mercoledì 14 febbraio 2024

Algernon Blackwood: L’adoratore del mare, 1912


Il mare quella notte cantava; l’alta marea accarezzava il lunghissimo litorale coprendolo di soffice schiuma, e le onde, crestate di bianco, morivano sulla costa modulando una canzone misteriosa. Alta, in un cielo senza nubi, l’antica incantatrice, la Luna piena, ne spiava la danza sulle spiagge lisce, guidandole mentre incedeva lentamente. E sembrava proprio che al chiaro di Luna, di là dallo sciabordìo delle onde, il mare cantasse davvero; s’avvertiva una nota singolarmente armoniosa e densa di significati, come se queste comuni attività della natura fossero pervase del flusso di processi fuori del comune che stessero per attraversare quel confine che le separa  dall’autoconsapevolezza della vita. Sul mare aleggiava un lieve vapore luminoso, in lontananza, un tappeto trasparente attraverso il quale le onde lunghe scivolavano dolcemente verso la spiaggia.
Tre uomini sedevano nel bungalow dal tetto basso fra le dune di sabbia. Riunitisi in occasione della Pasqua, trascorrevano le giornate pescando ed andando in barca a vela, e la sera si raccontavano storie risalenti alla loro giovinezza. Era una fortuna che fossero in tre – quattro, in seguito – perché quando accade un fatto straordinario è bene che questo venga confermato da più testimoni. E sebbene sul rozzo tavolo di assi di legno ci fosse whisky in abbondanza, sarebbe stato infantile pretendere che alcune sorsate invalidassero l’evidenza dei fatti; l’alcol infatti, fino a un certo punto, rende più acute la coscienza e le capacità intellettuali nonché lo spirito di osservazione. E due o tre uomini in piena salute devono aver bevuto davvero a dismisura prima di vedere o non vedere le stesse cose.
Gli altri bungalow erano ancora disabitati. Soltanto le dune disseminate di cespugli guardavano il mare e il vento ne agitava gli irsuti capelli d’erba secca. I tre uomini erano perfettamente a loro agio con il vento, gli spruzzi di schiuma, i mulinelli di sabbia, e la grande Luna piena di Pasqua. C’erano il maggiore Reese dei Fucilieri, il suo fratellastro, dottor Malcom Reese, e il capitano Erricson, loro ospite, tutti uomini che il caleidoscopio della vita aveva coinvolto in molte avventure una decina d’anni prima e quindi disperso ai quattro angoli del globo. Era presente anche l’attendente di Erricson, “Sinbad”, ex marinaio d’alto mare e uomo che aveva condiviso una quantità d’avventure su parecchie navi con il suo padrone dalla folta capigliatura bionda; un domestico ideale e fedele come un cane, intuendo e accontentando ogni più piccolo desiderio di Erricson prima ancora che questi proferisse una sola parola. In quella circostanza, oltre che da ciurma della barca da pesca d’altura, fungeva anche da cuoco, cameriere e segretario; le prime due funzioni espletandole soprattutto nel fumoir del bungalow.
“Big Erricson”, norvegese di origine, studioso per vocazione, vagabondo per istinto, reincarnazione d’un vichingo se mai ve ne fu una, apparteneva a quel tipo d’uomini semplici in cui arde un’innata passione per il mare che rasenta la vera e propria adorazione; una sorta di febbre dell’anima. « Tutti gli amanti degli antichi dèi del mare ce l’hanno », era solito dire per spiegare la sua totale mancanza di ambizioni in terraferma. « E non stiamo mai bene, non siamo mai del tutto a nostro agio lontano dal mare e dall’acqua salata. Preferirei spararmi, piuttosto. Preferisco stare un minuto davanti all’albero di maestra che mille anni in terraferma. Semplicemente non ce la faccio, vedete, proprio non lo sopporto! Sono i nostri antichi dèi che esigono quest’amore ». E, del resto, non aveva mai provato “a farcela”, fatto che spiegava come mai non possedesse proprio nulla al mondo eccezion fatta per il vecchio bungalow semisommerso dalla sabbia delle mobili dune – che assomigliava moltissimo alla cabina d’un comandante e dove invitava a volte i suoi migliori e fedeli amici – e un gran mucchio di libri bizzarri, raccolti nel corso delle sue avventure nei sette mari. Con il cuore e la mente, dunque, comandava il suo strambo cargo. « Mi spiace se voi, poveri diavoli, non ci trovate tante comodità. Comunque, chiedete a Sinbad qualunque cosa vi occorra, e non state troppo a cercare il pelo nell’uovo ». Come se Sinbad avesse potuto provvedere quelle comodità distanti miglia e miglia, o trasformare una specie di relitto galleggiante in un agile e armonioso vascello nuovo di zecca.
D’altra parte i Reese non avevano alcun motivo di lamentarsi, avvezzi com’erano alle aspre gioie della vita all’aria aperta, tra cui la vela, e ai duri sport in cui avevano eccelso quand’erano più giovani. Era un’altra faccenda, invece, che li metteva a disagio in quella particolare serata per non dire che li stava irritando. Erricson era in preda a uno dei suoi strambi “accessi marini” – il dottore aveva coniato l’insolito termine – e come una barca sballottata dalle onde ciarlava e gesticolava senza posa, in modo tale da farli sentire vagamente a disagio e da innervosirli. Nessuno dei due sapeva esattamente perché mai fosse preda di quel crescente malaise, e ognuno era tormentato dal desiderio di parlare con l’altro per cercare conferma alla rispettiva e irragionevole sensazione che stesse per succedere qualcosa di fuori dell’ordinario. Probabilmente la solitudine della distesa sabbiosa e la malinconica canzone del mare proprio davanti alla porta avevano qualcosa a che vedere con quella sensazione inquietante, perché entrambi erano uomini di terraferma; e inoltre l’immaginazione è sempre Signora dei Luoghi Solitari, e gli uomini che hanno vissuto molte avventure nel fondo del loro animo restano bambini. Ma, a prescindere dal modo diverso in cui i due uomini avvertivano quell’atmosfera tesa, Malcolm Reese, il medico, non aveva ritenuto necessario comunicare al fratellastro che Sinbad, entrando, lo avesse tirato leggermente per una manica bisbigliandogli con aria molto seria: — La luna piena, signore, sa com’è, non gli fa troppo bene! E queste alte maree primaverili lo mandano spesso fuori dai gangheri o fuori di testa. Una specie di pazzia marina. — E quindi gli aveva lasciato intravedere una piccola pistola che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni.
Perché Erricson era tornato sul suo argomento prediletto: che gli dèi non erano morti, ma soltanto nascosti, ritirati da questo mondo, e che bastava la semplice presenza d’un vero credente per rimetterli in contatto con la realtà, dentro cioè la sfera dell’umano, portandoli persino a manifestarsi attivamente e visibilmente. Parlava di cose strane che aveva visto in posti ancor più strani. Era serissimo, veemente, appassionato; gli altri due erano rimasti in silenzio ad ascoltarlo, sperando che in tal modo si calmasse da sé, esaurendo l’argomento di conversazione. Succhiavano in silenzio le rispettive pipe, annuendo di quando in quando, stringendosi talora nelle spalle, il vecchio soldato confuso e sbalordito, il medico all’erta ed estremamente attento ai discorsi di Erricson.
— E adoro la vecchia idea — stava dicendo, parlando delle antiche divinità pagane — che i sacrifici ed i rituali nutrano le loro grandi nature, e che la morte sia soltanto il sacrificio finale per mezzo del quale il vero credente si confonde con esse. Il vero credente — e pronunciò queste parole con particolare enfasi — dovrebbe morire cantando, come se andasse alle proprie nozze..., le nozze della sua anima con la particolare divinità che egli ha amato ed adorato nel corso di tutta la vita. — Si accarezzò la barba stopposa con una mano, volgendo la testa irsuta in direzione della finestra, dove il chiaro di luna illuminava l’interminabile processione delle onde sulla spiaggia.
— Sta giocando lo stesso gioco, credo, alla maniera degli uomini... Ricordo una volta, qualche anno fa, laggiù al largo della costa dello Yucatan...
E allora, prima ch’essi potessero interromperlo, raccontò una storia straordinaria circa qualcosa che aveva visto anni prima, ma la raccontò con tanta terribile convinzione che i suoi ascoltatori si mossero a disagio sulle seggiole sgangherate, accesero fiammiferi che proprio non servivano, riempirono più volte i bicchieri, e si scambiarono occhiate che non riuscivano ad apparire scherzose. Perché la storia di Erricson aveva a che fare con il sacrificio d’una vita umana ed un orribile rituale marino dei pagani, e l’atmosfera della stanza era cambiata in modo impercettibile – non era esattamente la stessa di poco prima – come se la selvaggia crudezza del suo modo di parlare vi avesse introdotto qualche nuovo elemento che la rendeva meno simpatica, meno accogliente. Una segreta perversità nel cuore del vecchio capitano, figlio del mare, e la sua smodata ammirazione per gli dèi pagani avevano acceso una luce alquanto sgradevole nei suoi occhi.
— Erano grandi Potenze, a ogni modo, quelle antiche divinità — continuò Erricson riempiendo nuovamente l’enorme fornello della sua pipa — troppo grandi per scomparire d’un tratto e tutte assieme, sebbene al giorno d’oggi essi calchino ugualmente la terra anche se in modo diverso da allora. Giurerei che la calcano anche adesso... specialmente... — esitò per qualche istante — gli antichi Signori delle Acque... gli Dèi del Mare. Dei veri tipacci, non se ne salva uno, da questo punto di vista!
— Comandano ancora ai venti ed alle maree, eh? — lo interruppe il dottore.
Erricson, dopo qualche istante di silenzio, riprese il discorso con sussiego ed espressione serissima. Con grande dignità. — E devo dire che mi piace anche il modo in cui li chiamano — continuò con entusiasmo blasfemo che non sfuggì all’acuto spirito di osservazione del dottore, mentre con ogni evidenza confondeva i soldato. — C’è il vecchio Hu, il dio druidico della giustizia, ancora vivo nell’espressione “caccia spietata” [Hue and Cry nel testo, N.d.T.]; e Tifone che ci ostacola con il suo martello d’acqua e di venti durante i tifoni; ed il possente Hurakar, dio serpente dei venti, sapete, che ci attacca durante gli uragani o ouragan; e c’è anche...
— Venere che sa darci le grane più grosse — lo interruppe scherzosamente il maggiore senza peraltro divertire il fratellastro troppo impressionato dal tono serio e appassionato del loro interlocutore.
Nessuno dei due ascoltatori capì come egli riuscisse a dare tanta solennità a simili discorsi, anzi, tanta convinzione, e quando in seguito discussero della faccenda furono incapaci di individuare un particolare ben definito che potesse fornir loro una spiegazione. Eppure era proprio lì, davanti a loro, invasato e inquietante. Per tutto il giorno era stato schivo e silenzioso, ma dal tramonto in poi, con il salire della marea, aveva cominciato a proferire simili frasi bizzarre, a volte sul mistico, altre inintellegibili, e ora sembrava incapace di contenersi. I suoi ascoltatori erano piuttosto nervosi, sempre più nervosi come se stesse per succedere qualcosa di straordinario. E alla fine il maggiore Reese commettendo una gaffe grossolana, anche se con le migliori intenzioni, aveva cercato di portare l’argomento di conversazione dalla faccenda del sacrificio umano a soggetti più rilassati e leggeri, nel tentativo di scaricare la tensione che andava accumulandosi nella stanza simile alla cabina di una nave. Il “vichingo” aveva appena parlato della possibilità dei vecchi dèi di manifestarsi visibilmente, fisicamente, tangibilmente, e così il maggiore colse la palla al balzo e accennò allo spiritismo e alle cosiddette “materializzazioni teleplastiche” o apporti fisici prodotti dal corpo del medium e degli altri partecipanti alla seduta spiritica. Questo rozzo aspetto del sovrannaturale costituiva la sola possibile analogia che la semplice mente del maggiore potesse collegare ai discorsi di Erricson. Colse l’occhiata di rimprovero del fratello troppo tardi, perché questa volta Malcolm Reese si rese conto che stava accadendo qualcosa di sgradevole, e non era necessario riandare all’avvertimento di Sinbad per stare sul chi vive. Non era la prima volta in cui vedeva Erricson in preda ad un “accesso marino”; ma in precedenza non lo aveva mai sentito così incattivito, né aveva notato quell’alternarsi di pallori e di rossori sul suo volto, né lo strano scintillio dei suoi occhi. Cosicché la battuta in buona fede del maggiore sortì lo stesso effetto di soffiare sul fuoco.
L’uomo che apparteneva al mare, ed alla stirpe dei Vichinghi, esplose in una risata sfrenata udendo quel comico suggerimento, poi ridusse il tono della voce a un sinistro e roco bisbiglio. I due uomini che lo ascoltavano sobbalzarono di fronte a quel brusco cambiamento, a quell’atteggiamento di chi parli di questioni di vita o di morte.
— Sciocchezze! — gridò poi. — Dannatissime sciocchezze! Vi è una sola materializzazione reale e possibile per queste entità extraumane e si verifica quando — e a questo punto il suo discorso divenne follemente incoerente, cercando penosamente di esprimersi — le grandi emozioni incarnate, che sono la loro sfera d’azione, emozioni derivate, sapete, dai loro devoti credenti sparsi in tutto il mondo – che in effetti formano i loro corpi – si materializzano e si condensano, si cristallizzano in una forma, per reclamare quell’estremo sacrificio di cui ho appena parlato, e al quale ogni uomo dovrebbe sentirsi orgoglioso e onorato di essere chiamato... No! Morire in un letto o per l’età avanzata non è degno di un uomo, ma tuffarsi coperto di sangue e vivo nel grande corpo del dio che s’è degnato di materializzarsi per venire a prenderti...
E i suoi discorsi si fecero ancora più folli ed incoerenti, come una torrenziale
colata di lava. Il dottor Reese avvertì il fratellastro con un colpetto sotto il tavolo appena in tempo. Il vecchio soldato appariva confuso e sbalordito, e non si rendeva assolutamente conto di come avesse provocato una simile tempesta. Ne era anzi impaurito.
— Lo so perché l’ho visto — continuò il lupo di mare, che sembrava aver ripreso il controllo della propria mente e delle proprie parole — ho assistito a riti durante i quali queste enormi e antiche divinità della natura assumono una forma... le ho viste inglobare un vero credente, e ho visto lui affrontare cantando la sua morte, il proprio sacrificio finale; felice, orgoglioso e onorato d’essere stato prescelto.
— Davvero, per Giove! — esclamò il maggiore. — Ci stai raccontando una cosa ben strana, Erricson. — E a quel punto, per la quinta volta, Sinbad socchiuse cautamente la porta, spiò fuori, e la richiuse dando poi un’occhiata alla stanza.
La notte era serena e senza vento e soltanto lo sciacquìo della marea traeva strani echi dalle dune sabbiose.
— Riti e cerimonie — continuò Erricson ignorando l’interruzione e con voce rombante permeata di singolare entusiasmo — servono soltanto a far sì che uno si perda nell’estasi e nel dio da cui è stato scelto, quello cioè che ha adorato per tutta la vita, per essere assorbito, almeno in parte, entro il suo essere. E il sacrificio completa il processo...
— Fino alla morte, vuoi dire? — chiese Malcolm Reese, osservandolo attentamente.
— O sacrificio volontario — fu la pronta risposta. — Il credente diviene sposo della sua divinità, viene da essa inglobato, per mezzo del fuoco, dell’acqua o dell’aria, come una goccia si perde nel mare, a seconda della particolare natura del dio!
Il suo spirito era completamente infiammato, parlava a ritmo spaventosamente frenetico, gli occhi gli scintillavano, la voce divenne simile a una nenia cantilenante, singolarmente cantilenante in accordo con il suono della risacca, e di quando in quando si volgeva a guardare il mare dalla finestra e le distese sabbiose inondate dal chiaro di luna. E poi sul suo volto si dipinse un’espressione di trionfo mentre succhiava ritmicamente l’enorme pipa, come un gigante felice. Sinbad guardò fuori dalla porta per la sesta volta, senza un’apparente ragione, poi si diede da fare con tazze e bicchieri senza esserne richiesto, evidente espediente per rimanere ancora nella stanza. Non staccava gli occhi dal suo padrone. Infine si decise a sistemare una sedia e un mucchio di reti fra sé e la finestra. Nessuno, salvo il dottor Reese, badò alla manovra. E afferrò al volo il suggerimento.
— Gli oblò non chiudono bene, Erricson — disse sorridendo ma con autorità. — C’è una brezza da cinque nodi che spiffera attraverso le fenditure. Peggio che in un relitto! — E si alzò sistemando meglio il mucchio di reti per sbarrare la finestra del bungalow.
— La stanza è maledettamente fredda — se ne uscì il maggiore Reese. — Lo è soprattutto da una mezz’ora. — Il soldato non riusciva a nascondere il proprio aspetto stanco, angosciato e infreddolito.
— Non che ci soffi dentro davvero il vento, però — soggiunse.
Il capitano Erricson osservò alternativamente i due uomini, volgendo la grande testa irsuta in direzione ora dell’uno ora dell’altro, prima di rispondere; nei suoi occhi azzurri balenò l’ombra di un sospetto. — Quel pezzente ha riaperto la porta. Se per caso aspetta qualcuna, com’è già successo un’altra volta, giuro che lo annegherò per la sua impudenza... O forse sta aspettando... — Lasciò la frase in sospeso e suonò il campanello, ridendo rumorosamente ma anche forzatamente, o almeno così parve al medico. — Sinbad, come mai fa tanto freddo qui dentro? Hai lasciato aperta la porta sul retro? Non aspetterai mica qualche gonnella, no?
— È tutto chiuso ermeticamente, capitano. Soffia qualche nodo di brezza da Est. E la marea sale, rinforzando il vento....
— Questo lo sappiamo tutti. Ma stai aspettando qualcuno? t’ho chiesto — ripeté il suo padrone sospettosamente ma continuando a sghignazzare. Si sarebbe potuto credere che davvero Sinbad avesse qualche “gonnella” in vista. I due si guardarono diritto negli occhi per qualche istante. Era lo sguardo di due uomini che sanno di trovarsi sullo stesso piano e che si capiscono al volo.
— Qualcuno... forse... è per strada, per così dire, capitano. Ma non ne sono del tutto sicuro.
La voce era incrinata dall’emozione, si sarebbe detto dalla paura. Gettò un’occhiata significativa al dottore.
— Ma questo freddo, questa dannata umidità qui dentro? Sei sicuro che non stai aspettando qualcuno dalla porta sul retro? — insistette Erricson. E quindi bisbigliò: — Dalle dune, per esempio? — Il tono della sua voce esprimeva timore e gioia a un tempo.
— È già tutt’intorno la casa, capitano — rispose Sinbad e così dicendo gettò qualche altro pezzo di legna nel fuoco. Allora anche il maggiore si accorse che le frasi che si scambiavano alludevano a qualcos’altro. Per allentare la tensione ed il disagio che sentiva crescere dentro di sé, si aggrappò alla parola “casa” scherzandoci sopra.
— Come se si trattasse di un palazzo — osservò con un sorriso forzato — e non di una specie di conchiglia! — Poi, guardandosi intorno, aggiunse: — Comunque sia, c’è qualcosa che assomiglia alla nebbia che sta riempiendo la stanza... Ehm, suppongo provenga dal mare; si alza con la marea o qualcosa di simile, eh? — Di certo l’aria negli ultimi venti minuti si era fatta più densa, più spessa; non era colpa soltanto del fumo delle loro pipe, e l’umidità era tale che cominciava a depositarsi sugli oggetti in minute goccioline. Anche il freddo si era fatto più intenso.
— Darò un’occhiata intorno — disse Sinbad con fare misterioso, dopo di che uscì dalla stanza. Soltanto il medico si accorse che l’uomo tremava leggermente ed era pallido come un lenzuolo. Non disse nulla ma avvicinò la seggiola alla finestra ed al suo ospite. Era davvero al di là di ogni comprensione il fatto che i discorsi del vecchio lupo di mare in preda a uno dei suoi “accessi” avessero alterato la stessa aria della stanza oltre che l’umore dei suoi occupanti, perché una straordinaria atmosfera di entusiasmo che rasentava lo splendore irradiava da lui pulsando tutt’intorno, eppure rasentando disgustosamente qualcosa che suggeriva il terrore! Attraverso la corazza di buon senso che normalmente animava gli altri due uomini si era insinuato un misterioso stato d’animo e il pensiero e la meraviglia che a volte, in seguito a stupefacenti circostanze, l’incredibile diventa realtà. Vale a dire che nel loro intimo ne erano già convinti o almeno tale era il loro stato d’animo più profondo. Stava per aver luogo un cambiamento. E una volta che si venga colpiti da simili disturbi fisici è difficile tenerli sotto controllo. Ma più che di disturbi si tratta di un acuirsi della propria percettività, di un dilatarsi dell’area sensoriale; nel caso specifico tutto ciò era già accaduto prima che la mentalità militare e medica dei due uomini ne avesse preso atto. Stava per succedere qualcosa.
Stava per venire qualcosa... dalle dune sabbiose o dal mare. Ed era stato chiamato da Erricson e se non chiamato quanto meno gli avrebbe dato il benvenuto. Il suo grande, vulcanico entusiasmo e la sua fede avevano provveduto una via, un canale. In minor grado neanche i due fratellastri potevano restare indifferenti e fino a un certo punto ne erano coinvolti. Era qualcosa di terrificante e irresistibile.
E fu proprio a questo punto – come risultò dal successivo confronto di appunti – che arrivò padre Norden; nipote del lupo di mare, era giunto in bicicletta da qualche posto appena oltre Corfe Castle, pedalando al chiaro di luna lungo le distese sabbiose di Studland e sudando fino all’imbarco del ferry con cui aveva attraversato lo stretto canale di Poole Harbour. Sinbad lo introdusse con grande semplicità, senza tante cerimonie. Norden spiegò che non aveva saputo resistere alla splendida e invitante notte primaverile. Ed era certo che lo zio gli avrebbe “provveduto un’amaca”, come ebbe a dire. Ma non aggiunse che Sinbad gli aveva telegrafato poco prima del tramonto dalla baracca della guardia costiera. Il dottor Reese lo conosceva già, non così il maggiore cui venne presentato. Norden faceva parte della Compagnia di Gesù, era uno spirito ardente, se non diligente, e altruista.
Erricson lo accolse con sentimenti ovviamente contrastanti e con una battuta pazzesca: — In realtà non ha alcuna importanza — esclamò dopo alcuni luoghi comuni — perché tutte le religioni si assomigliano, gratta gratta. Tutte insegnano il sacrificio e, senza eccezioni, predicano l’unione finale del credente con il suo dio in cui viene assorbito. — Poi soggiunse in un bisbiglio, volgendosi per l’ennesima volta a guardare dalla finestra, alcune parole semiborbottate che soltanto il dottor Reese udì: — L’esercito, la Chiesa, la medicina, il mondo del lavoro, ah se potessero seguirmi tutti! Che splendido risultato, che grande offerta! Da solo... mi sento così indegno... insignificante...
Però nel frattempo il giovane Norden aveva cominciato a parlare prima che qualcuno potesse fermarlo, sebbene il maggiore avesse fatto due goffi tentativi. Per una volta la tattica del gesuita era completamente sbagliata e non sortì alcun effetto. Evidentemente sperava di cambiare l’atmosfera della stanza e lo stato d’animo dei suoi occupanti con la forza della sua personalità. Ma non fu all’altezza della situazione, non era uomo psicologicamente tanto forte.
Fu un errore di valutazione da parte sua. Perché le correnti e le forze già presenti in loco erano troppo potenti per poter venire alterate, avendo già acquisito l’impetuosa forza necessaria. D’altra parte, egli fece del suo meglio. Cominciò con l’assecondare lo zio – non era il primo “attacco”, o accesso come lo aveva chiamato il dottore, di quella straordinaria personalità che si trovava a dover fronteggiare – poi si accorse, troppo tardi, che, come gli altri presenti, anch’egli era stato trascinato dall’impetuosa energia di Erricson.
— Strano, davvero strano, ma in un primo tempo non riuscivo a trovare il vecchio bungalow — disse sorridendo senza convinzione. — È seminascosto dalla nebbia che sale dal mare, e che in parte lo nasconde. Avevo pensato che forse il mio pagano zio...
Il dottore lo interruppe in fretta ed energicamente. — Come ben sa, la nebbia aleggia su queste dune, specialmente negli incavi fra duna e duna, come il vapore in una coppa. — Ma l’altro, troppo preso dal suo discorso, non raccolse il suggerimento.
— Avevo pensato che fosse fumo dapprima, e che foste intenti a qualche cerimonia pagana — sorrise all’indirizzo di Erricson — facendo sacrifici alla luna piena o al mare, o agli spiriti che infestano i luoghi solitari come queste dune sabbiose. No?
Per qualche istante nessuno disse nulla, ma il volto di Erricson era raggiante.
— Come sapete, mio zio è un pagano calzato e rifinito — continuò il prete — tanto che mentre pedalavo da Studland alla volta di queste dune deserte mi aspettavo quasi di udire il vecchio Tritone soffiare nel suo corno attorto... o di vedere la leggiadra Teti calcare la sabbia coi suoi piedi gentili...
Erricson, udendo quelle parole, si eccitò ancor di più: cercava di controllare il proprio violento gesticolare, il volto felice come quello d’un ragazzino, si pettinava la grande barba giallastra con entrambe le mani, mentre gli altri due uomini avevano cominciato a parlare contemporaneamente, cercando di fermare il giovanotto e le sue poco sagge allusioni. Norden, inghiottita una sorsata di acqua di soda fresca, posò il bicchiere, e a momenti ne sputava il contenuto quando fu udito per la prima volta il rumore della finestra. In quel preciso istante Sinbad irruppe nella stanza gridando qualcosa del genere: — Sta venendo, Dio ci salvi, sta entrando...! — Tuttavia il maggiore giura che fu pronunciato un nome: “Glauco”, “Proteo”, “Ponto”, o qualcosa del genere che poi ha dimenticato. Ma il rumore lo udirono tutti distintamente: una sorta di imperioso bussare ai vetri della finestra come di una moltitudine di oggetti. Avrebbe potuto essere sabbia soffiata dal vento o spruzzi d’acqua, di una grande onda o, come suggerì Norden in seguito, una sorta di tentacolo vegetale di qualche gigantesca alga. Tutti sobbalzarono, ma fu Erricson il primo ad alzarsi e a spalancare la finestra in un battibaleno. La sua voce rombò come un tuono sulle dune inondate dal chiaro di luna e sulla battigia a qualche decina di metri.
— Lungo le coste dell’Egeo — ruggì, nella voce una nota di trionfo che fece tremare il cuore agli altri — un tempo risonò l’antico grido. Ma era una bugia, un’enorme e sfacciata bugia. Ed Egli non è il solo. Un altro vive ancora... e, per Poseidone, Egli viene! Egli conosce il vero credente e il vero credente Lo conosce... e il vero credente Lo incontrerà!
Quel riferimento al grido “Egeo!” era stupefacente. Tutti, naturalmente, a eccezione del militare, afferrarono l’allusione. Era un modo comprensibile ma sottile di suggerire l’idea. [Probabile riferimento ad Evoé, grido di giubilo delle Baccanti in onore di Dioniso, N.d.T.] Intanto tutti parlavano o, meglio, gridavano contemporaneamente, perché l’invasione era in qualche modo mostruosa.
— Dannazione, adesso si esagera! Qualcosa mi ha preso per la gola! — Il maggiore, come un uomo che stesse annegando, lottava disperatamente con un mobile. Combattere era il suo istinto, naturalmente, ma quando si accorse con che cosa stava lottando arrossì violentemente, vergognandosi di essersi fatto tradire dai propri nervi. Però Malcolm Reese stava lottando davvero cercando di infilarsi fra Erricson e la finestra aperta, dicendo con voce tesa: — Non lasciatelo uscire! Non lasciatelo uscire! — Alla confusione generale si aggiunsero le grida di avvertimento di Sinbad provenienti dal minuscolo ufficio sul retro. Soltanto padre Norden se ne stava tranquillo, osservando quasi con ammirata meraviglia l’espressione di magnifico trionfo che fiammeggiava sul volto di Erricson.
— Ascoltate, banda di idioti! Ascoltate! — tuonò la figura vichinga eretta in tutta la sua splendida possanza.
E dalla finestra aperta entrava un suono non assimilabile al comune sciacquio della risacca, un suono che sembrava provenire da tutta la linea della costa compresa fra Canford Cliffs e gli scogli calcarei di Studland Bay. Era articolato – un messaggio dal mare – un annuncio, un tonante avvertimento che qualcosa si avvicinava. Il vento che soffiava sulla sabbia e sulla battigia non avrebbe mai potuto produrre quella voce ruggente una e molteplice, lontana dalla marea che saliva eppure vicinissima al bagnasciuga, che scuoteva tutto l’oceano, dalle profondità alla superficie con le sue possenti vibrazioni. Nella stanza del bungalow entrava... il MARE!
Dalla notte illuminata dal chiaro di Luna e dagli enormi spazi che lo contenevano dentro quella piccola stanza a forma di cabina, piena di umanità e di fumo di tabacco, entrava invisibile il Potere, lo Spirito del Mare. Invisibile, sì, ma possente, attratto dalla smisurata forza della Luna, coperto di un velo d’umidità e di nebbia... il grande Mare. E con esso, anche nella mente degli altri tre uomini, innegabilmente, scivolarono all’istante smisurate suggestioni del potere delle acque, il flusso di migliaia di correnti, l’irresistibile respiro delle maree, l’attrazione di gorghi colossali... di più, lo stesso impeto titanico dei grandi oceani. L’aria sapeva di salso e di mare e un velo d’alghe parve depositarsi sulla loro pelle.
— Glauco! Vengo a te, grande dio degli abissi... padre e maestro! — urlava Erricson con voce ruggente che esprimeva suprema gioia e meraviglia.
Il piccolo bungalow tremava come se fosse stato colpito nelle fondamenta e nello stesso istante il grosso norvegese aveva scavalcato la finestra e correva verso la spumeggiante schiuma delle onde.
— Buon Dio! Avete visto? — gridò il maggiore Reese, perché il modo in cui il gran corpo di Erricson era scivolato attraverso la minuscola finestra aveva dell’incredibile. E allora, barcollando per improvvisa debolezza e quindi riacquistando il proprio autocontrollo, si precipitò fuori della porta seguito dal fratello. Padre Norden, più magro degli altri – ed anche più padrone di sé – era uscito dalla finestrella prima che gli altri potessero raggiungere il bagnasciuga. Unirono le proprie forze a metà strada dalla battigia. La figura di Erricson, torreggiante nel chiaro di Luna, correva davanti a loro, costeggiando rapidamente la linea dove le onde morivano sulla spiaggia.
Nessuno profferì parola; correvano fianco a fianco, Norden con un lieve vantaggio sugli altri. Ma Erricson, davanti a loro, sembrava volare, la grande testa irsuta volta verso il mare, e cantava mentre correva, impossibile da raggiungere.
Poi assistettero tutti e tre, per concorde testimonianza, allo stesso fatto, la cui grandezza fantastica nel chiaro di Luna fu troppo meravigliosa per consentire le meschine emozioni della paura per se stessi. Comunque, in seguito si appurò che le divergenze d’opinione erano minime e insignificanti. Perché, d’un tratto, quel suono ruggente si fece molto più vicino, proprio come se si fosse spostato verso la riva improvvisamente, seguito simultaneamente, o, meglio, accompagnato da un altro movimento visibile, una sorta di linea nera che non corrispondeva all’accavallarsi delle onde né si confondeva con esse: enorme, si avvicinò alla battigia oscurando un tratto di cielo e di mare. Il chiaro di Luna lo spiò per un secondo mentre passava, traendone un luccichio d’argento.
Ed Erricson rallentò la sua corsa, chinò la gran testa e le spalle, allargò le braccia e...
Cosa accadde? Perché nessuno degli stupefatti testimoni potrebbe giurare su quello che accadde esattamente. Furono tutt’e tre concordi nell’ammettere l’impossibilità di raccontarlo a parole. Soltanto le cieche dune di sabbia, soltanto la bianca e silenziosa Luna, soltanto quella spiaggia curva e deserta ne conservano il ricordo, che forse verrà rivelato un giorno quando il progredire della scienza avrà insegnato a sviluppare le fotografie che la natura prende incessantemente con le sue lastre segrete. Perché fu come se il rozzo abito di tweed di Erricson esplodesse e i brandelli si sparpagliassero tutt’intorno e la sua figura venisse avvolta da lingue d’alga; qualcosa lo coprì e lo sopraffece, seminascondendolo alla vista. Per un istante la sua figura torreggiante resistette immobile, la testa irsuta spiccava nitida al chiaro di Luna, le braccia aperte; poi si chinò, si volse, si raddrizzò ancora una volta, si piegò curiosamente su un fianco e sull’altro, cantando allo stesso ritmo delle acque. L’istante successivo, chinandosi come un’onda che ricade, fu trascinato verso la riva sabbiosa luccicante sotto la Luna... ed era scomparso. In forma liquida, fluida come un’onda, il suo essere era scivolato nell’immenso Essere del Mare. La superficie dell’acqua fu sconvolta da un tumulto simile a un gorgo che quasi subito dileguò in lontananza, a grande profondità. Alla sua singolare morte, come alle nozze, Erricson era andato incontro, cantando e felice in cuor suo.
— Iddio onnipotente che tieni nel cavo della Tua mano il mare e tutte le sue forze, accoglili entrambi in Te! — Norden, in ginocchio, stava pregando febbrilmente.
Il corpo di Erricson non fu mai rinvenuto... e il fatto più bizzarro fu che l’interno della stanza simile ad una cabina – dove ritrovarono Sinbad tremante di terrore alloro ritorno – era spruzzato, bagnato, quasi inzuppato di acqua salata.
Inoltre, molto al di fuori della normale portata della marea, fin sulle dune più alte dietro il bungalow, correva una scia od un largo solco come di una grande onda che fosse arrivata fin là inzuppando la sabbia asciutta. E un centinaio di cespugli di erbacce erano stati strappati.
Quella notte l’alta marea, favorita dalla Luna piena di Pasqua, fu eccezionale, e nella zona fu risaputo da tutti, perché allagò Poole Harbour, sommergendo anche tutti i porticcioli e le baie fino alla foce del Frome. E la gente del posto, in una zona che include Arne Bay e Wych, dichiarò unanimemente che il rumore del mare fu udito a grande distanza nell’entroterra fino alle nove alture di Purbeck Hills, simile ad un canto trionfante.
 

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