lunedì 31 marzo 2025

Jan Carol Sabin: Il cacciatore di teste


Lei bisbigliò e lui l’ascoltò. La barbona li osservò con la coda dell’occhio: non la stavano assolutamente guardando. Solo una volta la ragazza le lanciò uno sguardo penetrante, ma poi ritornò a conversare con il suo compagno.
Un uomo elegante entrò nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria, guardò le tre persone e si mise a sedere. Il piccolo locale era pieno di correnti d’aria e il vento della notte ululava tra le fessure. L’uomo si strinse nel cappotto. La coppia non lo degnò nemmeno di uno sguardo, invece la vecchia si sistemò i guanti strappati e lo scrutò. Lui sperò che non venisse a mendicare e distese il giornale che aveva sotto il braccio. «Mi tufferò nella lettura» pensò «così mi lasciano in pace».
Lesse la prima pagina ed aprì il giornale, completamente assorto nella lettura dell’articolo sotto il titolo di testa. Sentendo il rumore del giornale, la giovane donna lanciò un’occhiata e rimase catturata dal titolo. La vecchia barbona seguì il suo sguardo e lesse: TROVATO TERZO CADAVERE DECAPITATO.
L’uomo dietro il giornale era allibito: l’articolo parlava di un maniaco che nel giro di due mesi aveva fatto fuori tre persone e poi le aveva decapitate. Le vittime erano un uomo e due donne e le loro teste non erano mai state trovate. I loro corpi erano stati rinvenuti in diversi punti della linea ferroviaria di Long Island. L’uomo notò che ognuna delle vittime era uscita di casa per recarsi a New York in treno ed era ripartita a tarda notte da piccole stazioni di Long Island. Come... quella.
Terminò l’articolo, chiuse il giornale e lo appoggiò sulla panchina, accanto a sé. Poi guardò il volto cinereo della ragazza e notò che il suo sguardo era fisso sul giornale. Il giovanotto accanto a lei, invece, stava fissando proprio lui.
Fu a quel punto che si accorse della grossa borsa termica, per terra vicino alla coppia. La cosa lo incuriosì, perché non aveva mai visto nessuno portarsi in giro una borsa termica in un periodo dell’anno così gelido.
— Andate ad una festa? — domandò guardando la borsa e poi il giovane, che però continuava a fissarlo con aria impassibile. — Birra gelata in marzo? — aggiunse sorridendo e rabbrividendo al pensiero.
Il giovane non disse niente e non mostrò nemmeno di averlo sentito. La ragazza abbozzò un sorriso e si chinò verso di lui.
— Magari! — rispose. — Purtroppo è piena di roba da mangiare che mi ha dato mia madre. Ha sempre paura che muoia di fame in città, a fare la modella. Ogni settimana viene a casa mia e mi porta le cose che cucina lei.
L’uomo sorrise e si accorse solo in quel momento dei bei lineamenti e degli occhi profondi della ragazza. Era bellissima. Forse il giovanotto era il suo convivente. Si chiese se avrebbe mai accettato di uscire con un uomo più vecchio di lei, un agente di cambio. Come lui.
La barbona si tirò vicino le sue cose e si mise a frugare in una borsa strapiena di vestiti. L’uomo guardò la borsa: si vedeva della plastica che usciva e sembrava foderata con uno di quei sacchetti che si usano per la spazzatura. Sorrise, pensando alla pubblicità che ne aveva garantito la robustezza e immaginando la bella risata sdentata che si era fatta la vecchia stracciona. Non certo da paragonare al dolce sorriso dell’avvenente modella di fronte a lui...
— Posso dare un’occhiata al suo giornale? — chiese la ragazza. — Strano che con questo titolo la mamma non mi abbia messo mio padre alle calcagna — commentò tamburellando nervosamente sul suo viso con le lunghe dita affusolate.
L’uomo sorrise. Pensò di risponderle che forse sua madre sapeva che girava con una scorta, ma forse i suoi non erano al corrente del fatto che il giovane era con lei... Mentre si allungava per darle il giornale, ne approfittò per guardare l’uomo

domenica 30 marzo 2025

Progressive Spin, puntata 2



The Adekaem - Pictures from Sierra Morena
The LAB Experience - Astral Zenith
Mogwai - Pale Vegan Hip Pain
Eye 2 Eye - Meadows of Silence
Krokofant - Harry Davidson
Naxatras - Celestial Gaze




Vincenzo Corsa: L'istinto e la ragione

 


Che legame può esserci tra un cavaliere e un pellegrino che si incontrano su un sentiero solitario nella regione nord-occidentale dell’Italia del XVII secolo?

Questo è l’interrogativo a cui risponde questo romanzo che non si perita il diritto di definirsi storico, ma si serve di essa per introdurre due personaggi in un contesto che ne giustifichi le azioni e il comportamento.

Forse l’argomento non è nuovo, ma è trattato in maniera diversa dal solito. I due protagonisti sono così diversi e opposti tra loro che, metaforicamente, si toccano.

Il capitolo finale scioglierà tutti i dubbi e le curiosità che il lettore ha accumulato durante la lettura. Non manca la sorpresa finale che, sicuramente, allieterà i più attenti e sensibili. 

Fernanda Bianchi - Una donna strana







 

sabato 29 marzo 2025

Dr. Jekyll & Mr. Hyde



Il capolavoro di Stevenson, sceneggiato da Jerry Kramsky, è disegnato mirabilmente da Lorenzo Mattotti. Il rispettabile dottor Henry Jekyll è convinto che l'uomo “non è veramente uno, ma veramente due” e mette a punto un siero capace di dividere l'anima in due personalità opposte. Poi lo sperimenta su se stesso, dando vita, tra atroci sofferenze, all'abominevole Mr Edward Hyde.

 

venerdì 28 marzo 2025

Kate Wilhelm: L'uomo senza un pianeta


Era inevitabile che un giorno si incontrassero. Dalla fattoria nello Iowa all'università, al lavoro pratico in Arabia, Canada e Tibet, e adesso al nuovo lavoro su Marte, ogni passo conduceva inflessibilmente a quell'istante. Rod lo accettò con fatalismo, come se per anni si fosse preparato solo a quel momento; quando varcò il portello ovale, fece scorrere lo sguardo su tutto il resto e lo fermò sull'uomo seduto al posto numero tredici. Gli occhi che gli restituirono lo sguardo erano color ardesia, vuoti, disperati; non chiedevano appello, non chiedevano scusa, non chiedevano niente: erano soltanto occhi che vedevano o non vedevano... ma che non si abbassavano. Rod distolse lo sguardo e mormorò qualcosa di incomprensibile all'uomo che lo aveva urtato leggermente alle sue spalle.
Durante il giorno i sedili furono smagnetizzati, spostati, fissati nuovamente in altre posizioni, come atomi che circondano un nucleo: prima intorno a un tavolino da gioco, poi intorno al tavolo da pranzo della comunità, poi davanti al pannello di quarzo che lasciò tutti stupefatti mostrando per la prima volta la Terra completamente illuminata in pieno. Solo il sedile numero tredici rimase sempre fisso allo stesso posto.
Quando gli orologi atomici indicarono che il giorno poteva considerarsi terminato, i sedili tornarono al loro posto originale e diventarono letti; una serie di paraventi opachi trasformò ogni poltrona letto in una minuscola stanza privata. Un viaggio di prima classe, nello stile del "manubrio".
Prima che Rod cedesse al sedativo obbligatorio, un debole scintillio quasi invisibile, che secondo gli psicologi giocava scherzi alla vista, gli fece rivivere l'istante in cui aveva scorto per la prima volta il "manubrio" immobile, sospeso contro il nero dello spazio. Lo schema di quadrati bianchi e neri sulle sfere alle estremità del cilindro di collegamento mutò disposizione e divenne un paio d'occhi grigio ardesia, dallo sguardo fisso e privo d'espressione.
«Idroponica» disse un uomo massiccio e sgraziato «sezione uno zero nove sette. Voi di che ramo siete?»
Rod rispose automaticamente. «Geologia, esplorazione mineraria.» Era il terzo giorno, e si sentiva depresso e poco amichevole; la solidità stessa dello specialista in idroponica gli dava sui nervi. Si accorse che il disegno della sala circolare variava; le tre donne comprese nell'elenco passeggeri si separarono e formarono nuovi gruppetti. Una di esse gli sorrise vivacemente e accostò la propria poltrona alla sua.
«Geologia!» esclamò. «Mi ha sempre affascinato!»
La donna si tuffò a capofitto nell'argomento. Ron pensò che probabilmente l'avversione che nutriva nei suoi confronti gli si leggeva in faccia. Provò un forte desiderio di fumare, anche se non era un fumatore abituale. Gli occhi della donna avevano il colore di un acino d'uva nera pelato e troppo maturo. Si fermarono e si

Pierre Chambrun

 

Stati Uniti, 1962 / Hugh Pentecost

Direttore del Beaumont, uno dei più prestigiosi e lussuosi alberghi di New York, Pierre Chambrun lavora da più di trent'anni nel settore alberghiero ed è unanimemente considerato uno dei migliori nel suo campo, non soltanto dai proprietari ma anche dai numerosi dipendenti oltre che dai vari concorrenti.
Di origine francese, non molto alto ma robusto e ben piantato, con pesanti borse sotto gli occhi scuri, Pierre Chambrun si è trasferito negli Stati Uniti da ragazzo, ma in seguito è tornato varie volte in Europa e durante la Seconda guerra mondiale ha combattuto a fianco della Resistenza francese. 



Davvero instancabile, non si limita a sovraintendere ai mille problemi piccoli o
grandi di tutti i giorni, dal controllo del personale all'accoglienza degli ospiti importanti, preoccupandosi che tutto fili sempre per il verso giusto, ma si trova spesso alle prese con crimini e atti di violenza che si volgono proprio nel suo albergo e che, se restassero impuniti, certo ne rovinerebbero l'ottima reputazione
conquistata in anni e anni di duro lavoro. 




I romanzi di Hugh Pentecost con Pierre Chambrun sono pubblicati in Italia da Mondadori.

giovedì 27 marzo 2025

Giorgio Simoni: Tuoni e fulmini



Mi piace moltissimo guardarti
mi incanti
i miei occhi si abbandonano alla tua bellezza
alla tua leggerezza,
non ti nascondi mai.

Sono irruenti i tuoi continui cambiamenti
mi tufferei e ritufferei
dentro il tuo infinito.

Colori i toni della mia anima
quando sono triste
mi rassicuri con la tua luce
quando sono sereno.

A volte trovo la tua rabbia
nei tuoi colori nei tuoi suoni
la comprendo, è come la mia.

Capisco ora più che mai
perché molti amerebbero saper volare
… per starti più vicino ...
come se toccandoti
ci rendesse grandi quanto lo sei tu
… cielo …

 

URANIA n.29 - Jack Williamson: Gli uomini della cometa




Su Phobos il tempo si calcolava come sulla Terra, perché gli antichi
conquistatori della piccola luna di Marte ne avevano modificato la rotazione
in modo da adattarla alle esigenze imperiali. Non solo: ne avevano coperto la
roccia con erba verde, l’avevano dotata di un’atmosfera artificiale e da lì
avevano comandato sui pianeti come se fossero isole prigioniere.
Ma le orgogliose navi imperiali erano state sconfitte e dimenticate molto
prima della metà del trentesimo secolo, che è l’epoca in cui comincia questo
racconto: le isole intorno al sole erano tornate libere e l’ultimo erede delle
vaghe memorie imperiali non era altro che un prigioniero inquieto nell’ormai
declassato Palazzo di Porpora.
La notte cedeva il posto a un’alba minacciosa, e la lunga mezzaluna di
Marte si alzò come una scimitarra chiazzata di sangue davanti al sole. Sotto la
sua luce rossastra, una porta scorrevole si aprì e il giovane signore del
palazzo uscì dalla gigantesca torre centrale per incamminarsi nel giardino
pensile dell’ala ovest.
Era un uomo snello, con indosso la divisa verde della Legione dello
spazio, ma senza gradi e senza onorificenze. La faccia era ancora quella di un
ragazzo, ed era corrucciata; aggrottando le sopracciglia, scrutò il cielo buio a
occidente. Un altro uomo in verde sbucò dalla porta dietro a lui.
«Bob Star, dove…? Ah, eccoti, ragazzo!» Il più anziano soldato dello
spazio era basso, calvo e grasso, la tunica coperta di decorazioni accumulate
durante una lunga carriera ma ora sbottonata per la fretta. «Non puoi
aspettare un momento il povero Giles Habibula?»
«Mi dispiace, Giles.» Bob Star si girò rapidamente e la faccia abbronzata
dal sole si rilassò mentre sorrideva con affetto alla sua guardia del corpo.
«Sono uscito solo per dare un’occhiata al cielo. Devi seguirmi a ogni passo
che faccio?»
«Sai che devo» ansimò il grassone. «Hal e io abbiamo l’ordine di badare
alla tua vita e di difenderla con la nostra, se è il caso. È tuo padre che lo
vuole, e il grande John Star è un ufficiale che merita obbedienza.»
«Il grande John Star!» Per un momento l’amarezza soffocò la voce del
giovanotto, ma si riprese quando vide l’espressione offesa del volto del fedele
legionario. «Sì, immagino che mio padre sia veramente grande.» Annuì
semplicemente. «So che è l’eroe di una terribile guerra, il proprietario di
Phobos e il marito di mia madre.
«Ma perché mi fa sorvegliare come un criminale?»
«Per piacere, ragazzo!» Giles Habibula arrancò faticosamente al suo
fianco, nel giardino trapiantato che spandeva i profumi della lontana Terra.
«Forse tuo padre è più severo del vecchio Giles, ma sta solo cercando di fare
di te un soldato.
Inoltre, sai perché devi essere sorvegliato.»
«Per la mia sicurezza.» Il giovane alzò con impazienza le spalle esili. «O
così dice mio padre. Ma io sono un diplomato dell’Accademia della Legione,
e con lode, mi hanno insegnato come difendermi. Perché mio padre non
lascia che sia io a pensare alla mia sicurezza, come chiunque altro?»
«Perché c’è in ballo qualcosa di più importante della tua vita, ragazzo.»
Giles Habibula lanciò un’occhiata sospettosa ai viali deserti e allontanò il
giovane dalla porta. «Sei in pericolo più di quanto credi. Non è un segreto,
per Hal e me, che il Consiglio abbia deciso di nominarti erede all’ufficio di
tua madre.»
La faccia abbronzata di Bob Star sembrò all’improvviso più sottile per la
preoccupazione.
«Stai parlando dell’…AKKA?» La voce gli mancò quando
dovette pronunciare l’acrostico che nascondeva il misterioso segreto. Era
la risorsa più preziosa dei pianeti uniti, un’arma così potente che il suo
custode doveva giurare di rivelarne il principio solo al suo successore.
«Infatti, ragazzo: sarà questo il tuo compito» disse con solennità il
vecchio legionario. «Il compito più nobile che essere umano possa sognare:
essere l’unico depositario della grande arma, come oggi lo è tua madre. È
stato il Consiglio a dare l’ordine di guardarti a vista fin dal giorno che sei
stato scelto. Hal e io siamo fieri di servirti: allora, perché fare tante storie?»
«Perché ora come ora non custodisco alcun segreto» protestò il giovane.
«So soltanto che mia madre me lo rivelerà quando i medici diranno che in lei
non è più al sicuro… e spero che quel giorno non venga per altri cent’anni
almeno. Devo considerarmi prigioniero per tutto questo tempo?»
«Forse gli ordini ti sembrano un po’ troppo severi.» Il vecchio fece un
cenno di simpatia con la testa calva. «Ma perché te la prendi tanto? Siamo
confinati su Phobos, è vero, ma è un piccolo paradiso. Viviamo nel comfort
del più grande palazzo del sistema solare, per non dire della magnifica
cantina piena dei vini più pregiati. Dimmi, che male c’è in tutto questo ben di
Dio?»
 

mercoledì 26 marzo 2025

Amy Beach


(Henniker 1867 - New York 1944)

Amy Marcy Cheney Beach, pianista e compositrice, fu la prima donna americana a scrivere una sinfonia dal titolo Sinfonia Gaelica. Sua madre era pianista e notò da subito il grandissimo talento della figlia, ma disapprovava; sin dall’età di due anni Amy conosceva la scrittura musicale ed era in grado di improvvisare; a quattro compose il primo brano e a sette si esibì in pubblico, eseguendo brani di Handel, Beethoven, Chopin e composizioni proprie. La madre però continuava a ostacolare il prodigio, impedendo ad Amy di utilizzare il pianoforte; lei era così costretta a suonare le sue piccole composizioni su una tastiera immaginaria.
Quando aveva otto anni la famiglia si trasferì a Boston; Amy iniziò a prendere lezioni di pianoforte, armonia, contrappunto e composizione; a sedici anni debuttò come pianista solista con la Boston Symphony Orchestra.
Ma la sua vita cambiò direzione all’età di diciotto anni, quando si sposò con il noto fisico Henry Harris Aubrey Beach (le cui iniziali H.H.A. Beach diedero il nome a molte composizioni di Amy), più anziano di lei di venticinque anni, che la convinse a dedicarsi alla composizione, abbandonando così la carriera solistica, eccetto che per occasioni a scopo benefico o per presentare i suoi nuovi lavori.
Amy Cheney Beach compose una messa, una sinfonia, un’opera, concerti, sonate, musica corale e sacra, scrisse tante poesie, che musicò assieme a quelle scritte dal marito. Di spirito profondamente romantico, il suo stile compositivo era ricco di creatività melodica e inattese sovrapposizioni ritmiche, al punto da richiamare talvolta le sonorità di Brahms e Rachmaninoff, ma anche armonie esotiche e tonalità che corrispondevano, nella sua poetica, a dei colori precisi (il mi era il giallo, il sol il rosso). Alla morte del marito Amy riprese a esibirsi in concerto fino agli ultimi anni di vita, trascorsi in uno stato di salute inferma nel proprio appartamento di New York, dove morì per un attacco di cuore.


La Sinfonia gaelica o Sinfonia in mi minore op. 32 è stato scritta da Amy Marcy Cheney Beach nel 1894; è stata la prima sinfonia composta e pubblicata da una compositrice americana. Il pezzo debuttò a Boston venerdì 30 ottobre 1896 con "acclamazione di pubblico e giornalistica". Beach trasse ispirazione per la grande opera orchestrale da semplici melodie antiche inglesi, irlandesi e scozzesi; quindi, ha sottotitolato l'opera "Gaelico".
Beach iniziò a comporre la sua sinfonia nel novembre 1894. Sebbene in seguito Beach avrebbe accettato maggiormente la musica delle tradizioni nordamericane, come i temi dei nativi americani, Beach scelse di incorporare canzoni dell'influenza europea nei suoi primi lavori. Uno di questi brani (celtici) era la sua canzone intitolata "Dark Is the Night!" che ha impostato sulle parole del poeta inglese William Ernest Henley . Ha preso in prestito questa canzone per la sua sinfonia. 
Beach è stata fortemente influenzata dal suo contemporaneo Antonín Dvořák ; naturalmente, guardò alle composizioni di Dvořák e pubblicizzò le filosofie sulla musica americana mentre componeva la sua sinfonia. Sebbene la nazionalità di Dvořák fosse ceca, rimase negli Stati Uniti per gran parte del periodo 1892-1895 come capo del Conservatorio Nazionale di New York . Rappresentò la musica artistica americana alla fine del XIX secolo, in particolare attraverso la sua New World Symphony e l'American String Quartet. Dvořák ha intrecciato scale pentatoniche della musica dei nativi americani e afroamericani e ritmi delle danze slave insieme al suo stile romantico europeo per creare opere uniche per l'America: il crogiolo. Gli elementi "nativi" non furono abbracciati così prontamente da Beach. Dopo aver sentito delle derivazioni della New World Symphony di Dvořák , Beach rispose di cuore: "Noi del Nord dovremmo avere molte più probabilità di essere influenzati dalle antiche canzoni inglesi, scozzesi o irlandesi, ereditate con la nostra letteratura dai nostri antenati". Quando la sua sinfonia fu presentata per la prima volta, Beach aveva appena 30 anni ed era alle prese con la formazione del proprio stile compositivo; al contrario, i suoi ultimi anni portarono maturità e apertura nell'infondere canzoni dei nativi americani, in particolare degli Inuit, e afroamericani nella sua musica.
L'opera fu pubblicata da Schmidt nel 1897 ed era dedicata a "Herrn Capellmeister Emil Paur".
Secondo la tradizione che passa attraverso Haydn, Mozart, Beethoven, Mendelssohn, Schumann e Brahms, una sinfonia è divisa in quattro movimenti contrastanti. La Sinfonia gaelica viene generalmente eseguita in trentacinque-quaranta minuti. Con una struttura armonica completamente romantica e uno sguardo agli orizzonti della musica moderna, la Sinfonia gaelica di Beach la distingue come una compositrice di spicco all'inizio del ventesimo secolo.

I quattro movimenti della sinfonia sono i seguenti:

  • Allegro con fuoco: La sinfonia inizia con un basso rimbombo cromatico degli archi che costituisce la base su cui è costruita la melodia romantica. La ricca orchestrazione stabilisce lo stile romantico della sinfonia. Le sue scelte chiave insolite rispecchiano quelle del primo movimento della Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvořák.
  • Alla siciliana – allegro vivace: I temi gaelici sono introdotti in variazione.
  • Lento con molta espressione: Il terzo movimento è melodico e di natura lenta.
  • Allegro di molto: L'ultimo movimento della sinfonia è vivace e tematico.

martedì 25 marzo 2025

Roberto Roganti, Misfatto indigesto al Bulldog, Net Garage



«Buongiorno Grogghino».
«Buongiorno carissimo Roberto Roganti».
«Quale avventura vuoi raccontarmi oggi?».
«Guarda, ci pensavo stanotte. So che a te piace andare a mangiare in un certo ristorante, vuoi perché conosci da anni i titolari, vuoi perché ti piace la buona cucina. E so pure che sei ghiotto delle loro tagliatelle, dei tortellini e della cotoletta orecchia d’elefante, fritta così, nuda e cruda, senza fronzoli. Quindi ti racconterò di quella volta che là è stata ammazzata una cameriera, fu trovata proprio da Aurora e Luca…».
«Zitto, non spoilerare. Non raccontarmi prima la storia, lo sai che mi piace sentirla tutta d’un fiato per poi riversarla a modo mio sulla carta. Comunque, hai ragione, pensa che al Bulldog Ristorante-Pizzeria ci andava anche mio padre, gli piaceva raccontare che aveva fatto conoscer loro il Lambrusco di Modena, quello che viene prodotto nell’area appena fuori dalla città, nella periferia della periferia. Mio padre ora viaggia verso i 96 anni e al Bulldog si continua a bere ancora lo stesso Lambrusco, oltre ad altri più blasonati. Ma quello del mio papà ha un sapore familiare. Mi raccomando, se dovessi andarci anche tu, provalo, sarebbe quello di Mes…».
«Alt! Adesso ti fermo io. Hai la liberatoria per scrivere quel nome? Piuttosto, se hai il coraggio e l’intenzione di pubblicare questa avventura, devi chiedere le liberatorie a tutti, non si sa mai. E già che ci siamo, cosa ci beviamo mentre racconto? Lo sai che mi si secca la gola».
«Andiamo di… no, vai tu di Lambrusco Grasparossa; io, purtroppo, per motivi di salute, sono stato interdetto all’uso di alcolici, se non in rare occasioni».

 

MONDADORI n.29 - Edgar Wallace: Il vagabondo



L'aspetto del vagabondo inglese non era molto rassicurante. Aveva la faceta gonfia,
la barba lunga, un occhio ammaccato da un pugno. Aveva mezzo dollaro in tasca,
tutta la sua fortuna. E anche una pistola.
Per difendersi da chi o che cosa, October Jones non lo sapeva. La ragazza sapeva solo di averlo sposato per ripicca. Ma anche per simpatia. Una simpatia improvvisa e irrazionale.
Il nome del vagabondo era Bob Leslie, almeno così aveva capito la ragazza. In realtà si chiamava Bob Leslie Beausere: un nome davvero altisonante per un semplice vagabondo.
Chi era, in realtà, Bob? E perché qualcuno cercava di ucciderlo? Solo alla fine di una lunga caccia, costellata di colpi di scena, fughe e inseguimenti, conosceremo finalmente la verità: una verità difficile a credersi, se a svelarcela non fosse quello stupefacente mago del giallo che risponde al nome di Edgar Wallace.

 



lunedì 24 marzo 2025

Edgar Allan Poe: Il cuore rivelatore



Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e le sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti - mica me li ha distrutti - logorati. E già avevo l'udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell'inferno ho sentito parecchio. Com'è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senso, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia.
Come in principio l'idea mi venne non è possibile dirlo; ma una volta che mi entrò in testa ne fui ossessionato notte e giorno. Un motivo, non c'era. La passione non c'entrava per nulla. Gli volevo bene, al caro vecchietto. E lui non mi aveva fatto alcun male. Mai mi aveva offeso. Né io volevo il suo oro. Fu per il suo occhio, credo. Sicuro, fu per quello! Aveva un occhio che pareva un occhio di avvoltoio, azzurro chiaro, con un velo sopra. Ogni volta che quell'occhio si posava su di me, mi si gelava il sangue; e così, lentamente, a grado a grado, mi misi in testa di togliergli la vita, al vecchio, e in tal modo sbarazzarmi per sempre dello sguardo di quell'occhio.
Ecco il punto! Voi mi credete pazzo. E i pazzi non sanno quel che fanno. Se mi aveste visto, invece! Se aveste visto con quanta assennatezza operai; con quanta circospezione, dissimulazione, previdenza! Mai ero stato tanto gentile col vecchio come durante la settimana che precedette l'assassinio. E ogni sera, verso mezzanotte, giravo la maniglia della porta che metteva nella sua camera e aprivo: oh, piano, piano! Quando avevo aperto abbastanza per cacciar dentro la testa, facevo passare una lanterna cieca, perfettamente chiusa, eh, perfettamente chiusa, che non lasciasse filtrare un solo raggio, e poi affacciavo la testa. Oh, avreste riso a vedere con quale destrezza l'affacciavo! La muovevo lentamente, con infinita lentezza, per non turbare il sonno del vecchio. Certo ci mettevo un'ora ad introdurla tutta, e a spingerla quanto occorreva per vederlo disteso nel suo letto. Un pazzo sarebbe stato così prudente? E quando avevo cacciato tutta la testa nella camera, cominciavo con cautela - infinita, infinita cautela - a schiudere la lanterna, che strideva un poco sui cardini. L'aprivo appena il necessario per lasciar cadere un impercettibile filo di luce sull'occhio d'avvoltoio. Sette volte, per sette lunghe notti, feci questo, - a mezzanotte precisa, ogni volta - e sempre trovai chiuso quell'occhio, così che mi fu impossibile compiere l'opera che mi ero proposto; perché non era lui, il vecchio, che mi irritava, ma il suo Occhio Malefico. Quando poi faceva giorno, ogni mattina, entravo baldanzosamente nella sua camera, e gli parlavo senza scrupolo alcuno, chiamandolo per nome nel modo più cordiale, e chiedendogli come avesse passato la notte. Vedete, avrebbe dovuto essere un vecchio molto fine d'acume, per sospettare che ogni sera, a mezzanotte precisa, io l'osservavo durante il suo sonno.
L'ottava notte fu con maggior precauzione del solito che aprii la porta. La freccia

domenica 23 marzo 2025

Progressive Spin, puntata 1



Mostly Autumn - Seawater
Jacob Roberge - The Passing
Mostly Autumn - Not Yours to Take


 

Vincenzo Cioffi: Volti scomparsi




Francois sente qualcosa dentro di sé. 
Qualcosa che lo spinge verso l’oscurità. 
Sarà stata l’educazione particolare della sua infanzia, sarà che la monotonia della vita lo annoia. 
Quasi con una scommessa contro se stesso imbocca una china, che lo porterà ad esplorare l’oscurità e il sadismo più sfrenato della sua mente.


I. Baraldi - Incontro, 1939









 

sabato 22 marzo 2025

Mandrake



Mandrake il mago (Mandrake the Magician) è un personaggio dei fumetti ideato da Lee Falk (autore anche del successivo Uomo mascherato) e disegnato da Phil Davis, che fece il suo esordio sui quotidiani statunitensi dell'11 giugno del 1934. Fra i personaggi a fumetti più famosi di sempre in tutto il mondo e particolarmente in Italia, dove nacque anche il modo di dire "non sono mica Mandrake" per indicare l'impossibilità a fare qualcosa. Il periodo di maggior successo del personaggio è soprattutto negli anni ’40 e ’50 e dal 1939 gli venne dedicata una serie di film. Per mano di altri autori Mandrake ha continuato a essere pubblicato nel mondo diventando un personaggio di culto conosciuto anche dalle generazioni successive. Le strisce originali sono ricercate dai collezionisti e possono raggiungere quotazioni importanti. 


Negli Stati Uniti d'America negli anni trenta erano popolari gli spettacoli di illusionismo e Falk, allora giovane pubblicitario, pensò di realizzare un fumetto incentrato sulla figura di un mago di nome Mandrake che in inglese significa mandragora, pianta alla quale erano attribuiti poteri magici durante l'antichità. Per la caratterizzazione grafica Falk si ispirò oltre che a sé stesso anche a un vero illusionista di nome Cardini vestendolo con frac, cilindro e mantello, tipico abito dei prestigiatori. Come spalla gli affiancò un assistente africano dal curioso nome tedesco, Lothar. L'aspetto e lo stile caratteristici di Mandrake ricalca quello di molti degli illusionisti che si esibivano sia in Europa che nel nuovo continente sin dall'Ottocento con un impeccabile frac con mantellina e cappello a cilindro.

Presentato come Mandrake, l'uomo del mistero, il personaggio inizialmente è un mago vero e proprio che incute paura ed è protagonista di storie dell'orrore nonostante utilizzi i suoi poteri per ricercare il bene. Alla fine degli anni trenta il personaggio sarà caratterizzato però come un brillante illusionista.
Disegnato con le fattezze di Falk stesso, è ispirato a un mago realmente esistito, tale Leon Mandrake, che si accordò con Falk affinché questi non rivelasse mai la sua fonte di ispirazione, per consentire all'amico mago di sfruttare la popolarità del personaggio. Aveva sempre i capelli lucidi ed impomatati, un paio di baffi e un bastone da passeggio con un grosso pomo che poteva divenire strumento dagli effetti magici.

Negli esordi il personaggio è una sorta di stregone in possesso di poteri tali da compiere veri e propri miracoli ma sempre utilizzati a fin di bene. L'avversario ricorrente è il Cobra, con il volto sempre coperto da un cappuccio e dotato anch'egli degli stessi poteri di Mandrake ma rivolti verso il male. I due si conoscono da molto tempo ma non si sa molto altro del vincolo che li lega. Successivamente si scopre che il Cobra si chiama in realtà Luciphor e che aveva imparato le arti magiche insieme a Mandrake nel Tibet dal maestro Theron che poi si scoprirà essere il padre di Mandrake e che Luciphor/Cobra è il suo fratellastro. Successivamente le storie divennero più ironiche e si scopre che i poteri di Mandrake non sono miracoli ma solo l'effetto delle tecniche di ipnosi che aveva apprese in Tibet che gli permettevano di far credere che si verificassero le cose più incredibili.

venerdì 21 marzo 2025

Pierfrancesco Prosperi: Non si torna indietro


Anche quel giorno mi svegliai avvinghiato al cuscino. Mi sollevai sui gomiti strabuzzando gli occhi. Il letto appariva sconvolto, le lenzuola sprimacciate, le coperte erano cadute sul pavimento.
Mi sentivo malissimo. Barcollai fino al bagno e dall'armadietto semiaperto arraffai dal solito flacone due, tre pillole, le solite. Le mandai giù senz'acqua e mentre deglutivo ero già col capo sotto il rubinetto aperto, cercando di dimenticare gli incubi di quella notte.
Vivevo come in un sogno. È l'unica espressione che posso usare per descrivere la confusione mentale di quei giorni, e per di più ho la sensazione che la mia volontà e la mia memoria procedessero a sbalzi. Non ricordo di essermi vestito, eppure la scena successiva di quel sogno ad occhi aperti mi trovava per la strada, lungo il marciapiedi percorso da una folla allegra e vociante. E ricordo anche che era sera, fuori era buio, dovevo aver dormito buona parte della giornata. Era una sera d'autunno e un venerdì, e questo spiegava il movimento colorato dei pedoni e il traffico caotico per le strade.
La gente stava preparandosi a due frenetici giorni di festa. Io stavo preparandomi a due giorni d'incubo, da trascinarsi fra il pub, il letto e le passeggiate senza meta con le mani in tasca, pause tra una sbronza e la successiva. Non ero più io.
E Laura, quella cretina, era andata a farsi mettere sotto da un taxi, tre mesi prima.
All'inizio l'avevo presa abbastanza bene. Quando mi telefonarono la notizia era lunedì e decisi ipso facto di fare un viaggio di due o tre giorni, e difatti fino a mercoledì sera non fui in grado di ricordare ii mio nome. Quando ebbi smaltito l'effetto della droga non mi sentivo troppo male. Dormii per altre dodici ore e venerdì tentai persino di lavorare.
Non mi preoccupai più di tanto del fatto che non riuscivo a concludere nulla. Lasciai perdere e mi riposai fino al lunedì successivo. Ci vollero diversi giorni prima che mi rendessi conto che, ogni volta che tentavo di accostare la matita al foglio, sentivo chiudersi automaticamente le saracinesche del cervello e restavo per ore a tracciare geroglifici idioti sul bordo del tavolo da disegno, cercando invano di afferrare qualche appiglio. In altre parole, un tentativo dopo l'altro mi convincevo di aver perduto la mia capacità creativa. Ammetterete che per un disegnatore di fumetti questo non è un piccolo inconveniente.
"Cristo" pensai "dev'essere simile a quello che prova un impotente quando cerca di

Piccolo Cesare



Stati Uniti, 1929 / William R. Burnett

Favorito dal proibizionismo e successivamente dalla depressione che fece seguito alla grande crisi economica del 1929 (l'anno tristemente famoso per la cosiddetta settimana nera di Wall Street, in cui milioni di persone persero da un giorno all'altro i loro risparmi), il fenomeno del gangsterismo ha caratterizzato per anni la vita statunitense condizionando anche la letteratura poliziesca e il cinema, che spesso presentava i gangster come degli eroi, mentre i giornali erano pieni di notizie di cronaca nera.



Letterariamente tutto inizia nel 1929, quando Burnett esce improvvisamente dall'anonimato con Piccolo Cesare (Little Caesar), una storia ispirata alla violenta realtà di quegli anni, con un cattivo "vero", Cesare Bandello, un gangster di origine italiana che dopo vari scontri con bande rivali riesce a dominare un'intera città con i suoi uomini finché, tradito, muore in uno scontro a fuoco con la polizia. 



Questo romanzo impone un genere, ed è ben presto seguito da numerosi altri titoli.
Dai romanzi di William R. Burnett sono stati tratti numerosi film. 



Il più famoso è senz'altro Piccolo Cesare, diretto da Mervin Le Roy e interpretato da Edwar G. Robinson. 


Ma non possiamo non ricordare ancora almeno altri capolavori del genere come Tutta la città ne parla di Ford, Scarface di Hawks, Il pericolo pubblico n. 1 di Brabin e Giungla d'asfalto di Huston.

giovedì 20 marzo 2025

Sauro Roveda: Sospeso



Amo il silenzio
il dire e il non dire
di un pensiero sussurrato,
l'alba remota
che striscia sui ricordi accartocciati
di un giorno mai consumato.
E ritrovarmi
sospeso in una bolla d'aria...
da te respirata.
Fino a cadere
nel vuoto del tuo nome.


URANIA n.28 - Gordon Bennet: Sconfitta dei semidei



Stacey respinse leggermente il cappello all'indietro. Il suo sguardo assorto si
posò sulla moglie. Probabilmente non aveva udito nemmeno una parola di ciò
che ella gli stava dicendo. Il suo viso asciutto aveva il colorito pallido, ma
ricco e intenso di coloro che hanno vissuto a lungo sotto il sole dei tropici.
Dietro gli occhiali di tartaruga, i suoi occhi erano d'un azzurro chiaro,
penetranti.
«Ah!» disse gentilmente. «I giornali? Bene, grazie».
«Sì, Horace, eccoli! Torno adesso dal villaggio» disse Kathleen, una
ragazza tanto bella, nel suo tipo, quanto il tramonto estivo che pennellava di
vecchio oro quell'angolo di campagna inglese. I suoi capelli neri erano densi
e cupi come l'ombra che si stendeva sul prato rasato e i suoi occhi riflettevano
gli ultimi raggi del sole morente. Era una ragazza moderna e aveva
l'abitudine, che molti giudicavano piuttosto sfrontata, di chiamare i propri
genitori col loro nome di battesimo.
«C'è qualcosa, sui giornali, che t'interessa, Horace» soggiunse.
«Parlano di formiche?» egli chiese, con un lieve sussulto.
«Sì. In quarta pagina».
«Oh» continuò la signora Stacey.
«Sarà sempre la solita storia... Conosco la sinfonia! Qualcosa del genere:
"In questa stagione dell'anno la Grande Termite Bianca Africana – forse il
più feroce degli insetti noti – si prepara ad effettuare un attacco massiccio ai
raccolti dei contadini del veld africano..."».
«No, non è così semplice» disse il marito che aveva aperto il giornale e
cercato la notizia che lo interessava. «Si tratta di ben altro. Pare che si sia
scoperta nel Sud Africa una specie di formica amazzone. Uno degli esemplari
catturati misura parecchi decine di centimetri di lunghezza... Singolare
davvero, e molto interessante!»
«Oh, Horace» disse sua moglie.
«Io credevo che tu avessi abbandonato le formiche per dedicarti ai ragni e
alle tignole. E ne ero davvero felice, caro. Da che siamo sposati, finalmente
incominciavo a respirare! Dammi retta, non pensare più a quelle sinistre
bestiole: hanno qualcosa di lugubre, lo sai che ho sempre dei presentimenti e
delle intuizioni...»
«Non tormentarti, cara» le rispose il marito dolcemente. «Non ci penso
più, infatti. I miei lavori sulle formiche sono terminati... sempre che non ci sia
qualche cosa di veramente nuovo».
«Speriamo di no» disse Kathleen, decisa. «Mi hai fatto talmente paura,
con quelle bestioline, quando ero piccola, che sognavo tutte le notti d'essere
rapita e tenuta prigioniera in un formicaio. Non ricordo più i particolari, ma
mi è rimasta una sensazione spiacevole d'incubo. Per fortuna hai una figlia
piena di equilibrio, Horace, altrimenti avrei potuto crescere piena di
complessi... Horace, angelo mio, non credere che sia molto comodo e
piacevole essere la figlia del più noto entomologo del mondo!»
«Santo Iddio!» disse suo padre. «Starò più attento, in avvenire!»
Kathleen gli prese una mano.
«Ascolta, Horace. E se i sogni che avevo da bambina e gli altri incubi si
dovessero realizzare, se davvero io fossi fatta prigioniera da una formica
gigante o da una termite, come credi che mi tratterebbero? Pensa, caro, che
mi si considera, in genere, una personcina piuttosto graziosa e attraente,
dotata d'un certo fascino».
«Ebbene, signorina» disse solennemente Horace Stacey «tutta la vostra
bellezza, tutto il vostro leggendario sex appeal, a cui sembrate tener tanto, voi
e i vostri giovani amici, sarebbero lettera morta, per le formiche. Con la loro
percezione acuta s'accorgerebbero fin dal primo momento che non siete
adatta ad essere la loro regina! E dopo avervi nutrita e ingrassata, signorina,
proprio come un pidocchietto delle piante, farebbero di voi una specie di
Cenerentola da mensa aziendale. E se voi, cara signorina, vi mostraste
incapace di resistenza fisica, non starebbero a pensarci su tanto e vi
destinerebbero a servire da pranzo alle centomila operaie asessuate della loro
classe inferiore. Ho detto!»
Sorrise.
«Benissimo» disse Kathleen sullo stesso tono. «Sarei a posto, in
qualunque modo mi trattassero, sembra...» Cambiò tono: «Spicciati a venire a
mangiare, Horace, se vuoi che ti perdoni simili lugubri predizioni! Ho una
fame infernale».
Mentre le due donne rientravano in casa, lo scienziato rimase assorto nella
contemplazione del giornale che gli era scivolato ai piedi.
«Lunghe parecchie decine di centimetri...» mormorò fra sé. «Singolare,
davvero singolare. E nella regione del fiume Hex, per giunta! Atta cephalotes,
suppongo. Oppure, se sono sprovviste di pungiglione, Formica sanguinea...
Bisogna proprio che m'informi un po' meglio, su questo punto!»


 

mercoledì 19 marzo 2025

Sofija Asgatovna Gubajdulina

 

(Čistopol', 24 ottobre 1931 – Appen, 13 marzo 2025)

Nacque nella repubblica russa del Tatarstan, all'epoca in Unione Sovietica. 
Studiò pianoforte e composizione al Conservatorio di Kazan', diplomandosi nel 1954. A Mosca intraprese ulteriori studi al Conservatorio con Nikolaj Pejko fino 1959, e poi con Šebalin fino al 1963.

Durante i suoi studi nell'URSS la sua musica fu etichettata come "irresponsabile" per le sue esplorazioni alternative. Fu sostenuta da Dmitrij Šostakovič il quale, valutando il suo esame finale la incoraggiò a continuare per la sua "cattiva strada".
Allora, nonostante tutto, le fu permesso di esprimere il suo modernismo in numerose partiture composte per documentari, includenti la produzione del 1968, On Submarine Scooters, un film a 70 mm.

A metà degli anni settanta Gubajdulina fondò Astreja, un gruppo di improvvisazione strumentale folcloristico, assieme ai compositori Viktor Suslin e Vjačeslav Artëmov.
Nel 1979 fu messa nella lista nera perché appartenente al gruppo di musicisti "I sette di Khrennikov" al VI Congresso dei compositori dell'Unione delle Repubbliche sovietiche a causa della partecipazione in alcuni festival disapprovati dal regime.
All'inizio del 1980 acquisì notorietà all'estero grazie al violinista Gidon Kremer che eseguì il suo concerto per violino ed orchestra Offertorium. In seguito compose un Omaggio a T. S. Eliot, usando il testo del capolavoro spirituale del poeta Four Quartets.
Nel 2000 ottenne con Tan Dun, Osvaldo Golijov, e Wolfgang Rihm, la commissione da parte dell'Internationale Bachakademie Stuttgart di una Passione - ogni compositore ha usato testi tratti da uno dei 4 vangeli - per la commemorazione di Johann Sebastian Bach.

La sua musica è caratterizzata dall'uso di inusuali combinazioni strumentistiche. Nel brano In Erwartung, usa una combinazione formata da strumenti a percussione con un quartetto di saxofoni; ha inoltre scritto pezzi per koto e orchestra e tre raccolte per domra e pianoforte su temi popolari tatari.
All'inizio degli anni ottanta Gubajdulina cominciò ad usare la successione di Fibonacci per strutturare la forma delle sue opere - ad esempio nella Sinfonia "Stimmen... Verstummen...", in Perception, nel pezzo per percussioni All'inizio era il ritmo, nel coro Omaggio a Marina Cvetaeva, nel trio Quasi hoquetus, nella sonata Et exspecto ed altre. La compositrice ha fatto ricorso alla serie di Fibonacci quale regola per organizzare unicamente il ritmo, generale e particolare, delle sue opere.

Nel 2004, è stata eletta membro onorario straniero dell'American Academy of Arts and Letters e nel 2013 è stata insignita, alla Biennale di Venezia, del Leone d'oro alla carriera.

'Fachwerk' è dedicato a Geir Draugsvoll, titolare di una cattedra di fisarmonica presso la Copenhagen Academy of Music e che ha presentato la prima mondiale dell'opera il 13 novembre 2009 insieme ad Anders Loguin (percussioni) e all'Amsterdam Sinfonietta diretta da Reinbert de Leeuw a Ghent (Belgio).
Per Sofia Gubaidulina, il termine Fachwerk, il cui suono la affascina immensamente, contiene due componenti. Da un lato, il termine si riferisce all'abilità artigianale richiesta per trasformare una composizione in un'opera musicale eseguibile in termini di struttura, forma, architettura e tempistica. Dall'altro, il termine ha anche una componente estetica. Dopotutto, la costruzione a graticcio delle case del tardo Medioevo e dell'inizio del periodo moderno non serve solo a scopi strutturali, ma conferisce anche agli edifici un aspetto particolarmente attraente e pittoresco. Agli occhi del compositore, il principio 'a graticcio' si manifesta perfettamente anche nello strumento bayan grazie alla sua costruzione e alle sue specifiche possibilità sonore. Nell'ultimo concerto strumentale di Sofia Gubaidulina, come nei suoi lavori precedenti, bellezza e costruzione si fondono per formare un tutt'uno artistico. (Helmut Peters)