venerdì 30 maggio 2025

Barry M. Malzberg: L'elmetto



Con l’elmetto in testa sono un essere come tutti gli altri, e il mondo ha un senso.
La guerra non è una guerra senza fine, ma una necessaria azione difensiva nell’interesse
della pace, e finirà presto.
I Maestri non sono creature che ci mentono e ci tengono in schiavitù, ma signori
di grande saggezza e giustizia che, nelle sale di questo grande edificio, ci preparano
benevolmente per il mondo che un giorno toccherà a noi di governare. Gli altri che
stanno con me nei corridoi e nelle aule non sono altrettante vittime, ma altrettanti studenti,
e tra molto, o tra poco, tutto andrà per il meglio. Ecco perché mi è stato assegnato
l’elmetto, e perché mi piace averlo in testa. Senza quell’elmetto non riesco a
sopportare il mondo com’è, per certe ragioni che hanno a che fare con la scienza
medica e che io non sono in grado di capire...
I Maestri dicono che devo toglierlo ogni giorno per un paio d’ore, e riposare. Mi
hanno detto che questo riguarda i sensori, o l’esaurimento della guaina protettiva dei
nervi, ma la spiegazione mi confonde le idee, ed io trascorro i miei periodi senza
elmetto tenendo gli occhi chiusi il più a lungo possibile e contando i minuti che
mancano al momento in cui potrò calzarlo di nuovo e rendere, di nuovo, il mondo
comprensibile. È importante e necessario che io indossi l’elmetto, ed i Maestri hanno
promesso che entro non molto, le protezioni dei nervi, o sensori, avranno completato
il necessario adattamento ed io sarò in grado di servirmene per settimane intere.
Spero che sia così.
Adesso è una delle mie ore senza elmetto. In piedi davanti alla finestra guardo da
questa grande altezza gli edifici della città. Conosco la paura dei macchinari sospesi
nella distanza, la paura nell’odore dell’aria pesante che aleggia in questo luogo.
Ascoltando Serafino che parla delle meraviglie della nostra epoca, io chiudo gli
occhi. Serafino è il mio più caro amico, forse il mio solo amico in questo momento,
ma non gli sono più affezionato che a tutti gli altri. Quando ho l’elmetto lo trovo
interessante e simpatico, quando sono senza mi pare stupido e insipido.
Quanto lo invidio. Lui non ha bisogno dell’elmetto per gioire della vita che ci
hanno data!
— Non è meraviglioso, Jonno? — chiede Serafino girando oziosamente le dita.
Siamo in un periodo di tempo libero tra le ore di istruzioni, e siamo venuti alla
finestra per guardare la città. — La razza umana ha faticato diecimila anni per creare
una civiltà come questa, e siamo noi che la erediteremo. Non è meraviglioso? La città
ci dà tutto, e noi non saremo mai costretti a lasciarla.
A me non sembra che questo sia meraviglioso, senza elmetto, poi, l’idea di non
dover mai lasciare la città mi riempie di disgusto. Ma io non voglio scoraggiare
Serafino, spingerlo ad andarsene. Nei periodi in cui non porto l’elmetto, mi sento
molto solo, e mi spavento facilmente. — Sì, certo — dico. — Mi sembra una cosa
bellissima — e mi volto. Così vedo che, inaspettatamente, uno dei Maestri si è avvicinato
a noi. Loro si muovono così silenziosamente e con tale leggerezza, per le scale,
che è quasi impossibile accorgersi del loro arrivo, quindi conviene che uno si attenga
costantemente alle leggi di obbedienza. — Salve, Serafino dice il Maestro. — Salve
Jonno.
Noi non conosciamo i loro nomi, ma loro i nostri, li sanno tutti. Per noi, loro sono
semplicemente Maestri. Alcuni sono alti, altri piccoli, certi sono vecchi, ed altri giovani,
ma siamo stati informati che ciascuno di loro può adempiere le funzioni di tutti,
e che sarebbe stato un grosso errore volerne personalizzare qualcuno. Questo è un
avvertimento che vale la pena di prendere seriamente, perché i Maestri non fanno mai
affermazioni inutili. Tutto quello che dicono è denso di significato, e l’unica vera
difficoltà sta nel non tenerne conto.
— Salve, Maestro — dice il mio amico, e si inchina leggermente, nel modo
dovuto. Fa un ampio sorriso e torna a girarsi verso la finestra, perché è regola che, se
il Maestro non vuole prolungare la conversazione, l’allievo non deve attirare su di sé
un’attenzione non necessaria ma limitarsi a continuare la sua attività regolare. —
Salve, Jonno — dice il Maestro rivolgendosi a me, ed in tono un poco più secco.
— Salve, Maestro — dico, e gli volto le spalle. Senza elmetto in testa vedo il
Maestro come una creatura spaventosa e sconosciuta, con la pelle verde, a squame,
grandi occhi, artigli, e una brutta escrescenza sopra le squame, ma ricordo a me stesso
che questa è semplicemente un’illusione dovuta alla mia incapacità di adattamento, e
che in nessun modo, mai, devo dimostrare odio, paura, o disgusto. Nel passato, in
momenti in cui non portavo l’elmetto, mi ero lasciato prendere un paio di volte dalle
allucinazioni, ed ero stato portato in una piccola stanza per essere educato. Ma questa
è una faccenda di cui preferisco non parlare.
— Come stai? — dice il Maestro, lasciando capire che intende proseguire la
conversazione.
— Bene. Sto bene.
— Vedo che non porti l’elmetto. Perché?
Deve essere un Maestro nuovo, uno che non conosce ancora le speciali regole e
procedure che disciplinano il mio caso.
— Non posso portarlo continuamente — dico. — Lo devo togliere per una o due
ore al giorno.
— Non ho sentito niente del genere a proposito del tuo caso — dice il Maestro. —
Gli scontenti hanno ricevuto istruzione di portare sempre l’elmetto. Mi spiace.
— Ma è vero! — dice Serafino, prendendo le mie difese. — Lui non può portarlo
sempre. Ecco perché io gli tengo compagnia. Perché non venga preso dalla paura.
— Nessuno ti ha chiesto di parlare — dice il Maestro in tono rabbioso. — Tu puoi
parlare soltanto quando ti si rivolge la parola. Per questa tua mancanza subirai un
trattamento. Ti ordino di andare immediatamente agli alloggi.
Pallido e tremante, Serafino si allontana dalla finestra e attraversa rapidamente la
sala. È inutile discutere con i Maestri. Facendolo si aggrava soltanto la situazione.
Serafino esce senza dire una parola. Guardandolo, vedendo le spalle incurvate, ed il
lieve tremito delle gambe, intuisco che è terrorizzato. Anch’io sono molto spaventato.
Distolgo gli occhi dalla città e cerco di guardare oltre la creatura, ma questa cattura il
mio sguardo, ed io sono costretto a fissarla. Vorrei andare via, di corsa, ma andarsene
senza una scusa è offesa gravissima, forse la più grave di tutte, e quindi resto. Il
Maestro mi guarda, le squame si agitano nell’aria.
— Vieni qui, Jonno — dice, e mi fa un cenno. Io mi muovo, poi mi fermo a
qualche centimetro da lui. Nella faccia senza fisionomia della creatura gli occhi sono
tondi e grandissimi. — Tu conosci i regolamenti — dice. — Devi portare sempre
l’elmetto.
— Sì — dico. È inutile discutere con loro. Vero, o non vero, lui non conosce il
uno caso, ma non c’e scopo a discutere con loro si peggiorano soltanto le cose —
Sì—ripeto.
— Hai infranto il regolamento.
— Sì. Sì, è vero.
— Quindi devi accettare la tua giusta punizione.
— Lo farò.
— La punizione è...
Il Maestro fa una pausa, agita di nuovo le squame, sembra pensare. — L’unica
punizione adatta — dice — è questa tu non porterai più l’elmetto. Dovrai passare
tutto il resto della tua vita senza elmetto. Per non aver saputo accettare i termini della
tua salvezza, non verrai salvato.
Poi si allontana rapidamente da me, lasciandomi impietrito sul posto. Mi sento
male. Il corridoio diventa grigio, il vento che entra dalla finestra mi fa rabbrividire.
Sento un freddo come non ho mai sentito prima, e mi rendo conto sino in fondo della
raffinata crudeltà del Maestro. Mi rendo conto che dovrò trascorrere tutto il resto
della mia vita vedendo ogni cosa esattamente com’è.

 

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