“A” non si chiamava A. E come avrebbe potuto? “A” va benissimo per cominciare l’alfabeto, ma come nome proprio è inammissibile. Nessun genitore battezzerebbe A il proprio primogenito per quanto figlio di puttana possa essere. A come Andrea? A come anonimo? Persino A come Agerònia, una bella farfalla delle regioni calde dell’America delle famiglie dei ninfalidi. Ma mai A come A e basta. A è tronco, la testa di un nome decapitato. L’unico vantaggio e pregio nel chiamarsi A consiste nel fatto che in un mondo in cui gli uomini sono ormai diventati dei numeri, chiamandosi A se non altro si è una lettera.
A, comunque, non si chiamava A. Ironia della sorte vuole che il suo vero nome cominciasse con la Zeta. Zeno? Zoroastro? Zorro? Chi può dirlo. In ogni caso A si chiamava Zeta. AZ: il principio e la fine. Come in tutte le cose, come in tutte le storie, questa compresa.
A si stava annoiando a morte accovacciato dietro la finestra di un assolato palazzo a vetri. La stanza era spoglia, se si escludono A, una teoria di mozziconi di sigarette “forti”, il cadavere di qualche lattina di birra e un fucile con mirino telescopico già montato. La finestra non dava sul cortile, dava su una piazza. Una bella piazza con una fontana rappresentante il Minotauro. Dalle narici del Minotauro zampillava acqua potabile.
Tra qualche ora la folla sarebbe arrivata e, tra la folla, acclamato immeritatamente sarebbe comparso il bersaglio. A non si chiamava A, ma il bersaglio, come tutti i bersagli, si chiamava X. A guardò il pacchetto di sigarette cincischiato più per noia che per nervosismo. Poi guardò il fucile e decise che avrebbe smesso. Non sapeva nemmeno lui se di fumare o di uccidere. A apparteneva a quella categoria di persone che per certuni sono dei patrioti, per certi altri dei macellai. Del resto, suo padre aveva una macelleria ad Aix en Provence ed era stato partigiano durante l’occupazione di Parigi. L’unica cosa di Vichy che tollerava era l’acqua, pur preferendo di gran lunga il vino. Così, vuoi un po’ per ereditarietà, vuoi un po’ perché la vita oltre ad essere breve è vuota se non fai tu qualcosa per riempirla, A era diventato un patriota macellaio. Un killer. Aveva riempito la propria vita di attese e di cadaveri.
Ma forse è così un po’ per tutti.
* * *
Dall’altra parte della piazza B teneva d’occhio A. Da un altro palazzo di vetro (lo stesso architetto?) B avrebbe dovuto liquidare A una volta che A avesse adempiuto al “contratto”. C aveva detto a B: «Quell’A non mi piace.
È troppo sensibile. Pensa che dal suo dossier ho appreso che una volta, nel
’76, ha perfino scritto una poesia».
«Nooo» aveva ribattuto B cercando di non arrossire, visto che lui continuava a scrivere poesie, sia pure pornografiche.
«Proprio così. È il capro espiatorio perfetto per noi. Lui liquida X, noi liquidiamo lui con pallottole di fabbricazione sovietica.»
«E la perestroika?» aveva chiesto B che pur non leggendo i giornali guardava i telegiornali.
«Chiunque può usare pallottole di fabbricazione sovietica, noi compresi. Ma anche tutti gli altri. Quanto al “disarmo” ci si riferisce ad armi nucleari, non certo a fucili.»
B si era convinto. Non ci voleva molto a convincerlo. Bastava pagarlo e le obiezioni parlavano sempre più flebilmente alle sue orecchie a sventola. Poi B non sentiva più nulla, un po’ per il denaro, un po’ per il cerume: a quel punto cominciava a sparare.
* * *
C dopo aver salutato B aveva attraversato la piazza, accarezzato la testa di un bambino e gettato due soldi nella fontana. A Roma, a Fontana di Trevi, nessun suo desiderio si era mai realizzato, ma C era un tipo tenace.
Non demordeva mai. Si era fatto un punto d’onore di gettare monetine in tutte le fontane che avesse incontrato girando il mondo. Finora nulla. Ma il mondo è pieno di fontane.
C si ripromise, una volta tornato alla base, di chiedere al computer quante fontane gli restassero, al mondo, da centrare con le sue monetine.
L’operazione, alla lunga, era senz’altro dispendiosa, ma per coprire le spese C si era imposto di non lasciare mai mance ai camerieri, di non fare mai regali a San Valentino. Del resto per lui San Valentino, più che la festa degli innamorati, evocava il massacro di San Valentino, il 14 febbraio del 1929 quando Al Capone, beato lui, era entrato nella leggenda, al contrario di C costretto per lavoro ad un’anonima poco meritocratica clandestinità.
C si sentì battere una mano sulla spalla e rabbrividì. Si girò pronto a tutto, specialmente al peggio, e si trovò di fronte al padre del bambino che aveva distrattamente accarezzato. L’uomo era a un tempo gentile e imbarazzato.
«Signore, ehm, ehm. Le è caduto questo». Il padre del ragazzo porse a C un toupè. C divenne rosso rosso. Si toccò in testa e dopo aver certificato che il suo cranio calvo era imperlato di goccioline di sudore, balbettò:
«Non è mio. Mi scusi devo andare».
Padre e figlio rimasero lì, ancora più imbarazzati e indecisi su cosa fare di un parrucchino biondo platino.
C sparì. Fu inghiottito dal portone di un ennesimo palazzo di vetro.
Raggiunse l’appartamento ammobiliato che aveva affittato sotto falso nome.
Si avvicinò ad una finestra ed individuò immediatamente B. Ci sarebbe voluto un certo tempismo, avrebbe dovuto aspettare che A sparasse al bersaglio. Poi, dopo il tiro di B su A, avrebbe sparato su B con sommo piacere.
C distolse lo sguardo da B e rivolse la propria attenzione alla piazza. Nel centro della fontana galleggiava, macabro come il corpo di un affogato, il suo amato tupè.
* * *
D aveva seguito la scena: “disgustoso” pensò “quella vecchia checca di C lasciava dietro di sé più tracce di Pollicino. E non lasciava briciole, lasciava indizi voluminosi come sterco di elefante. Un tupè color platino. E quell’idiota aveva anche negato che fosse suo. Come se qualcuno avesse potuto credergli. C, tutto abbronzato tranne la nuca e metà fronte bianche… bianche come il corpo di un annegato. Bisognava proprio liberarsi di lui”.
D non amava sporcarsi le mani. Per questo portava i guanti. La pallottola del suo fucile avrebbe creato un bel buco nella parte di fronte nivea di quel finocchio abbronzato. D detestava gli omosessuali. Per lui il fucile era un prolungamento del pene. Con mirino, per di più. Ogni qualvolta sparava gli si inturgidiva il pene. Le sue compagne occasionali si chiedevano spesso come mai D, prima di “consumare” facesse scemenze infantili tipo spruzzarle improvvisamente con una pistola ad acqua.
* * *
La piazza era praticamente assediata da palazzi di vetro. Se per Palazzo di vetro si intende generalmente l’ONU, si sarebbe potuto, per la piazza, coniare il calembour: “ONU, nessuno, centomila”.
L’architetto che aveva concepito i palazzi, era stato senz’altro un lettore di Antonio Neri, l’immortale autore, che purtroppo morì, di quel L’arte vetraria distinta in libri sette pubblicata a Firenze nel 1612.
L’opera che ha dato tanto conforto a intere generazioni di vetrai e di bambini armati di fionde, riposa oggi nel dimenticatoio. Il primo trattato di tecnologia vetraria stampato nel mondo, aveva però suscitato grandi entusiasmi nell’artefice di quei palazzi.
Ma altrettanto smisurato sarebbe stato l’odio nei confronti di Antonio Neri da parte di Anatra se avesse letto quel libro. Anatra si trovava sul tetto del più alto dei palazzi di vetro nonostante il suo più totale disinteresse ad A, B, C, D. Alle finestre di altri palazzi si erano aggiunti E, F, G, H… Anatra ignorava la loro presenza. Aspettava che la piazza si riempisse per sentire, lassù, un po’ meno la solitudine. Ana tra è un nome da killer? Come Sciacallo? Da spia, come Condor? Forse. In ogni caso Anatra avrebbe odiato Antonio Neri perché la sua occupazione nella vita terrena era quella di pulire vetri.
Anatra era un essere di sesso femminile, un donnone ottuso con improvvisi guizzi di intelligenza. Il suo cervello era prevalentemente appannato, ma una strofinatina, e ritornava a far filtrare la luce. Era grossa, goffa, sgraziata. Talvolta sfregando troppo forte rompeva qualche vetro. Gli amministratori dello stabile la rimproveravano affettuosamente. Non per comprensione comunque, Anatra faceva il lavoro di dieci persone al prezzo di mezza. Ignorava l’esistenza dei sindacati. Non diceva mai no. Non diceva nemmeno sì, se è per questo. Si limitava a bofonchiare qualcosa e poi tornava nei mille pensieri che affollavano come pulci su un cane il suo non pensare. I ricordi tornavano ed era peggio, molto peggio. Ricordava che la chiamavano Anatra perché somigliava ad un’anatra gigantesca. Era un’anatra domestica e come tale derivava dall’anatra selvatica. L’anatra è un animale rustico, resistente alle intemperie ed abbastanza facile da allevare. Ma soprattutto facile da ferire. Quando al paese vedendola passare tutti i ragazzi le facevano il verso “qua qua qua”, Anatra dapprima ci aveva riso su e li aveva imitati non essendosi accorta di essere lei l’imitata. Ed essendo purtroppo l’imitata e limitata, era tornata a casa facendo “qua qua”.
Suo padre l’aveva caricata di botte. Se il mondo esterno continuava a prenderla in giro (qua qua), col mondo familiare le cose non andavano meglio per Anatra. Il padre l’accusava di aver causato la morte della madre uscendo, lei così grossa, dal corpo della puerpera dal fisico esile di una ballerina.
«Tua madre, da ragazza, faceva la ballerina classica. Tu, razza di anatra, nascendo l’hai uccisa. Colette era così… così…, mentre tu sei un coso… un coso…»
Anatra, per non soffrire aveva smesso di ascoltare. Non voleva cedere alla tentazione di odiare e perciò, da allora, il suo cervello si era rifiutato di immagazzinare parole che non fossero ordini: “Lava. Stira.
Pulisci i vetri”. Pulire i vetri, la sua specialità. Ma adesso era venuto il momento di riposarsi. Anatra si era issata dall’impalcatura sul tetto del palazzo con un bastone alla cui cima era avvolto uno strofinaccio co me scettro ed un enorme secchio di ferro pieno d’acqua sporca come damigella. Sua madre era stata una farfalla. Lei era irrimediabilmente un’anatra.
Anatra ignorava la presenza di tutti quei fucili più in basso. Era una calda primavera e la stagione di caccia all’anatra era ancora aperta.
* * *
X, il bersaglio, era ancora abbastanza lontano da piazza dei fucili. Si trovava nel cuore di Mentone, subito dopo Ventimiglia visto dall’Italia, subito dopo Antibes visto dalla Francia. X, che guarda caso di nome faceva Xavier, si stava scocciando a morte. Doveva presenziare alla Fête International du Citron. Una manifestazione che personalmente aborriva, ma che politicamente adorava.
Dopo aver visitato l’altrettanto seccante chiesa barocca del XVII secolo e aver gettato un’occhiata distratta ma concupiscente ad una biondina che camminava con due maltesi al guinzaglio, dopo aver respirato il cielo, il mare e un Davidoff, dopo tutto ciò non aveva potuto esimersi dal visitare la Festa del limone.
Centocinquantamila visitatori, provenienti da tutta Europa, con l’Europa unita sono centocinquantamila elettori. Xavier era bello, pletorico ed odiava i limoni. Fin da piccolo, il gusto asprigno lo aveva disgustato, ma ora era costretto a subirsi nei giardini di Mentone le composizioni, i carri allegorici costruiti con limoni e arance.
Le arance però servivano solo a dare una nota di colore. Il piatto forte erano gli stramaledettissimi limoni.
La festa era alla sua cinquantasettesima edizione. Proprio l’età di X. Ogni anno le sfilate di agrumi erano a tema.. L’edizione che X stava controvoglia vivendo, era ispirata ai miti e alle leggende del Mediterraneo.
Prima di morire X si gustò, con il volto atteggiato ad un rapito entusiasmo, Le char de Toutankhamon, la Nef Argo, riproducente il vascello degli Argonauti, e poi balene, delfini giganti, tutti composti prevalentemente da limoni con l’ausilio di qualche arancia.
“Di che sfamare a spremute tutto il terzo mondo” pensò X con lo spirito umanitario di chi vuol smerciare limoni e arance prima che marciscano. X non era un vero e proprio farabutto. In un governo di mele marce, si limitava ad essere, seppur controvoglia, un limone.
Mentone, limoni a parte, viveva una magica primavera. Magica perché usuale, eterna. Il tempo, lì, si era fermato. E sul bello. Ma X non aveva nemmeno il tempo di pensare se avesse o meno la voglia di tornarci in un’altra vita.
Troppe preoccupazioni. De Gaulle era morto da un pezzo e gliene dava ancora. E poi sua moglie, i figli, l’amica, il Nobel per la pace, la guerra, madre Teresa di Calcutta da baciare per le foto. Possibile che non avesse delle nipoti? Eppure gli indiani proliferano come tutti gli altri.
E le minacce, il petrolio, le interrogazioni parlamentari, la religione l’oppio dei popoli, l’alcolismo l’oppio dei poveri. L’oppio, l’oppio di se stesso. La CEE. La CIA. Il Ciad.
X si sentiva, come Atlante, il peso del mondo sulle proprie spalle. Con tutto quello che avrebbe dovuto fare, invece era lì a parlare di limoni.
Un giornalista gli piantò un microfono in bocca e X, il bersaglio, perso nei suoi pensieri limonò.
Quando qualche ora dopo X arrivò nella piazza dei fucili, il caldo non era diminuito. A, che nel 1976 aveva scritto una poesia, non poté fare a meno di pensare: “Se il vetro avesse le ascelle chissà che puzza”. Il pacchetto di sigarette di A, ormai vuoto, era accartocciato ed inutile. Esattamente come si sentiva A in quel momento. Le birre, il caldo, l’attesa trasformano un macellaio patriota in un sentimentale sudato. A, come cosa? A come amore? Impossibile. Per amare qualcun altro bisogna essere qualcuno. Ed A non era che un’iniziale. Un’iniziale senza fine.
Se non altro l’attesa era finita. A come assassino? No, A non aveva mai pensato a sé in questi termini. E allora A come eroe? Già, ma eroe cominciava con la E. “Che fare?” si era chiesto Lenin e si chiedeva A.
Sparare a quel fesso pomposo che per motivi ad A ignoti aveva le tasche dell’abito fresco lana, gonfie come fossero state riempite di limoni?
Ma sì, sparare, sparare, sognare forse. A si preparò al tiro.
* * *
B osservava con estrema attenzione ogni mossa di A. Ma A, a parte fumare e bere, si era mosso così poco che B aveva finito per addormentarsi. Poi al risveglio si era sporto per controllare che non fosse successo niente.
La piazza era gremita ed X stava arrivando.
B si infilò un’unghia troppo lunga nell’orecchio. Poi la trasferì nel naso.
Avrebbe fatto schifo a chiunque. Compreso se stesso.
Ma nella stanza non c’erano specchi. C’era solo lui con la sua avidità patologica, la sua obbedienza servile, le sue orecchie a sventola e la sua illusione di vivere ancora a lungo.
* * *
C osservava disgustato i movimenti dell’unghia di B. Cosa avrebbe dato pur di sparargli prima del tempo. B, quell’essere inutile, aveva solo una cosa che C non avesse: I capelli. La capigliatura di C era ancora nella fontana, costretta ad uno shampoo pubblico. Pubblico, almeno lui.
Mentre C da una vita si era dovuto tenere nascosto dietro a un tupè o ad un palazzo di vetro. Non si era mai potuto mettere il rossetto.
Specie in missione.
Eppure nei film ci sono agenti segreti, killer, poliziotti, quello che vuoi, che per operare si travestono da donna. Già, ma la vita è molto più incredibile di un film. Un film ha una trama per volta. C aveva vissuto mille trame solo in quelle poche ore d’attesa.
Però se non ci si toglie qualche soddisfazione… prima di sparare a B, decise, lui indeciso tra essere un effeminato o una virago, che si sarebbe truccato.
Cominciò dalle labbra.
* * *
D fu colto da un conato di vomito. C aveva passato il segno. Perché non sparargli subito? Carezzò il grilletto e l’effetto sortito fu la consueta erezione.
Tutto l’odio che D coltivava nei confronti dei non maschi come lui e come il suo fucile, raggiunse il parossismo. Perché un uomo vero quale lui era avrebbe dovuto aspettare un giro di vite prima di sparare? Perché aspettare una sequenza ordinata di omicidi quando al principio c’era il caos?
Semplice, perché lui era un professionista.
D abbassò il fucile e guardò di nuovo C. L’erezione persisteva. Allora D capì e tutto il suo mondo di fucili gli cadde addosso. C lo eccitava. Quel vecchio schifoso frocio calvo gli piaceva.
D prese la mira.
* * *
Anatra guardava la folla. Poi alzò lo sguardo vacuo e vide una grossa nuvola nera che si avvicinava al tetto. Al suo tetto. L’unico luogo che fosse veramente suo.
Rabbrividì per paura dello sfratto e abbassando gli occhi verso la piazza non poté fare a meno di notare la canna di un fucile. E allora Anatra ricordò. Ricordò la fine che in genere facevano le anatre. Ricordò l’anatra arrosto, l’anatra brasata con lenticchie, con olive, con piselli e lardo, all’arancia, con rape, al riso, ripiena, farcita, in salmì, à la presse.
Così nacque la paura e Anatra, da domestica tornò selvatica. L’istinto di sopravvivenza sostituì la paura e fu sostituito dall’odio. Un odio gigantesco come una Grande Anatra. Un odio totale, più giustiziere che vendicativo.
Man mano che la nuvola si avvicinava, Anatra, come la nuvola rabbuiava il bel tempo, colorava le sue piume di un nero, buio perché profondo. In quel momento Anatra capì che la tempesta non si sarebbe potuto né trattenere né rimandare. Anatra odiò. E allora il bastone con lo strofinaccio che era stato il suo scettro, diventò il suo fucile. Anatra prese la mira e sparò, ma dal bastone non uscì nessuna pallottola. A quel punto Anatra capì che la sua arma era il secchio. Il secchio che per lei era stato damigella, divenne bomba. Anatra lo lasciò cadere tra la folla che odiava.
Il secchio sfondò il cranio di X che stava per dire una frase fatta. A guardò attonito l’ex testa di X dalla quale uscivano progetti, pensieri e materia cerebrale.
* * *
B si trattenne dallo sparare ad A. A non aveva sparato e dunque non era più necessario sparargli.
C truccatissimo come una vera lady, anche se un po’ vacca, decise di non sparare subito a B. Scelse di rimandare l’esecuzione per avere il proprio permesso di truccarsi un’altra volta. D non fece niente. Non avrebbe potuto farlo, del resto, dato che si era sparato.
E, F, G, H, I, se ne andarono.
* * *
Non appena la folla realizzò che a sfondare il cranio a Xavier non era stato altro che un volgarissimo secchio, venne additata la figura informe che si stagliava in alto, in alto molto più in alto, e forse anche in altro.
Anatra guardò giù. C’erano tanti indici che la puntavano.
Ma lei non poteva saperlo. Non aveva un mirino telescopico, lei. Anatra fraintese. Non capì che quelle braccia tese erano autonome, denunciatorie, additative.
Per lei erano solamente un gigantesco abbraccio collettivo che la stava aspettando, anatra o non anatra. Si lanciò nel vuoto.
E l’anatra diventò farfalla.
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