giovedì 15 agosto 2024

Urania n.2 - Lester del Rey: Il Clandestino Dell'Astronave



Da un'ora il grande elicottero saliva, nella notte e nell'aria che si andava
rarefacendo, verso le cime delle Ande. Ora, giunto a 6000 metri d'altezza,
l'elicottero si mantenne a quella quota, mentre il motore prendeva a ronfare
monotono. Già il sole toccava le cime delle montagne, e la stazione
interplanetare apparve a un tratto, nitidamente, a un paio di chilometri più
avanti.
Il ragazzo biondo e robusto, che occupava il sedile del passeggero, si
mosse d'un tratto e cominciò a strofinarsi gli occhi celesti, annebbiati dal
sonno.
Chuck Svensen era piuttosto basso per la sua età; non aveva ancora
diciotto anni, e la sua statura non giungeva a un metro e settanta; il viso era
ancora imberbe. Gli riusciva sempre difficile convincere la gente della sua
vera età. Ora, vedendo il campo dei razzi interplanetari, il suo viso assunse
un'espressione così eccitata da farlo sembrare ancor più giovane.
Ma c'era del rispetto sul volto del pilota.
«Dev'essere bello tornarsene a casa sulla Luna» disse con una punta
d'invidia nella voce.
Chuck sorrise.
«È meraviglioso. Dopo aver vissuto lassù quattro anni, pesando un sesto di
quello che si pesa sulla Terra, mi sembra di essere una tonnellata di piombo.
Ma ne è valsa la pena».
«Ne è valsa la pena!» ripeté il pilota, con tono ora chiaramente invidioso.
«Ragazzo mio, tu sei uno dei sei più fortunati individui del mondo. Darei il
braccio destro per poter partire anch'io col primo razzo per Marte!»
Chuck assentì. Non gli sembrava ancora vero. Per quattro anni aveva
seguito la fabbricazione dell'astronave che doveva fare quel viaggio, senza
nutrire alcuna speranza.
Persino quando il Governatore della Città della Luna era riuscito a
ottenere che dell'equipaggio facesse parte un appartenente al gruppo della
Luna, Chuck non aveva osato neppur sognare una simile fortuna.
Il limite di età era stato stabilito rigorosamente tra i diciotto e i ventisette
anni, ed egli avrebbe compiuto i diciotto anni proprio il giorno della partenza.
Quando, grazie alla sua esperienza di radar e per la sua prestanza fisica, era
stato prescelto, in tutta la Città della Luna non vi fu una persona più sorpresa
di lui.
Ne seguirono lunghe notti di studio, quasi completamente insonni, un
viaggio speciale sulla Terra, e due settimane di durissimi esami che misero a
prova le sue capacità. Ora era riuscito; e stava tornando alla Luna, da dove
quasi subito avrebbe dovuto partire per Marte.
L'elicottero stava atterrando. Chuck vide molti uomini indossanti gli abiti
pesanti adatti al freddo intenso dell'ambiente. L'aria era troppo rarefatta per
poter respirare facilmente e tutti portavano maschere che fornivano ossigeno
e che davano loro l'aspetto di mostri inumani. Egli si mise la maschera
allorché l'elicottero toccò terra; sostò un attimo, poi si lasciò scivolare sul
campo. La piccola astronave speciale della Luna aveva già atterrato e la si
stava allestendo per il viaggio di ritorno. Dalle tre alette di base, che ora
servivano da sostegni, alla estrema punta, essa misurava 13 metri. L'astronave
aveva la forma di un grosso sigaro munito di ali tozze. Alcune pompe stavano
riempiendo di carburante i serbatoi e alcuni gru caricavano scatolame e
strumenti dì precisione nel piccolo compartimento apposito. Una grossissima
macchina aveva tolto la camicia consumata dell'astronave e la stava
sostituendo con una nuova. Un enorme carro officina lavorava al motore
atomico, sostituendo le cassette consumate di plutonio.
Chuck aveva già visto altre volte tutte queste manovre. Si fece strada fra
gli uomini che tenevano i carri officina a distanza di sicurezza dal motore
atomico aperto e si avviò verso la mensa. Gli abiti e la maschera che
indossava gli davano un aspetto non molto differente da quello degli altri,
così che non attrasse l'attenzione. Ciò gli fece piacere, dopo la notorietà che
aveva goduta dopo aver superato gli esami.
Nella mensa ad aria condizionata Chuck trovò il pilota dell'astronave che
sorseggiava il caffè e aveva gli occhi fissi sul cameriere che ne stava
preparando dell'altro. Jeff Foldingchair non arrivava a un metro e
sessantacinque di statura, ma il colore ramato del suo viso e i suoi capelli
nero-blu lasciavano supporre che, come egli asseriva, fosse di pura razza
indiana Cherokee. Aveva fatto parte dell'equipaggio nel secondo viaggio alla
Luna, venticinque anni prima, ed era ancora uno dei migliori piloti su quella
linea. I suoi occhi neri incontravano nello specchio dietro il banco quelli di
Chuck. Non si volse, ma i suoi denti bianchi rifulsero in un subitaneo sorriso.
 

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