venerdì 30 agosto 2024

New York, New York

 

Stati Uniti, 1982 / Barbara Avedon, Bamey Rosenzweig, Barbara Corday

Impegnate in uno dei peggiori quartieri di New York, Chris Cagney (Meg Foster) e Mary Beth Lacey (Tyne Daly) sono due donne poliziotto grintose e capaci che si realizzano nel lavoro anche se hanno un'intensa vita privata. La prima era single ma non disdegnava la corte di effimeri boy-friend, mentre la
seconda era fin troppo sposata (con problemi di mutuo, figli e cucina).


Primo telefilm poliziesco incentrato su due donne, Cagney and Lacey (questo il titolo originale della serie) era simpatico e ben realizzato anche se aveva dovuto far fronte a non poche difficoltà. Nel pilot, andato in onda l'8 ottobre
1981, c'era Loretta Swit nei panni di Chris Cagney, ma l'attrice non poté poi apparire nei telefilm perché impegnata in Mash; così fu scritturata Meg Foster.


Dopo la prima stagione, non si sa bene se per problemi contrattuali o perché, come scrisse TV Guide, il settimanale più diffuso negli Stati Uniti, la CBS
considerava la sua interpretazione "troppo dura e poco femminile", la Foster venne sostituita da Sharon Gless. La serie venne cancellata all'inizio del 1983, ma le proteste dei telespettatori si fecero sentire e la casa di produzione approntò sette nuovi episodi. 


Questi ottennero un tale successo che i telefilm di Cagney and Lacey vennero continuati e nel 1985 si aggiudicarono ben sei Emmy, I'Oscar televisivo, come miglior serie, realizzazione, scenario, montaggio, suono e attrice (Tyne Daly). Tra gli altri interpreti possiamo ricordare Al Waxman nei panni del tenente Ben Samuels, Jobn Karlen in quelli di Harvey, il marito della Lacey, e Cari Lumbly, Martin Kove e Sidney Clute in quelli dei detective Mark Petrie, Vietar Isbecki e Paul La Guardia.

L'originalità della serie andava comunque ben al di là dell'idea di aver scelto due donne per un lavoro tradizionalmente svolto quasi esclusivamente dagli uomini, tanto nella realtà quanto nei telefilm.


giovedì 29 agosto 2024

URANIA n.4 - Jack Williamson: Il Figlio Della Notte



La ragazza si avvicinò a Will Barbee mentre lui, ritto davanti al terminal di
vetro e cemento di Trojan Field, il nuovo aeroporto municipale di Clarendon,
osservava il cielo di piombo cercando di scorgere gli aerei in arrivo. Non
c'era alcun motivo perché Will dovesse sentirsi percorrere da un brivido tale
da fargli battere i denti: ma forse era stata soltanto una folata dell'umido
vento di levante.
Snella ed elegante nella bianca pelliccia, la ragazza gli trasmetteva un'oscura
sensazione di gelo. Tuttavia, aveva una incredibile massa di capelli rossi; e
bianca e flessuosa com'era, il volto serio e dolce, confermò la prima
impressione ricevuta da Will: che fosse qualcosa di straordinariamente
prezioso e bello. Lo fissò, e la bocca di lei parve incurvarsi in un accenno di
sorriso.
Barbee, col fiato mozzo, esaminò più attentamente quegli occhi che lo
guardavano sorridendo gravi: erano proprio verdi, verdissimi. La scrutò,
cercando di spiegarsi quel freddo brivido di allarme istintivo, e si rese conto
di provare un'attrazione altrettanto istintiva. Gli parve illogico: la vita lo
aveva reso cinico in fatto di donne, e si considerava ormai immune al loro
fascino.
Il tailleur di gabardine verde che la ragazza portava sotto la pelliccia,
semplice e severo, era di certo molto costoso, e la tinta si intonava al colore
degli occhi. Contro le raffiche gelide di quel grigio pomeriggio d'ottobre, la
ragazza era difesa da una specie di cappotto di pelo candido e folto, che a
Will parve di lupo artico: albino, probabilmente. Il gatto però era davvero
strano.
Dall'apertura della borsa di coccodrillo che le pendeva dal braccio, e
sembrava che intorno a esso fosse avvolto un rettile vivo, un gattino spuntava
fuori con aria soddisfatta; un piccolo micio nato da poco, tutto nero, con un
bel nastro di seta rossa annodato intorno al collo. Insieme, erano una perfetta
immagine di serena innocenza. Ma quel micino che sbatteva gli occhi alle
luci che si rincorrevano nel crepuscolo, portava una nota discorde. La ragazza
non sembrava il tipo che gioisse della compagnia di una bestiola così tenera.
E la sua apparenza di giovane e determinata donna d'affari non sembrava
proprio conciliabile con l'inclusione di un gattino nero, sia pur piccolo e
grazioso, fra gli accessori d'abbigliamento. Barbee si chiese dove e quando
l'avesse conosciuta. Clarendon non era certo una grande città, e un cronista
come lui, che va dappertutto, dei capelli rossi come quelli li avrebbe visti e
ricordati anche se fosse stato cieco. La guardò ancora, dubbioso che quegli
occhi verdi si dedicassero proprio a lui.
La ragazza continuava a fissarlo.
«Barbee?», chiese con voce morbida e piena, una voce che rivelava una
vitalità così intensa da possedere quasi una sfumatura gutturale.
«Will Barbee», rispose lui. «Cronista del Clarendon Star. »
Si era illuso che un così modesto particolare potesse sembrare interessante
alla ragazza.
«Il direttore stasera vuole che prenda due piccioni con una sola fava», riprese,
a corto di argomenti. «Il primo piccione sarebbe il colonnello Walraven, che
ha piantato Washington e la burocrazia per tornarsene a Clarendon, dove
spera di essere eletto senatore. Ma avrà ben poco da dire alla stampa, prima di
aver parlato con Preston Troy.»
Il gattino sbadigliò mentre le luci si accendevano, e la piccola folla di parenti
e amici in attesa si accalcò lungo la rete metallica che divideva il pubblico dal
campo. Intanto, gli intensi occhi verdi della ragazza non s'erano staccati per
un attimo dalla sua faccia, e la sua voce magica domandò dolcemente:
«E il secondo piccione?». 

 

mercoledì 28 agosto 2024

Kurt Julian Weill

Compositore e musicista tedesco naturalizzato statunitense, Weill nacque a Dessau, nell'odierno land tedesco della Sassonia-Anhalt, il 2 marzo del 1900 in una famiglia ebraica ashkenazita, terzogenito dei quattro figli di Albert Weill (1867-1950), chazan della sinagoga di Dessau, e di Emma Ackermann (1872-1955), una casalinga. Iniziò lo studio della musica da bambino presso il teatro regio ducale della propria città, passando poi, nel 1915, sotto la guida di Albert Bing, primo kapellmeister del teatro. Nel 1918, sotto l'incoraggiamento di Bing, s'iscrive presso la Hochschule für Musik di Berlino, dove segue i corsi di composizione e direzione d'orchestra, tenuti rispettivamente da Engelbert Humperdinck e Rudolf Krasselt. Tuttavia, sia per motivi finanziari, sia per una sua certa estraneità al clima musicale della Hochschule, nell'estate dell'anno seguente fece ritorno a Dessau, diventando dapprima maestro sostituto di Albert Bing e di Hans Knappertsbusch del teatro regio ducale e poi direttore della piccola compagnia d'opera di Lüdenscheid (in Vestfalia).

Nel 1920, con la nomina di direttore di Franz Schreker della Hochschule für Musik, Weill considerò l'idea di tornare a Berlino a studiare con Schreker stesso ma, su consiglio dell'amico Hermann Scherchen, scelse i corsi che Ferruccio Busoni era stato appena invitato a tenere presso l'Akademie der Künste, che frequentò per ben tre anni. In quegli anni Weill conobbe molti intellettuali legati ai circoli espressionisti del tempo, in modo particolare col Novembergruppe, di cui facevano parte Philipp Jarnach, Hanns Eisler, Bertolt Brecht che promosse nella Berlino degli anni venti un'ampia attività culturale di concerti, letture pubbliche, mostre e prime di film. 
Ormai noto e stimato in Germania, grazie al suo grandissimo senso teatrale, si fece conoscere anche in Francia (del 1923 è il suo successo alla Salle Gaveau di Parigi) e in tutta Europa. Tuttavia nel 1933, malgrado la sua fama e il successo dell'ultimo suo lavoro con Kaiser Der Silbersee ("Il lago d'argento"), fu costretto a fuggire per le persecuzioni naziste. Gli anni dell'esilio, prima in Francia poi nel Regno Unito, furono molto difficili, nonostante la stima e l'aiuto di musicisti come Bruno Walter, Darius Milhaud e Arthur Honegger. Nel 1935 si rifugia negli Stati Uniti fino alla morte. 
Una chicca: Il 19 ottobre 1938 va in scena il musical Knickerbocker Holiday all'Ethel Barrymore Theatre per Broadway per la regia di Joshua Logan con Walter Huston arrivando a 168 recite e rendendo nota la canzone September Song.

Nel 1929 fu pubblicata "Kleine Dreigroschenmusik", Musica triade piccola, una suite con musica da "L'opera da tre soldi di Brect". La suite è stata preparata per un'ensemble di fiati, piano e percussioni.
Lo stesso Weill era molto soddisfatto di questa suite e scrisse al suo editore: “Ne sono molto contento. Credo che il pezzo possa essere riprodotto molto, poiché è proprio quello che ogni direttore desidera: un pezzo scattante con cui terminare”. La suite contiene 8 movimenti. 

martedì 27 agosto 2024

MONDADORI n.4 - Anna Katharine Green: Il mistero delle due cugine



Ero da circa un anno il terzo socio dello studio legale Veeley,
Carr & Raymond quando una mattina, assenti temporaneamente
sia Veeley sia Carr, nel nostro ufficio entrò un giovanotto il cui
aspetto rivelava una fretta e un'agitazione tali che, al suo
avvicinarsi, mi alzai involontariamente, chiedendo con impeto:
- Che cosa c'è? Non avrete cattive notizie, spero.
-Sono venuto per vedere il signor Veeley. È in ufficio?
-No- risposi.- Stamane è stato chiamato inaspettatamente
a Washington e non potrà tornare prima di domani. Ma se volete
dire a me ...
- A voi, signore?- ripeté lui, fissandomi con occhio gelido;
poi, apparentemente soddisfatto dell'esame, continuò: - Non ho
motivo di non farlo: la mia incombenza non è un segreto. Sono
venuto a informare che il signor Leavenworth è morto.
-Il signor Leavenworthl - esclamai, dando un passo indietro.
Leavenworth era un vecchio cliente del nostro studio, per non
dire nulla della sua grande amicizia con Veeley.
- Sì, assassinato; ucciso con una pallottola alla testa da
qualcbe sconosciuto, mentre era in biblioteca, alla sua scrivania.
- Ucciso! Assassinato! - Non potevo credere alle mie
orecchie.- Come? Quando?- ansimai.
- Sta notte. Almeno, così supponiamo. È stato trovato soltanto
questa mattina. lo sono il segretario privato del signor
Leavenworth - spiegò - e abito in casa sua. È stato un colpo
terribile- proseguì- specialmente per le signorine.
- Terribile! - gli feci eco. - li signor Veeley ne sarà
sconvolto.
- Sono tutte sole - continuò lui, con un tono pratico e
dimesso che in seguito scoprii essere una sua costante
caratteristica. - le signorine Leavenworth, voglio dire, le nipoti
del signor Leavenworth. E siccome oggi in casa d sarà
un'inchiesta, si ritiene opportuna la presenza di qualcuno in
grado di consigliarle. Il signor Veeley era il migliore amico del
loro zio, e com'è naturale mi hanno mandato a cercarlo; ma, data
la sua assenza, ora non so bene che fare o dove andare.
- ro per le signorine sono un estraneo - replicai con
titubanza - ma se posso essere di qualche aiuto, il mio rispetto
per il loro zio è tale ...il segretario mi guardò con un'espressione che mi troncò la
parola in bocca. Pur continuando a fissarmi in viso, la sua pupilla
si era a un tratto dilatata, e pareva abbracciare tutta la mia
persona. - Non saprei - osservò finalmente, aggrottando
lievemente le sopracciglia come se volesse farmi capire che non
era del tutto soddisfatto della piega che stavano prendendo le
cose. - Forse sarebbe meglio. le signorine non vanno lasciate
sole ...
- Non dite altro. Verrò. - E, sedutomi alla scrivania, vergai
un affrettato messaggio per Veeley; dopodiché, fatti i pochi altri
preparativi necessari, accompagnai il segretario gill in strada.
- Ora - dissi - raccontatemi tutto ciò che sapete di questa
cosa tremenda.
- Tutto ciò che so? Basteranno poche parole. L'ho lasciato ieri
sera seduto come al solito al tavolo della biblioteca, e l'ho
trovato stamane seduto allo stesso posto c quasi nella stessa
posizione, ma con un foro in testa grande come la punta del mio
dito mignolo.
-Morto?
-Morto stecchito.
- Orribile! - esclamai. Poi, dopo un momento: - Non
potrebbe essere un suicidio?
- No. La pistola con cui è stato commesso il fatto non è stata
trovata.
- Ma se è un delitto, deve esserci un movente. Il signor
Leavenworth era un uomo troppo buono per avere dei nemici, e
se si mirava a una rapina ...
- Non c'è stata nessuna rapina. Non manca nulla m1
interruppe lui di nuovo. - Tutta la faccenda è un mistero.
- Un mistero?
- Un mistero assoluto.
Mi voltai a guardare con curiosità il mio informatore. L'ospite
di una casa in cui era avvenuto un misterioso delitto era un
oggetto di un certo interesse. Ma le fattezze, non brutte eppure
del tutto banali, dell'uomo che mi stava accanto orrrivano scarso
stìmolo anche all'immaginazione più sfrenata. Distogliendo quasi
subito lo sguardo domandai:- Le signorine sono molto scosse?
Fece a lmeno cinque o sei passi prima di rispondere.
- Sarebbe Innaturale che non lo fossero - disse, e non so se
per l'espressione della sua faccia o per la natura della risposta,
mJ parve che parlando delle signorine in questione con questo
segretario del defunto signor Leavcnworth, così poco
interessante e tanto padrone di sé, camminavo in certo qual
modo su un terreno pericoloso. Poiché avevo sentito dire che
erano donne assai notevoli, questa scoperta non mi fece molto
piacere. Fu dunque con un certo sollievo che vidi avvicinarsi la
diligenza della Quinta Avenue.
- Rimandiamo la nostra conversazione - dissi. - Ecco la
nostra vettura.
Ma una volta seduti all'interno, ci accorgemmo presto che
ogni dialogo sull'a rgomento era impossibile. Occupando perciò il
tempo a ripassare mentalmente ciò che sapevo del signor
Leavenworth, mi resi conto che le mie conoscenze non andavano
ol tre il fatto che era un ricchissimo commerciante a riposo, con
un'ottima posizione sociale, il quale in mancanza di fìgli suoi
aveva accol to in casa due nipoti, una delle quali era già stata
dichiarata sua erede. Avevo sentito Veeley parlare delle sue
eccentricità, dandone come esempio appunto questo suo
testamento a favore di una sola delle nipoti, con totale
esclusione dell'altra; ma delle sue abitudini di vita e dei suoi
rapporti con il mondo in generale sapevo poco o nulla.

 

lunedì 26 agosto 2024

Havergal Brian

Havergal Brian, inglese, nato William Brian (Dresden, Stoke-on-Trent, 29 gennaio 1876 – Shoreham-by-Sea, 28 novembre 1972)  acquisì quasi un'aura di leggenda al momento della sua riscoperta, negli anni cinquanta e sessanta, per il gran numero di sinfonie scritte: durante la sua vita ne aveva portate a termine 32, un numero insolitamente elevato per qualsiasi compositore dopo Haydn o Mozart.

Egli è anche noto per la sua tenacia creativa di fronte al quasi totale abbandono durante la maggior parte della sua lunga vita. Al giorno d'oggi non si può dire che alcuna sua opera venga eseguita con frequenza, ma pochi compositori hanno continuato a produrre tante opere serie e ambiziose, e per un tempo così lungo, dopo essere stati "dimenticati" dal pubblico e dalla critica. La maggior parte delle sinfonie di Brian non furono eseguite con lui vivente, ma tutte sono state registrate almeno una volta.
Si avvicina alla musica da autodidatta; per qualche tempo lavora come organista presso la Odd Rode Church, poi si dedica esclusivamente alla composizione, sostenuto finanziariamente dal ricco uomo d’affari Herbert Minton Robinson. La Suite Inglese n. 1 Op. 12, presentata ai Proms di Londra è il suo primo importante successo. Sulla scia della conquistata popolarità, Havergal Brian inizia a lavorare su più ampie opere corali e per orchestra, molte rimaste incompiute. Cessato il sostegno finanziario con la morte di Robinson, vive in povertà a Londra. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola nell’Artiglieria, ma il suo servizio attivo finisce presto rimanendo ferito a una mano. Superati in qualche modo i problemi economici, Havergal Brian dedica tutto il suo tempo alla composizione, continuando a scrivere musica anche in età avanzata. La sinfonia n. 32, composta nel 1968 all’età di 92 anni, è il suo ultimo lavoro completato.

La sua opera più nota è la Sinfonia n. 1, anche detta "Sinfonia Gotica", a cui lavorò dal 1919 al 1927 e che si inserisce, assieme alla Sinfonia n. 3 di Gustav Mahler, tra le più lunghe opere del repertorio sinfonico. 
Sinfonia n. 1 di trentadue; ma è un'opera fondamentale. Havergal Brian compose la Gotica in circa otto anni e la completò quando aveva più di cinquant'anni. Alla fine gli diede il suo più grande trionfo di pubblico alla sua prima esecuzione professionale nel 1966, ma fu il principale responsabile della dannosa e immeritata reputazione che acquisì come eccentrico compositore di opere enormi e ineseguibili" (The Havergal Brian Society). In quella performance diretta da Sir Adrian Boult, il compositore, sulla novantina, salì con sicurezza sulla piattaforma della Royal Albert Hall con l'aspetto di un contadino in forma e prospero.

Brian ha una voce straordinariamente individuale, che continua a catturare l'attenzione a circa ottant'anni di distanza: tonale e contrappuntistica, ma essenzialmente lungimirante, con una rudezza burbera, giustapposizioni inaspettate e apparenti non sequitur. In un breve arco di tempo può racchiudere grandiosità e lirismo che scioglie il cuore. Preceduto da una citazione dal Faust di Goethe, la Gotica è una struttura enorme, che dura quasi due ore di esecuzione, durante le quali si passa dal Re minore per concludersi in Mi maggiore. La parte faustiana 1 è orchestrale; la seconda parte, un Te Deum in tre movimenti, è un enorme edificio che suggerisce una grande cattedrale gotica, che alla fine raggiunge una "conclusione tormentata e agonizzante ma non del tutto disperata" che alla fine ci lascia con "un misterioso splendore che dimora come una luce nel notte' (Malcolm MacDonald). Ma nel suo percorso è continuamente inventiva e ricca di eventi. Un movimento, l'ambientazione di una singola frase, accumula quattro cori in triadi sovrapposte per formare gruppi di accordi, che vanno a creare un passaggio diviso di "fantastica complessità e feroce dissonanza" in venti parti!

Arnaldo Fraccaroli - Il cane poliziotto, 1940






venerdì 23 agosto 2024

Neutron

 

Italia, 1965 / Guido Crepax

Apparso per la prima volta sulle pagine del secondo numero di Linus, nel maggio 1965, Neutron era dotato di uno sguardo paralizzatore che aveva la possibilità di fermare o rallentare il tempo senza che nessuno se ne accorgesse. Nella vita "reale" era l'indolente critico d'arte e investigatore dilettante Philip Rembrandt, una specie di moderno Philo Yance, ed era protagonista di storie ricche di riferimenti culturali oltre che disegnate con un "taglio" del tutto nuovo.



Ma ben presto Neutron, rinunciando addirittura alla sua identità segreta e ai suoi stessi poteri, che raramente utilizzerà in seguito, deve accontentarsi di un ruolo del tutto secondario, quello di fidanzato prima e di marito poi della splendida e pregiudicata fotografa Valentina Rosselli, che sembrava destinata al consueto ruolo di eterna fidanzata, e che invece in pochissimo tempo
diventa la vera protagonista della serie oltre che la più popolare eroina
del fumetto italiano.

giovedì 22 agosto 2024

URANIA n.3 - John Wyndham: L'Orrenda Invasione

 


Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra
fin dall'inizio domenica, potete star certi che qualcosa non va. Ebbi questa
impressione fin dal primo momento, svegliandomi.
Tuttavia, quando incominciai a connettere con più lucidità, rimasi in forse.
Dopo tutto, sebbene avessi la sensazione nettissima d'essermi svegliato più
tardi del solito, poteva anche essere vero il contrario.
Continuai ad aspettare, dubbioso, ma subito ebbi una prima prova obiettiva: un orologio lontano batté, così mi parve, otto colpi. Ascoltai con le
orecchie tese, pieno di sospetto. Ed ecco che un altro orologio cominciò a
farsi sentire in un tono alto, risoluto. E, senza fretta, batté incontestabilmente
le otto. Allora capii che le cose non andavano.
Se non fui travolto subito anch'io dalla fine del mondo, la fine del mondo
quale l'avevamo intesa fin lì, fu per caso: come per un destino di
sopravvivenza, a pensarci bene. È nel corso naturale delle cose che un buon
numero di individui si trovi sempre all'ospedale, e per la legge dell'equa
distribuzione mi trovavo a far parte di questo numero da circa una settimana.
Con la stessa facilità avrebbe potuto trattarsi della settimana precedente, nel
qual caso ora non starei scrivendo; anzi, non sarei qui affatto. Ma il destino
volle non solo che mi trovassi all'ospedale in quel momento determinato, ma
che avessi gli occhi e, per essere precisi, tutta la testa, bendati; ed ecco perché
devo essere grato a quel qualcuno, chiunque sia, che regola l'equa
distribuzione dei mali. Allora, a dire il vero, ero soltanto stizzito, e mi
chiedevo che cosa diavolo stesse accadendo: perché ero stato in quel luogo
abbastanza da sapere che in un ospedale la cosa più sacra, beninteso dopo la
capo-infermiera, è l'orologio.
Senza orologio quel luogo non poteva funzionare; e, fino allora, l'orologio
aveva sempre decretato che ogni mattina, esattamente tre minuti prima delle
sette, qualcuno venisse nella mia stanza per lavarmi e mettermi in ordine, in
attesa della colazione. Ma quel giorno orologi di varia attendibilità
continuavano a battere le otto in tutte le direzioni, senza che nessuno si fosse
fatto vedere.
Probabilmente la cosa mi avrebbe seccato qualsiasi altra mattina, ma quel
mercoledì, 8 maggio, era un giorno di eccezionale importanza per me.
Attendevo con particolare impazienza che tutto il piccolo traffico mattutino
fosse terminato, perché quello era il giorno in cui dovevano togliermi le
bende.
Brancolai un poco per afferrare il campanello, e suonai vigorosamente per
cinque secondi buoni, tanto perché si sapesse che cosa ne pensavo di tutti
loro.
Mentre attendevo la brusca risposta che quel fracasso avrebbe dovuto
provocare, continuavo a tendere l'orecchio.
Mi accorsi allora che fuori c'era nell'aria qualcosa di ancor più strano di
quanto avessi immaginato. I rumori che si udivano e quelli che non si
udivano, suscitavano il senso della domenica più di una domenica vera e
propria; e io avevo raggiunto la certezza assoluta che era mercoledì,
qualunque cosa stesse succedendo.
Per quale ragione i fondatori del St. Merryn's Hospital avessero fatto
erigere il loro pio istituto all'incrocio di due grandi strade, al centro di un
attivo quartiere di uffici, esponendo così i nervi dei pazienti a un continuo
logorio, non sono mai riuscito veramente a capirlo. Ma per i fortunati i cui
malanni non fossero tali da renderli particolarmente sensibili al frastuono del
traffico, quell'ubicazione offriva il vantaggio di starsene a letto senza essere,
per così dire, tagliati fuori dal grande flusso della vita. Di solito, gli autobus
diretti al West End passavano rombando, nel tentativo di superare il semaforo
al giallo; ma spesso uno stridore di freni e una salva di colpi dello
scappamento annunciavano che non c'erano riusciti. Poi si udiva il rombo dei
veicoli che si rimettevano in moto. E ogni tanto c'era come un interludio: un
fragore improvviso e poi un arresto generale; una vera tortura per uno che si
trovasse nelle mie condizioni, costretto a giudicare l'entità degli incìdenti dal
tipo delle bestemmie che provocavano.
Ma quella mattina tutto era diverso dal solito. Diverso in modo
sconcertante perché tanto misterioso. Non c'era fragore di ruote, o rombo di
autobus; in realtà, non si riusciva a udire il rumore di un solo veicolo. Né
freni, né clacson, neppure il trotto dei rari cavalli che talvolta ancora
passavano di là. Né il confuso trepestio di gente diretta al lavoro.

 

mercoledì 21 agosto 2024

Vasilij Sergeevič Kalinnikov

 

Nacque il 13 gennaio 1866 a Vojny, vicino Mcensk, oggi nell'Oblast' di Orël. Studiò al seminario di Orël, dirigendone il coro dall'età di quattordici anni. Trasferitosi in seguito a Mosca per frequentare il conservatorio, non riuscì a sostenerne la retta. Ricevette una borsa di studio che gli permise di frequentare la Scuola della Società filarmonica di Mosca, dove ricevette lezioni di composizione e di fagotto. Suonò i timpani, il fagotto e il violino nelle orchestre teatrali e lavorò come copista per incrementare le sue entrate.

Nel 1892, Čajkovskij segnalò Kalinnikov ai direttori del Teatro Malyj e del Teatro Italiano di Mosca. Tuttavia, affetto da tubercolosi, Kalinnikov dovette lasciare tali incarichi per trasferirsi in Crimea. Visse a Jalta per il resto della sua vita ed è lì che scrisse la maggior parte delle sue composizioni musicali, comprese le due sinfonie e le musiche di scena per Lo zar Boris del drammaturgo Aleksej Tolstoj (cugino di Lev Tolstoj).

La Sinfonia n. 1 in sol minore, scritta tra il 1894 e il 1895, che fa uso della forma ciclica, determinò il suo successo. Fu eseguita a Kiev il 20 febbraio 1897 e poi a Berlino, Vienna, Mosca e Parigi, mentre il compositore era ancora in vita. Tuttavia, non fu pubblicata se non dopo la sua morte. I diritti contribuirono al sostentamento della vedova di Kalinnikov. Fu con l'aiuto di Sergej Rachmaninov che Kalinnikov riuscì a vendere per 120 rubli tre sue canzoni a Jurgenson, editore anche di Čajkovskij. In seguito, Jurgenson pubblicò anche la Sinfonia n. 2 in la maggiore.
Morì di tubercolosi l'11 gennaio 1901, pochi giorni prima del suo trentacinquesimo compleanno.

La sinfonia è in quattro movimenti :

Allegro moderato (sol minore)
Andante comodamente (mi bemolle maggiore)
Scherzo: Allegro non troppo (do maggiore)
Finale: Allegro moderato (sol maggiore)

Il primo movimento è in forma di sonata e si apre con il tema principale suonato all'unisono dagli archi. Anche il secondo tema è presentato dagli archi, con i legni in sottofondo. La sezione di sviluppo è di natura contrappuntistica , che ricorda le fughe composte da Kalinnikov negli anni Ottanta dell'Ottocento. Il secondo movimento si apre con un ostinato dell'arpa e dei primi violini che sfocia in un assolo di corno inglese con le viole. Quindi il tema principale del movimento è suonato dall'oboe su archi pizzicati. Il terzo movimento, uno scherzo , contiene influenze e melodie della musica popolare russa e include un trio suonato nei fiati. Il finale si apre con il tema principale del primo movimento prima di rivisitare e trasformare i temi di tutti i movimenti precedenti, oltre a incorporare nuovi temi derivati ​​da quelli vecchi. La sinfonia si conclude con un finale trionfale suonato dall'intera orchestra. Una performance tipica dura circa 40 minuti.


martedì 20 agosto 2024

MONDADORI n. 3 - Robert Louis Stevenson: Il club dei suicidi


Durante la sua permanenza a Londra, il raffinato principe Florizel di Boemia conquistò l’affetto di persone d’ogni categoria, grazie ai modi seducenti e a un’oculata generosità. Da quanto si sapeva di lui, che era solo una piccola parte delle sue azioni effettive, risultava essere uomo d’eccezione. In normali circostanze di temperamento tranquillo, e avvezzo a prendere il mondo con la filosofia d’un campagnolo, il principe di Boemia mostrava tuttavia la sua propensione per un regime di vita più avventuroso ed eccentrico di quello al quale la sua nascita l’aveva destinato. Di tanto in tanto, se era giù di tono, se nessun teatro londinese dava una commedia divertente e se la stagione rendeva impraticabili quegli sport all’aperto, dove primeggiava su qualsiasi rivale, chiamava a rapporto il suo confidente e Grande Scudiero, colonnello Geraldine, ordinandogli di tenersi pronto per una battuta serale. Il Grande Scudiero era un giovane ufficiale dal carattere gagliardo, temerario persino. Salutava la novità con gioia e s’affrettava a prepararsi. La continua pratica e le multiformi esperienze di vita gli avevano dato una singolare destrezza nel travestimento; poteva conformare non solo il volto e il portamento ma la voce e quasi i pensieri a quelli di gente d’ogni rango, carattere o Paese; in tal modo distoglieva l’attenzione dal principe e talvolta otteneva per entrambi l’ammissione in singolari compagnie. Le autorità civili non penetrarono mai nei segreti di queste avventure; l’imperturbabile coraggio dell’uno e la rapidità inventiva e la cavalleresca devozione dell’altro li avevano salvati da una serie di pericolose situazioni; e col passare del tempo, la loro fiducia reciproca via via cresceva.
Una sera di marzo, una raffica tagliente di nevischio li condusse dentro una rivenditoria di ostriche nelle immediate vicinanze di Leicester Square. Il colonnello Geraldine era vestito e truccato per impersonare un esponente del mondo della stampa in ristrettezze economiche; quanto al principe, aveva, come al solito, camuffato il suo aspetto con l’aggiunta d’un paio di sopracciglioni appiccicati con la colla e di falsi mustacchi. Questi gli conferivano un’aria ispida e come stazzonata dalle intemperie, il che, per una persona della sua grazia, rappresentava il più impenetrabile dei travestimenti. Così equipaggiati, il condottiero e il suo seguito centellinarono il loro brandy e soda con tranquillità.
Il locale era pieno di avventori, uomini e donne; ma, sebbene più d’uno si mostrasse incline ad attaccar discorso coi nostri temerari, nessuno prometteva di risultare interessante a una conoscenza meno superficiale. Non c’erano che la feccia di Londra e tutta la risaputa gamma della volgarità; il principe s’era già abbandonato a uno sbadiglio e aveva cominciato ad annoiarsi dell’intera faccenda, quando i battenti della porta a molla vennero aperti con una spinta violenta e nella rivendita entrò un giovanotto, seguito da una coppia di commessi. Ciascun commesso portava un grande vassoio di paste alla crema, sotto un coperchio che tolse subito; e il giovanotto fece il giro della compagnia, insistendo con esagerata gentilezza che tutti accettassero quei pasticcini. Talora la sua offerta era accolta con allegria, talaltra rifiutata con risolutezza, o persino bruscamente. In questo secondo caso, il nuovo venuto si mangiava la sua pasta, in mezzo a commenti più o meno frizzanti.
Finalmente, si accostò al principe Florizel. — Signore — disse con un profondo inchino, porgendo al medesimo tempo la pasta con l’indice e il pollice, — volete far onore a una persona che vi è del tutto estranea? Posso rispondere della qualità della pasticceria, dato che ne ho mangiate due dozzine più tre dalle cinque fino adesso.
— È nella mia natura — replicò il principe, — guardare non tanto alla natura del dono quanto allo spirito con cui è fatto.
— Lo spirito, signore — ribatté il giovanotto con un altro inchino, — è di scherno.
— Scherno! — ripeté Florizel. — E chi vi proponete di schernire?
— Non sono qui per esporre la mia filosofia — rispose l’altro, — ma per distribuire queste paste alla crema. Se vi dico che nel ridicolo della faccenda includo di tutto cuore me stesso, spero consideriate salve le ragioni dell’onore e vogliate compiacermi. Altrimenti, mi costringerete a mangiarmi la ventottesima, e confesso d’essere stanco di questo esercizio.
 

lunedì 19 agosto 2024

Alessandro Stradella

L’esistenza rocambolesca di Alessandro Stradella, uno dei massimi compositori italiani della sua generazione, ha ispirato fin dall’Ottocento – e ispira tuttora – romanzi, film e opere in musica, che ripropongono l’ideale romantico del genio maledetto, tanto più genio quanto più maledetto e spregiudicato.

Stradella nacque a Bologna nel 1643 dal nepesino Marc’Antonio e dall’orvietana Vittoria Bartoli, pochi mesi prima che i genitori rientrassero a Nepi dopo breve soggiorno a Vignola, dove il padre durante la guerra di Castro era stato nominato vice-marchese. Le prime testimonianze sulla vita del compositore risalgono solo agli anni cinquanta, quando, morto il padre, Alessandro si trasferì da Nepi a Roma col fratello Stefano e la madre per vivere a palazzo Lante come paggio del duca Ippolito. E’ probabilmente a Roma che avvenne la sua formazione musicale.

Attorno ai vent’anni godeva già, come compositore, di una certa notorietà, dato che fu incaricato dall’arciconfraternita romana del Santissimo Crocifisso di scrivere uno dei cinque oratori in latino per la Quaresima del 1667, ma dell’effettiva composizione ed esecuzione di questo oratorio, che sarebbe il suo primo lavoro datato, non si hanno prove certe. Nonostante importanti committenze private, a Roma non riuscì mai ad assicurarsi un impiego fisso e poté contare solo su ingaggi occasionali, che evidentemente non lo fecero desistere da altre possibilità di guadagno, non sempre lecite. 

All’inizio degli anni settanta, con l’apertura del primo teatro pubblico romano, il Tordinona, Stradella fu coinvolto nelle sue produzioni dall’impresario Filippo Acciaioli. Agli stessi anni dovrebbe risalire anche la prima opera da lui interamente musicata e solo recentemente ritrovata, la Doriclea su versi del poeta romano Flavio Orsini. 

Nell’ottobre 1676 chiese protezione e ospitalità nella Serenissima al nobile veneziano Polo Michiel, in stretto contatto con l’ambiente artistico e aristocratico romano, dovendo lasciare Roma per «una certa disgrazia» occorsa – così disse. Pare avesse tentato di combinare un matrimonio, facendo sposare un nipote del cardinale Cybo niente meno che con una cortigiana e suscitando così le ire della potente famiglia del primo. Di fatto, all’inizio dell’anno successivo, il 1677, era già a Venezia, dove – non pago dei precedenti – combinò l’ennesimo guaio, che poi diventerà leggendario. Fuggì a Torino con una pupilla del nobile Alvise Contarini, Agnese van Uffel, a cui dava lezioni di canto, e nella città sabauda i due amanti trovarono rifugio in conventi diversi. Contarini, giunto a Torino per vendicare il sopruso e capire le intenzioni della sua pupilla, apprese che la donna voleva sposare Stradella e cercò di rassegnarsi, ma quando la tensione diplomatica si attenuò, nell’ottobre 1677 il musicista fu barbaramente aggredito in piazza San Carlo da due sicari, probabilmente al soldo dello stesso Contarini.

Definitivamente compromessa la sua credibilità a Torino, all’inizio dell’anno successivo, il compositore decise di trasferirsi a Genova, dove fu ben accolto e probabilmente ospitato da uno degli esponenti più in vista dell’aristocrazia locale, Franco Imperiale Lercari. Qui scrisse musica sacra, da camera e impartì lezioni private e infine scrisse una nuova opera, di carattere comico, Il trespolo tutore. 
Purtroppo non poté esprimere il suo talento ancora per molto, perché all’inizio dell’anno successivo, il 25 febbraio 1682, fu assassinato in Piazza dei Banchi, senza che siano mai stati individuati i colpevoli e appurato il movente del delitto. Ora riposa nella chiesa genovese di Santa Maria delle Vigne.

Vi faccio ascoltare La Forza delle Stelle ovvero il Damone - Serenata a sette voci, 2 concertini e concerto grosso.
La Serenata “La forza della stelle” vide la luce sicuramente in ambiente romano e probabilmente negli anni precedenti alla fuga, anche se non si ha alcuna certezza sulla data. Fu commissionata da Cristina di Svezia e nacque probabilmente dal desiderio della regina di mettere in musica una di quelle conversazioni, o accademie come venivano chiamate, che si dovevano svolgere a palazzo e che avevano come soggetto l’Amore e le sue conseguenze sugli umani. Scritta su libretto di Sebastiano Baldini, su incarico di Cristina, che si preoccupò di scrivere uno scenario per il poeta. Carolyn Gianturco ha rintracciato diverse lettere della regina a Baldini che provano la stretta collaborazione nella scrittura ed anche delle indicazioni musicali, là dove si voleva ci fosse un’aria, una sinfonia, un madrigale, un recitativo. Tutto questo rimarca la grandissima attenzione che Cristina volle porre a questa composizione che, in musica, gli doveva rammentare le Erotomachie in pittura, come quella di sua proprietà di Paolo Veronese. E, anche se non si ha alcun documento a tal proposito, collocare a Palazzo Riario, residenza della regina, la sua esecuzione.
La serenata consta di diverse arie precedute da recitativi che da quello semplice già si proiettano verso un recitativo arioso, e due duetti, per la prima parte, con i due amanti, più centrata sul dialogo d’amorosi sensi fra Damone e Clori. La seconda parte aperta da una sinfonia - balletto è molto più vivace, con strepitosi terzetti e duetti fra i passanti. Ancora una sinfonia introduce una breve terza parte con il ritorno dei due amanti e un meraviglioso madrigale a cinque terminale, dove tutta la scienza contrappuntistica di Stradella si dispiega in maniera eclatante. Una bella sinfonia apre naturalmente anche la serenata. E’ quindi la ricchezza e la varietà nell’uso delle voci quello che colpisce maggiormente all’ascolto de La forza delle stelle. Che dimostra anche da parte di Stradella una assoluta comprensione del rapporto fra testo, e quindi parola, e musica. L’uso poi della modulazione nell’ambito della tonalità rende la scrittura musicale di Stradella di incredibile modernità rispetto alle composizioni coeve, e spesso si trova ad anticipare, come fa con l’uso di concerto grosso e concertino quello che grandi compositori più tardi come Corelli e Alessandro Scarlatti renderanno di grande attualità nei decenni successivi alla sua precoce scomparsa.

Rada J. Gorrieri - Stevan, 1932



 



CSS 53: Roberto Roganti, Famiglia [ristampa]


Due paroline sul “perché”.
Il primo volume è nato praticamente per caso, volevo fare un regalo a mio padre, ma volevo farne uno unico. Così ho fatto lavorare le meningi ed è nato, piano piano, “Attimi...”.
Dentro ognuno di noi c’è, innata, la capacità di scrivere poesie, in versi o in prosa, ma quello che ci impedisce di riversare su carta il vortice di pensieri che pervade la nostra mente è la difficoltà a “cogliere l’attimo”, a fermare l’immagine dietro ai nostri occhi, a delineare un profilo descrittivo, trovare il tempo e il coraggio di farlo.
Coraggio perché, per scrivere certe cose, bisogna spogliarsi di tutte le remore, di tutti i timori, perché bisogna “aprire” la propria anima agli altri, perché bisogna metterci la faccia e non è semplice.
La cosa mi è nata così, un giorno dentro la mia auto, in una giornata piovosa, parlavo con me stesso sul tempo che buttavo via durante il mio lavoro, tempo che dovevo trascorrere dentro “una scatola di lamiera”, ho guardato fuori dal finestrino bagnato attraverso le gocce di pioggia e ho rimuginato sul tempo perso così.
Poi mi sono detto che ci sarebbe voluto un “aggeggio” che potesse fermare i nostri pensieri e registrarli, dandoci poi la possibilità di metterli “nero su bianco”, in modo da rendere questo tempo perso… utile, produttivo. Ho pensato che questo forse è il dono che hanno coloro che scrivono versi, poesie, racconti e quant’altro, hanno cioè la capacità di “fermare il tempo” e trasdurre quel nugolo di parole che ronza di continuo nelle loro teste “nero su bianco”. Così, senza accorgermene, questo pensiero sul tempo perso mi ha assillato per tutta la giornata e una volta a casa, ho preso una penna ed è nata “Futuro”.
Dopo questa, ne sono nate altre, e altre ancora. Ho incominciato così a guardarmi attorno, diversamente, ho spalancato gli occhi sul mondo, e dai e dai ne ho scritte un centinaio in tre mesi.
Tutto quello che mi colpiva rimaneva impresso nella mia mente e dovevo scriverlo per “togliermi il tarlo”, sono arrivato perfino a scriverle “al volo” sul cellulare, anche al capezzale dei pazienti.

Tornando al primo volume, ne ho scelte poco più di una trentina e ho pensato che sarebbe stato carino abbinarle a fotografie scattate da me, recenti e passate, e siccome, in fin dei conti, era un regalo per mio padre, doveva contenere qualcosa di mio, e nostro, familiare insomma. E poi non sapevo come combinarle. Ma spulciando il sito internet dove ho successivamente stampato i volumetti, mi è venuto un lampo di genio: un album fotografico con le poesie dentro le fotografie!
Qualche immagine ammetto non è mia, l’ho brutalmente copiata da internet non avendo soggetti “freschi”, altre sono andato in giro apposta a scattarle, le rimanenti le ho ripescate dall’archivio della mia vita. Risultato? Direi ottimo, a me è piaciuto tanto e spero sia piaciuto anche agli altri, una cosettina così, carina, senza pretese.
Direi un bel regalo per il compleanno di mio padre, unico, decisamente.

Poi, non potendo buttare via tutte quelle rimaste, sul mio computer ne avevo già assemblato uno per mia madre che, come supponevo, mi avrebbe chiesto: “E a tua madre?” Lei non lo sapeva, ma “Illusionista” era già pronto….
Questo, “Famiglia", però è nato diverso, meno ricco sia in poesie che in fotografie. D’altra parte il primo doveva essere “unico” e unico è rimasto. Dal secondo in poi ho adottato un sistema di
composizione differente, non più album fotografico, ma semplicemente impaginatura tipo romanzo, rilegato e impaginato “stile bestseller”, con gli scritti alternati ad alcune fotografie, peccato solamente che la qualità fotografica venga
a mancare.
Adesso ecco qui il terzo, e poi ne seguiranno altri, sono già pronti, in attesa di essere “montati”, oramai sono incontenibile.

Un grande grazie comunque spetta a mia moglie, per la sopportazione di un marito spesso evanescente e perso nei suoi più reconditi pensieri, un marito che a volte non vuole essere disturbato, un marito che all’improvviso si sveglia di notte per
scarabocchiare geroglifici su qualsiasi foglio gli capiti a tiro, un marito che sa benissimo come sia difficile sopportarlo.

Roberto Roganti
(29 Maggio 2010)


venerdì 16 agosto 2024

Nero Wolfe

 


Stati Uniti, 1934 / Rex Stout

Nato tra il marzo del 1892 e il marzo del 1895 a Trentin (New Jersey, Stati Uniti), pur vantando strettissimi legami con il Montenegro, l'estroso e bizzarro Nero Wolfe potrebbe essere figlio illegittimo di una famosa cantante lirica, Irene Adler, e dello stesso Sherlock Holmes, ma questa storia non è mai stata sufficientemente chiarita. 


Mastodontico (qualcuno dice addirittura pachidermico) e pantagruelico, ama soprattutto la buona cucina e le sue orchidee, alle quali dedica lunghe ore quotidiane, capiti quello che capiti, in un'attrezzatissima serra che si trova all'ultimo piano del proprio appartamento-studio, situato a New York in una vecchia casa d'arenaria sulla Trentacinquesima Strada Ovest, a mezzo isolato dal fiume Hudson. 



Le sue altre passioni sono i libri, la musica, gli Stati Uniti e la sua famiglia.
Quanto alle sue avversioni, eccole: «i politicanti, i predicatori, le persone cerimoniose e quelle che vivono senza lavorare, le menti ristrette, il cinema, la televisione, i rumori molesti, l'untuosità».
Nero Wolfe parla correntemente sette lingue (inglese, francese, spagnolo, serbo-croato, ungherese, italiano e albanese, ma se la cava molto bene anche con il latino) ed è un misogino convinto. Capriccioso e indisponente, nutre un altissimo concetto di se stesso e si considera semplicemente infallibile. 



Insieme al suo braccio destro nonché narratore di tutte le sue avventure, Archie Goodwin, forma una delle più famose coppie della letteratura poliziesca.
Nero Wolfe fa l'investigatore privato per lucro, oltre che per la vanità di dimostrare la propria superiorità a tutti coloro con i quali ha di volta in volta a che fare (a incominciare da Fergus Cramer, lo stolido ispettore della squadra omicidi di New York) ed è incredibilmente pigro. Tanto che rarissimamente lascia la propria casa. Quando si tratta di andare da qualche parte ci pensa
l'asciutto e scattante Archie Goodwin, il suo ineffabile braccio destro. 



Per un certo periodo Nero Wolfe ha praticato un curioso "esercizio fisico": tirare freccette per quindici minuti al giorno. Ma ha quasi subito lasciato perdere questo "sport" perché lo giudicava troppo faticoso!
Pur essendo diversissimi (anzi, proprio per questo), Nero Wolfe e Archie Goodwin si completano a vicenda e nessuno dei due riuscirebbe a fare a meno dell'altro. Né Nero Wolfe, che ha bisogno che qualcuno di cui fidarsi ciecamente vada in giro a vedere coi propri occhi e torni a riferire con grande precisione impressioni di prima mano, né Archie Goodwin che, pur non essendo assolutamente uno sciocco, spesso non sarebbe in grado di cavarsela
da solo in tutto e per tutto. 



Quando c'è bisogno di più gente per qualche indagine particolarmente complessa, i due ricorrono al piccolo e trasandato Saul Panzer, al grosso Fred
Durkin e all'affascinante Dol Bonner, l'unica donna che il misogino Nero Wolfe stimi. Nelle diversità tra Nero Wolfe e Archie Goodwin e nel loro completarsi a vicenda ci sono proprio alcune delle ragioni del loro successo.



Per la prima volta, infatti, Rex Stout ha avuto l'idea di conciliare la scuola inglese (con l'investigatore tutto cervello) con quella statunitense (con l'investigatore sempre in movimento che 'non esita a parare e a fare a pugni ogni volta che se ne presenta l'occasione.
Come sono nati questi personaggi?
«Poiché sono un romanziere - ha detto una volta Stout, - potrei inventare varie risposte, ma la verità è che non lo so nemmeno io. So soltanto che nella narrativa ci sono due tipi di personaggi: quelli creati e quelli costruiti. Amleto, per esempio, è un personaggio creato, così come Anna Karenina. ( ... ) Nero
Wolfe e Archie Goodwin sono 'creati', come Amleto».



Nero Wolfe e Archie Goodwin sono protagonisti di una trentina di romanzi,
pubblicati in Italia da Mondadori. Dal primo all'ultimo passano quarant'anni ma, come ha scritto Marco Polillo, chi non conoscesse le date dei singoli titoli «non riuscirebbe mai a indovinare una tale distanza: l'impianto delle storie, le situazioni stesse sono così nitide, così tipicamente ripetitive, che sono immediatamente attribuibili alla penna di Stout, e i due personaggi sono così immutabili in ogni più piccolo particolare da sembrare scolpiti nel tempo».


Salvo errori e omissioni, i personaggi di Rex Stout sono stati portati soltanto due volte sullo schermo in Meet Nero Wolfe (1936) di Herbert Biberman e in The league of frightened men (1937) di Alfred E. Green.
Nero Wolfe è stato interpretato la prima volta da Edward Arnold e la seconda da Walter Conolly, mentre Lionel Stander è stato Archie Goodwin in entrambi i film. 



Nel 1959 uscì una serie TV chiamata semplicemente Nero Wolf, dove Kurt Kasznar venne scelto per interpretare il detective per la CBS, al fianco di William Shatner (sette anni dopo William divenne il capitano Kirk di Spazio 1999) nel ruolo di Archie Goodwin. La serie fu tuttavia abbandonata dopo la realizzazione di pochi episodi.



Santos Ortega e Sydney Greenstreet sono tati rispettivamente Nero Wolfe e
Archie Goodwin in una serie di trasmissioni radiofoniche realizzate negli
Stati Uniti a partire dal 1943.




Le avventure di questi personaggi sono state raccontate a fumetti negli anni Cinquanta negli Stati Uniti dallo sceneggiatore John Broome e dal disegnatore Mike Roy. La serie è stata in seguito continuata da France Edward Herron e da Fran Mantera.


Anche se le avventure di Nero Wolfe erano state portate con successo sul piccolo schermo in Italia a partire dal 1968, col bravissimo Tino Buazzelli nei panni del grosso investigatore privato amante della buona tavola e delle orchidee e il simpatico Paolo Ferrari in quelli del suo braccio destro, può essere curioso ricordare che Rex Stout detestava la televisione e si era sempre opposto alla riduzione delle avventure di Nero Wolfe negli Stati Uniti. La Paramount fu quindi costretta ad attendere la sua morte per acquistarne finalmente i diritti dagli eredi, nel 1975. 



Due anni dopo trasse da The doorbell rings un tv movie sceneggiato da Frank Gilroy e interpretato da Thayer David e Tom Mason, che non ebbe un grande successo, e anche la successiva serie di telefilm, piuttosto fiacca e decisamente inferiore, fu interrotta dopo soli tredici episodi, anche per l'improvvisa scomparsa di Thayer David.


Negli Stati Uniti altri tredici telefilm da 50 minuti andarono in onda nel 1981, dal 16 gennaio al 25 agosto. Il geniale investigatore era questa volta interpretato da William Conrad (che già aveva rivestito i panni di Cannon), mentre Lee Horsley era Archie Goodwin e Allan Miller era l'ottuso ispettore
Cramer della polizia di New York. Pur avendo il fisico adatto, Conrad non possedeva però né la bravura né l'ironia di Tino Buazzelli.



Può essere infine curioso ricordare che le avventure di Nero Wolfe e Archie Goodwin sono state continuate, nella seconda metà degli anni Ottanta, dallo statunitense Robert Goldsborough. «Non ho copiato lo stile di Stout - ha dichiarato questo autore, - perché ne ho uno mio, ma ho lavorato molto sui personaggi principali e li ho fatti muovere come lui li avrebbe fatti muovere». 


Nel 2012 la Casanova Multimedia e la Rai Fiction mettono inscena ben 8 episodi: Francesco Pannofino è Nero Wolfe; Pietro Sermonti è Archie Goodwin; Andy Luotto è il cuoco e maggiordomo di casa Wolfe.




Anche questi romanzi sono pubblicati in Italia da Mondadori, mentre un volume con le ricette di Nero Wolfe, «così come ci sono state tramandate dai romanzi di Stout», è stato allegato nel 1975 all'Omnibus Mondadori Nero Wolfe, Archie Goodwin & Company.



giovedì 15 agosto 2024

Urania n.2 - Lester del Rey: Il Clandestino Dell'Astronave



Da un'ora il grande elicottero saliva, nella notte e nell'aria che si andava
rarefacendo, verso le cime delle Ande. Ora, giunto a 6000 metri d'altezza,
l'elicottero si mantenne a quella quota, mentre il motore prendeva a ronfare
monotono. Già il sole toccava le cime delle montagne, e la stazione
interplanetare apparve a un tratto, nitidamente, a un paio di chilometri più
avanti.
Il ragazzo biondo e robusto, che occupava il sedile del passeggero, si
mosse d'un tratto e cominciò a strofinarsi gli occhi celesti, annebbiati dal
sonno.
Chuck Svensen era piuttosto basso per la sua età; non aveva ancora
diciotto anni, e la sua statura non giungeva a un metro e settanta; il viso era
ancora imberbe. Gli riusciva sempre difficile convincere la gente della sua
vera età. Ora, vedendo il campo dei razzi interplanetari, il suo viso assunse
un'espressione così eccitata da farlo sembrare ancor più giovane.
Ma c'era del rispetto sul volto del pilota.
«Dev'essere bello tornarsene a casa sulla Luna» disse con una punta
d'invidia nella voce.
Chuck sorrise.
«È meraviglioso. Dopo aver vissuto lassù quattro anni, pesando un sesto di
quello che si pesa sulla Terra, mi sembra di essere una tonnellata di piombo.
Ma ne è valsa la pena».
«Ne è valsa la pena!» ripeté il pilota, con tono ora chiaramente invidioso.
«Ragazzo mio, tu sei uno dei sei più fortunati individui del mondo. Darei il
braccio destro per poter partire anch'io col primo razzo per Marte!»
Chuck assentì. Non gli sembrava ancora vero. Per quattro anni aveva
seguito la fabbricazione dell'astronave che doveva fare quel viaggio, senza
nutrire alcuna speranza.
Persino quando il Governatore della Città della Luna era riuscito a
ottenere che dell'equipaggio facesse parte un appartenente al gruppo della
Luna, Chuck non aveva osato neppur sognare una simile fortuna.
Il limite di età era stato stabilito rigorosamente tra i diciotto e i ventisette
anni, ed egli avrebbe compiuto i diciotto anni proprio il giorno della partenza.
Quando, grazie alla sua esperienza di radar e per la sua prestanza fisica, era
stato prescelto, in tutta la Città della Luna non vi fu una persona più sorpresa
di lui.
Ne seguirono lunghe notti di studio, quasi completamente insonni, un
viaggio speciale sulla Terra, e due settimane di durissimi esami che misero a
prova le sue capacità. Ora era riuscito; e stava tornando alla Luna, da dove
quasi subito avrebbe dovuto partire per Marte.
L'elicottero stava atterrando. Chuck vide molti uomini indossanti gli abiti
pesanti adatti al freddo intenso dell'ambiente. L'aria era troppo rarefatta per
poter respirare facilmente e tutti portavano maschere che fornivano ossigeno
e che davano loro l'aspetto di mostri inumani. Egli si mise la maschera
allorché l'elicottero toccò terra; sostò un attimo, poi si lasciò scivolare sul
campo. La piccola astronave speciale della Luna aveva già atterrato e la si
stava allestendo per il viaggio di ritorno. Dalle tre alette di base, che ora
servivano da sostegni, alla estrema punta, essa misurava 13 metri. L'astronave
aveva la forma di un grosso sigaro munito di ali tozze. Alcune pompe stavano
riempiendo di carburante i serbatoi e alcuni gru caricavano scatolame e
strumenti dì precisione nel piccolo compartimento apposito. Una grossissima
macchina aveva tolto la camicia consumata dell'astronave e la stava
sostituendo con una nuova. Un enorme carro officina lavorava al motore
atomico, sostituendo le cassette consumate di plutonio.
Chuck aveva già visto altre volte tutte queste manovre. Si fece strada fra
gli uomini che tenevano i carri officina a distanza di sicurezza dal motore
atomico aperto e si avviò verso la mensa. Gli abiti e la maschera che
indossava gli davano un aspetto non molto differente da quello degli altri,
così che non attrasse l'attenzione. Ciò gli fece piacere, dopo la notorietà che
aveva goduta dopo aver superato gli esami.
Nella mensa ad aria condizionata Chuck trovò il pilota dell'astronave che
sorseggiava il caffè e aveva gli occhi fissi sul cameriere che ne stava
preparando dell'altro. Jeff Foldingchair non arrivava a un metro e
sessantacinque di statura, ma il colore ramato del suo viso e i suoi capelli
nero-blu lasciavano supporre che, come egli asseriva, fosse di pura razza
indiana Cherokee. Aveva fatto parte dell'equipaggio nel secondo viaggio alla
Luna, venticinque anni prima, ed era ancora uno dei migliori piloti su quella
linea. I suoi occhi neri incontravano nello specchio dietro il banco quelli di
Chuck. Non si volse, ma i suoi denti bianchi rifulsero in un subitaneo sorriso.