mercoledì 28 febbraio 2024

Umberto Lenzi: La quinta vittima, 1983


L’occasione per uscire dall’impasse e risolvere i miei guai si presentò un giovedì sera, agli inizi di aprile.
Erano mesi che coltivavo l’idea di sbarazzarmi di mia moglie. Ultimamente
Patrizia si era attaccata a me in modo morboso da quando aveva perso entrambi i genitori in un incidente automobilistico, l’anno prima, vedeva nel nostro matrimonio l’estrema ancora di salvezza, un punto di riferì mento al quale non avrebbe mai rinunciato. Figlia unica, l’intero patrimonio immobiliare del padre, una cospicua fortuna rappresentata da alberghi e residences sulla Costa Smeralda, era passato a lei.
Purtroppo Patrizia non poteva avere figli, ma si era rassegnata, del resto ne era già al corrente prima di sposare il sottoscritto, Carlo Alberto Fanna, ex playboy, ex public relation cinematografico, attualmente editore e direttore di un ambizioso rotocalco mensile per uomini, “Bisex”, che aveva raggiunto il decimo numero con una perdita secca di oltre cento milioni. Somma che era stata puntualmente coperta dall’intervento generoso di mia moglie.
Tra noi due, attualmente, si era stabilito un modus vivendi, una specie di gentleman’s agreement; lei avrebbe continuato a foraggiarmi entro certi limiti, a patto che non mettessi in discussione il nostro matrimonio. Un matrimonio fallito da tempo, eppure Pat (come la chiamavo una volta quando fingevo ancora di amarla) escludeva nel modo più assoluto l’eventualità di un divorzio, soluzione che io stesso in fondo ripudiavo. Preferivo mantenere in vita un rapporto niente più che formale con una quarantenne scialba, più anziana di me di cinque anni, piuttosto che rinunciare a un certo genere di agi e all’allettante prospettiva di diventare, prima o poi, l’unico erede dei parecchi miliardi intestati a suo nome.
Mi ero sempre considerato un ottimista e non disperavo. Forse non avrei dovuto attendere molto, poteva capitare anche a Patrizia un crash come quello che aveva intrappolato i genitori nel rogo di una splendida Jaguar appena uscita dal rodaggio. Inoltre c’era la possibilità di una malattia improvvisa e letale, di un virus sconosciuto e restìo ad ogni farmaco, o di una congestione per un bagno imprudente a Porto Rotondo durante una mareggiata…
Tutte ipotesi auspicabili, ma purtroppo remote.
E io dei soldi di mia moglie ne avevo un maledetto bisogno adesso, non solo perché “Bisex” aumentava in modo allarmante i costi di gestione e di conseguenza il passivo ma soprattutto perché gravavano sulle mie spalle assegni postdatati per sessanta milioni persi al poker. Come se non bastasse, mi ero preso una sbandata per Lilli, una fotomodella milanese di vent’anni, che mi costava, tra annessi e connessi, quasi un milione alla settimana.

Quel giovedì sera, dato che la mia Ferrari si trovava in riparazione dal carrozziere, Patrizia si offrì di passarmi a prendere in ufficio verso le nove. Saremmo andati a cena insieme, anche se l’idea non mi sorrideva, in qualche ristorante à la page di via Veneto.
Era una giornata uggiosa e piuttosto fredda, tipica della situazione meteorologica instabile che caratterizza di solito l’inizio della primavera. Mi ero trattenuto con l’amministratore nella redazione di “Bisex” al primo piano di un edificio sulla via Salaria, appena fuori città, costruito dal padre di mia moglie per ospitare la sede dell’Immobiliare Usberti. Un posto fuori mano che avevo in odio sia per l’eccessiva distanza dal centro, sia per lo squallore tipico di ogni agglomerato urbano situato a cavallo tra campagna e città.

Il Cartier d’oro che portavo al polso, uno degli ultimi regali di Patrizia, segnava le nove e dieci, quando il suono del citofono interruppe la spiacevole discussione con il ragionier Bagella che durava ormai da diverse ore. La voce di Patrizia risuonò spazientita attraverso l’interfono: 
«Sono giù, puoi scendere».
«Scusami cara» risposi con il mio tono di voce consueto, gentile fino alla nausea «ne ho ancora per una decina di minuti. Perché non sali?»
«Preferisco aspettare in macchina. Sbrigati, ti prego…». Riagganciai e mi rivolsi al mio interlocutore. «Insomma, secondo lei siamo con l’acqua alla gola…»
«Purtroppo, dottore. Se non paghiamo la tipografia e non ci assicuriamo nuovi apporti pubblicitari, dubito che il numero undici di “Bisex” possa andare in stampa.»
Sospirai, cercando di concludere. «Senta, la settimana ventura vado a Milano, sono quasi sicuro di firmare un contratto con la Spi per centocinquanta milioni. Ce la facciamo a tirare avanti qualche altro giorno?»
«Penso di sì. Mi lasci controllare l’importo delle scadenze immediate.»
Mentre Bagella scorreva i suoi appunti con la faccia untuosa china sulla scrivania, io pensavo a Lilli: la settimana prossima avevo appuntamento con lei a Milano, quella del contratto pubblicitario era una scusa meschina, o meglio un comodo alibi per giustificare l’ennesima scappatella.
Nel piazzale, battuto da una pioggia insistente, mia moglie attendeva nella sua Golf sport fumando impaziente una sigaretta.
Cinque minuti dopo, avevo già salutato l’amministratore e mi apprestavo ad uscire, il silenzio sottolineato dal lieve tic tac della pioggia che batteva sui vetri fu rotto da un grido agghiacciante. Era Patrizia che urlava terrorizzata.
Mi precipitai in strada seguito da Bagella. La prima cosa che distinsi nella penombra fu Patrizia aggrappata all’auto con gli occhi sbarrati e le spalle squassate da un tremito convulso.
Una berlina scura si allontanava sgommando dal piazzale fino a sparire nel buio della Salaria. Per qualche istante percepii il rombo del motore al massimo dei giri, poi più nulla.
«Cos’è successo, Pat?» chiesi afferrando mia moglie. «Su, calmati!»
Aveva perso la testa, continuava a urlare. M’indicò qualcosa al di là della strada, a una dozzina di metri di distanza. In corrispondenza della fermata dell’autobus, un lampione al neon illuminava la sagoma di una donna riversa sul selciato bagnato; poteva avere trent’anni, forse meno. Mi avvicinai, Bagella era rimasto indietro e sorreggeva Patrizia che adesso si era messa a piangere disperata.
Provai una violenta contrazione allo stomaco. Non era un bello spettacolo a vedersi: la ragazza giaceva immobile come un pupazzo disarticolato, il volto era cereo, dalla gola squarciata sgorgava sangue a fiotti. Per effetto degli spasmi dell’agonia, un rigurgito di bava rossastra le provocò un colpo di tosse che si spense in un gemito impercettibile.
Fu questione di secondi, quando mi chinai su di lei, non c’era più niente da fare. Era morta.

Quello che era avvenuto lo appresi in Questura, più tardi. Il commissario
Randone, dirigente della Squadra Mobile, era un tipo gentile, tra una pausa e l’altra dell’interrogatorio, offrì a Patrizia un doppio whisky e fece di tutto per metterla a suo agio.
«Dunque, signora, ricapitoliamo. Lei era seduta nella Golf e ha notato la vittima in attesa alla fermata dell’autobus. Qualche istante dopo è sopraggiunta quella macchina scura… peccato che le sia sfuggito il numero di targa.»
«Era buio. E poi, come potevo immaginare?» Patrizia si strinse nelle spalle mentre io le accendevo premuroso una Winston.
«Mi sono distratta un momento» proseguì mia moglie aspirando una lunga boccata di fumo «quando ho voltato di nuovo gli occhi ho scorto quel tizio che scendeva e si avvicinava alla ragazza come per domandarle qualcosa.
D’improvviso ha sollevato il braccio e l’ha colpita alla gola. Non ho capito bene cosa avesse in mano…»
«Un rasoio, come questo» disse Randone mostrando una fotografia.
Patrizia assentì e riprese: «La ragazza si è accasciata in ginocchio. Lui l’ha colpita una seconda volta e io mi sono messa a urlare…».
«Non ha temuto che potesse uccidere anche lei?» chiese il commissario mordendosi un labbro.
«È stato più forte di me. Lui si è accorto della mia presenza, si è avvicinato alla Golf… la paura mi paralizzava. Stava per aprire lo sportello, poi ha cambiato idea, è corso verso la macchina e… non so, non ricordo altro.»
«In quel momento sono arrivato io insieme al ragionier Bagella» spiegai a conferma dell’esatto susseguirsi dei tempi.
«Sarebbe in grado di riconoscere l’assassino, se lo incontrasse?» riprese
Randone ignorando il mio intervento. Patrizia annuì convinta. «Non scorderò mai quella faccia, quegli occhi da pazzo. Sono certa di poterlo identificare.» A quel punto Randone si rivolse a me, scuro in volto. «Signor Fanna, aveva mai visto uno scempio simile?»
Scossi la testa.
«Si chiamava Alba Rosati» proseguì «era una brava ragazza, commessa alla
Standa. Il mese prossimo si sarebbe sposata. Questo conferma la mia ipotesi: “il maniaco del rasoio” non uccide solo prostitute, ma donne qualsiasi, purché belle e dai capelli biondi… anche le altre tre vittime avevano le stesse caratteristiche fisiche.»
«Vuol dire che quell’uomo era il pazzo omicida di cui parla tutta Roma?» chiese stravolta Patrizia prevenendo la mia stessa domanda.
«Esatto. E questo è il suo quarto delitto.»
«Ma è terribile» osservai con voce atona. E intanto sbirciavo Patrizia che si passava nervosa una mano sui capelli biondi, freschi di parrucchiere.
«Capisco quello che sta pensando» disse secco Randone porgendomi una sigaretta.
Avrei potuto giurare che il commissario era ben lontano dal capire ciò che realmente pensavo in quel momento, ma ritenni opportuno non contraddirlo.
«Non nego che sua moglie corra qualche rischio, non solo perché è una bella donna ed è bionda, ma anche perché l’assassino avrebbe tutto l’interesse a togliere di mezzo una testimone scomoda. Le consiglio di essere molto prudente, signora» aggiunse Randone rivolto a Patrizia. «Non esca mai di casa, se non accompagnata da suo marito o da qualche amico fidato. Me lo promette?»
Patrizia non disse niente, si limitò ad un cenno di assenso. Era stremata, confusa. Le presi una mano e gliela strinsi con tenerezza. «Non aver paura, cara. Ti proteggerò io.»
Il commissario mi batté una pacca sulla spalla in segno di approvazione.
«Bravo. Tenga gli occhi aperti. E se ce ne fosse bisogno non esiti a rivolgersi a me, d’accordo?»

Nei giorni successivi, che trascorsi quasi per intero a fianco di Patrizia nel nostro prestigioso attico di via Fleming, il progetto cominciò a prendere consistenza nella mia mente. Era stato proprio il commissario Randone a offrirmene lo spunto, accennando esplicitamente al rischio che correva mia moglie. Già, chi poteva escludere che il maniaco del rasoio riuscisse a scoprire l’identità e l’indirizzo della misteriosa testimone bionda?
Più riflettevo, più mi rendevo conto che sarebbe stato sciocco lasciarsi sfuggire un’occasione simile. Decisi di giocare il mio jolly: avrei ucciso Patrizia con la stessa tecnica usata dal maniaco del rasoio per far fuori le sue vittime, in modo che il delitto venisse attribuito a lui.
Quando avrei agito?
Non appena si fosse smorzata l’eco dell’ultimo fatto di sangue, diciamo entro un paio di settimane. Sapevo che Patrizia si sarebbe stancata presto della sua clausura, e ciò avrebbe favorito in modo decisivo il mio piano.
Seguitai come se nulla fosse a starle vicino, mi sforzavo di comportarmi da marito esemplare assecondando i suoi capricci e partecipando a noiose partite di bridge con amici occasionali. Una domenica, invitai a passare la serata da noi Giorgio Arengo, l’anziano avvocato che curava gli interessi della famiglia Usberti.
Durante la cena, feci il possibile per evitare che il discorso cadesse sulla brutta avventura in cui era stata coinvolta Patrizia: mantenni la conversazione su argomenti banali, senza tuttavia trascurare di accennare discretamente al mio improrogabile viaggio a Milano.
«Quando pensi di partire?» chiese lei con una lieve ombra di disappunto.
«Martedì o mercoledì al più tardi» risposi «sai, devo assolutamente firmare quel contratto con la Spi, o rischio di perdere l’affare.»
«Starai via molto?»
«No, cara. Conto di prendere un aereo nel primo pomeriggio e di rientrare a Roma la mattina dopo.»
Com’era prevedibile, l’avvocato Arengo si offrì di fare da chaperon a mia moglie durante la mia assenza.
«Non preoccuparti, Patrizia, ti terrò compagnia io. Sono ancora in grado di fare la corte a una donna bella come te.» Patrizia si aprì in un sorriso sciocco, che fugò sul suo volto tutt’altro che bello ogni residuo d’inquietudine. «Sei un tesoro, Giorgio.»
«Anzi, sai che ti dico?» riprese Arengo infervorito «potremmo approfittare dell’occasione per fare un salto al Circeo e dare un’occhiata alla villa di cui ti ho parlato. Ma certo, la marchesa Fioravanti mi ha telefonato giusto ieri, vorrebbe che restassimo a cena da lei. Tu che ne dici, Carlo Alberto?» Era appunto quella la proposta che aspettavo con ansia malcelata, ma non dovevo darlo a vedere. «Non è una cattiva idea» risposi «sono del parere che un po’ di svago farà bene a Pat.»

Il mercoledì pomeriggio, verso le due, l’avvocato Arengo passò a prenderci con la sua Mercedes. Eravamo d’accordo che insieme a Patrizia mi avrebbe accompagnato all’aeroporto, in tempo per prendere il volo delle quindici diretto a Milano. Lui e mia moglie avrebbero proseguito per il Circeo, si sarebbero trattenuti a cena dalla marchesa Fioravanti, proprietaria della lussuosa villa che Patrizia intendeva acquistare per le nostre vacanze future.
Sapevo fin troppo bene che non ci sarebbero state vacanze future insieme, ma sorrisi ugualmente allorché Patrizia mi sfiorò con un rapido bacio e bisbigliò: «Se faccio questa pazzia è per salvarmi!».
«Salvarti da che?»
«Dalla solitudine. La villa al Circeo è un altro mezzo per tenerti legato a me. Lo sai benissimo.»
Continuavo a sorridere. «Ti telefono questa sera. A che ora sarai di ritorno?»
«Non credo prima delle undici e mezza, vero Giorgio?» L’avvocato annuì. Io feci un gesto di saluto e mi affrettai a entrare nell’aerostazione con in mano la borsa da viaggio firmata Gucci, anche quella un costoso regalo di Patrizia.

A Milano, contrariamente a quanto avevo detto a Patrizia, mi trattenni poco più di tre ore, evitando persino di telefonare a Lilli.
Rientrai a Roma in serata, con il volo in partenza da Linate alle otto.
Alle nove e dieci, salivo su un taxi a Fiumicino e mi facevo condurre al mio ufficio sulla via Salaria.
Data l’ora il palazzetto sede dell’Immobiliare Usberti era deserto, e questo escludeva che qualcuno potesse smontare l’alibi che avrei fornito alla polizia e che si sarebbe basato su tre punti ben precisi.
Primo: avevo anticipato il mio ritorno da Milano, una volta firmato il contratto con la Spi, per essere vicino a mia moglie.
Secondo: dall’aeroporto Leonardo da Vinci mi ero recato direttamente in ufficio, sapendo che Patrizia non sarebbe stata a casa prima delle undici.
Terzo: ero rimasto in ufficio fin verso le undici e mezza, per ultimare certi prospetti di finanziamento che intendevo presentare in banca con la massima urgenza.
Quest’ultimo punto era di fondamentale importanza, più tardi lo avrei suffragato con una prova indiretta.
Fin lì non c’erano stati intoppi: una volta sceso dal taxi, considerai la prima parte del mio piano felicemente conclusa. Adesso dovevo mettere in atto la seconda, quella più difficile. Restai seduto alla scrivania per una buona mezz’ora, sfogliando con attenzione le pagine de “Il Messaggero”.
In cronaca, non erano segnalate novità a proposito del “maniaco del rasoio” e questo facilitava il mio gioco.
Alle dieci e due minuti, scesi nel cortile interno e salii a bordo della mia Ferrari blu notte, posteggiata come di consueto nello spazio riservato ai dirigenti.
Avviai il motore fischiettando. Non c’era traffico sul Raccordo Anulare, impiegai meno del previsto a raggiungere Ponte Flaminio. Per non dare nell’occhio, lasciai la macchina in una stradetta oscura a un centinaio di metri da casa mia. Avrei proseguito a piedi, nessuno doveva vedermi en trare nella palazzina o tutto sarebbe andato in fumo.
Senza fretta, cercai una cabina telefonica stradale: il mio Cartier segnava le dieci e trentacinque. Composi il numero del ragionier Bagella.
«Pronto, sono Fanna. La disturbo?»
All’altro capo del filo risuonò la voce sorpresa dell’amministratore.
«Niente affatto, dottore. Le serve qualcosa?» Naturalmente non ero dottore e non mi serviva niente.
«Volevo darle una buona notizia: ho firmato con la Spi e sono rientrato a
Roma. La sto chiamando dall’ufficio, il contratto è già sul suo tavolo.»
«Meno male. Quei soldi sono come la manna per noi.»
«Bene, io mi trattengo qui in redazione ancora un’oretta. Finisco di approntare quei prospetti per la banca che le avevo promesso. Contento?»
«Mi dispiace, dottore, che faccia così tardi. Sono quasi le undici…»
«Non si preoccupi, Bagella. Buonanotte.»
Buttai giù il ricevitore e sospirai soddisfatto. Tutto filava liscio: quel morto di fame dell’amministratore avrebbe convalidato il punto delicato del mio alibi; quanto al famoso prospetto per la banca, lo avevo preparato da giorni e poco fa mi ero limitato a deporlo tra le pratiche in evidenza.
La fortuna seguitava ad assistermi, fuori della palazzina di via Fleming non c’era anima viva. Lasciai il portone accostato e mi introdussi svelto nell’ascensore. Qualche secondo più tardi, varcavo l’ingresso dell’attico che consideravo un’odiosa anche se dorata prigione.
Lo sarebbe stata per poco, mi venne fatto di pensare. Avevo in mente di stabilirmi a Milano, una volta che fossi entrato in possesso dell’eredità: non ne potevo più di Roma, del ponentino, degli spaghetti alla carbonara, e di tutto il resto. Avrei venduto tutto, conservando la villa al Circeo, quella sì, il mare era sempre stato la mia passione, assieme alle donne e ai cavalli.
Come prevedevo, Patrizia non era ancora rientrata. Mancavano pochi minuti alle undici, dovevo mettere a punto gli ultimi dettagli. Evitai di accendere la luce e dopo essermi spogliato calzai un paio di guanti sottili di camoscio nero. Poi, dalla borsa di Gucci, estrassi il rasoio. La lama era affilatissima lunga poco meno di quindici centimetri; vi passai sopra il pollice lentamente, quasi a sincerarmi dell’efficienza. Non potei trattenere un brivido.
Inaspettatamente squillò il telefono. Nel silenzio, reso greve dall’oscurità, gli squilli mi parvero assordanti, avevo la sensazione che l’intero palazzo ne rintronasse. Dopo il quarto squillo, tornò di colpo il silenzio: sì era inserito automaticamente il dispositivo della segreteria telefonica, che provvedeva a registrare le telefonate in arrivo.
Sorrisi: una prova in più che in quel momento non mi trovavo in casa.
Continuai ad attendere. Mi sentivo di nuovo freddo e determinato, consapevole che ormai non potevo tirarmi indietro. Alle undici e venti, il rumore di un’auto che frenava davanti alla palazzina ruppe la tensione.
Mi accostai alla finestra e sollevai un lembo della tendina: era proprio lei, Patrizia, che scendeva dalla Mercedes dell’avvocato Arengo e si dirigeva a passo svelto verso il portone. Non appena fu sparita all’interno, Arengo risalì in macchina e partì con uno scoppiettio di Diesel.
Il momento cruciale si approssimava. Impugnai il rasoio e in punta di piedi mi spostai nella camera da letto defilandomi dietro la porta.
Trascorse una manciata di secondi, sudavo angoscia. Finalmente Patrizia entrò nell’appartamento e accese la luce del soggiorno. Percepii i suoi passi attutiti dalla moquette, quindi l’eco di un colpo di tosse. Contrassi la mano sul rasoio e immediatamente intuii ciò che doveva provare “il maniaco” ogni qualvolta si apprestava ad ammazzare una donna: un’esaltazione feroce a quella che mi stava invadendo d’improvviso.
Ecco, ci siamo. Patrizia oltrepassava la soglia e si accingeva a premere l’interruttore. L’afferrai di scatto alle spalle, serrandole la bocca con la mano sinistra perché non gridasse. Fu più facile del previsto, oppose scarsa resistenza. Adesso era veramente tutto finito: il suo corpo senza vita giaceva rattrappito per terra, una macchia di sangue si allargava vistosamente sulla moquette color avorio.
«Mi dispiace, cara, ma non c’era altra soluzione» mormorai con gli occhi fissi sulle sue mani avvinghiate al bordo del letto, lo stesso letto dove la notte prima (anche questo faceva parte del mio piano) l’avevo posseduta con inconsueta partecipazione.
Senza ulteriore indugio, passai nell’ingresso e simulai i segni di una colluttazione. Per dare maggiore credibilità alla scena, ebbi cura di strappare un lembo della costosa pelliccia di volpe argentata e di lasciare il rasoio in bella vista sul pavimento. Nel bagno, mi lavai le braccia sporche di sangue: i guanti li feci sparire nel water dopo averli stracciati in minutissimi pezzi. Mentre indossavo di nuovo i miei abiti, ripassai mentalmente l’ultima parte del piano. Avrei lasciato la porta dell’appartamento socchiusa, in modo da far credere che l’assassino, nascosto per la scala di servizio, avesse atteso mia moglie e l’avesse aggredita quando stava entrando in casa. Dopodiché sarei andato a riprendere la macchina, per far ritorno entro un quarto d’ora. Bisognava che il mio arrivo fosse notato, ritenevo sufficiente imballare al massimo dei giri il motore della Ferrari e dare qualche colpetto di clacson. Ero sul punto di uscire, allorché prese a squillare il telefono. Trattenni ancora una volta il respiro, finché dopo il quarto squillo subentrò il silenzio. Chissà perché, mi venne curiosità di sapere chi fosse, a telefonare a quell’ora. Lasciai trascorrere un minuto, poi premetti il pulsante della segreteria telefonica e avviai indietro il nastro.
Percepii un breve ronzio, quindi una voce nota, spazientita, mi agghiacciò il sangue nelle vene.
Era la voce del commissario Randone.
«Sono ore che continuo a telefonarle, signora Usberti. Ho una notizia importante. Oggi, verso le quattro, “il maniaco del rasoio” ci ha provato di nuovo. Ha aggredito una studentessa in un prato della Caffarella. Ma stavolta gli è andata male: lo abbiamo preso. Per fortuna, la ragazza se l’è cavata con qualche ferita leggera. Dopo un lungo interrogatorio, il nostro uomo ha confessato i quattro delitti precedenti. Nella sua auto è stata recuperata la borsetta di una delle vittime. Penso che adesso suo marito possa tirare un bel sospiro di sollievo. Però ho bisogno urgente di lei, per verbalizzare la sua testimonianza. Il giudice la sta aspettando, si tratta di una pura formalità. Per guadagnare tempo, ho appena inviato una macchina a casa sua, che attenderà il suo ritorno per condurla qui. A più tardi…»
Ero pietrificato, incapace della pur minima reazione. Il mondo mi crollava addosso e sprofondavo a velocità vertiginosa dentro un precipizio colmo d’inchiostro nero. Riemersi lentamente da quell’inferno con la coscienza lacerata dal sibilo acuto di una sirena. Era “la volante” del 113, che imboccava a tutto gas via Fleming.


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