?
— Quali autorità? E perché?
— Queste cose potrebbero essere pericolose.
Si mise a ridere, veramente divertito. — Via, Whitley. Non siamo in uno dei vostri
romanzi di fantascienza. Immagino come potreste sfruttare un argomento del genere:
topi con l’intelligenza aumentata dall’hashish invadono e conquistano la Terra.
Comunque queste cose non succedono nella vita!
Fu tutto. Sperai che avesse ragione. Che queste cose non possano succedere
veramente nella vita. E continuo a sperarlo, sinceramente, specialmente dopo aver
letto la notizia di cronaca comparsa sui giornali del giorno seguente. Riferiva di una
irruzione della polizia nella casa di un sospetto spacciatore di hashish. Avevano
trovato il loro uomo. Morto. Aveva la gola lacerata dai morsi di un piccolo animale, o
di diversi animali.
La versione ufficiale fu che lo spacciatore era stato ucciso da persona, o persone
sconosciute, e che in seguito i topi avevano parzialmente rosicchiato il cadavere.
Avevano anche trovato l’hashish... ma non tutto quello che avrebbe dovuto esserci.
I topi avevano divorato anche la droga.

 

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