Trascorsi cinque minuti senza nessun cambiamento apparente, Karlsen capì che gli restava ancora un po’ di tempo da vivere. E non appena la sua mente osò... diciamo aprire gli occhi, lui cominciò a vedere le profondità dello spazio che lo circondava come realmente erano.
Non aveva altro da vedere, vagando così come stava facendo nella bolla cristallina del diametro di circa quattro metri. Le vicende della guerra l’avevano scagliato lì, a metà strada sul pendio della più ripida collina gravitazionale di tutto l’universo conosciuto. All’invisibile base di quella collina c’era un sole incredibilmente grande e luminoso.
In meno di un minuto, nel tentativo di sfuggire al nemico che incalzava, lui e il suo scafo-goccia erano caduti lì, ad una incommensurabile distanza dallo spazio normale. Essendo religioso, Karlsen aveva trascorso quel minuto in preghiera, ricavandone una specie di calma rassegnata, e considerandosi già
morto. Ma dopo quel minuto, all’improvviso, la caduta libera finì, come se la bolla fosse entrata in orbita. Un’orbita che nessun uomo aveva mai percorso prima, in mezzo a visioni che nessun occhio umano aveva mai guardato. Stava sorvolando un temporale in guerra con un tramonto, un continuo, silenzioso tumulto di nuvole fantastiche che riempivano metà del cielo come se fossero state un pianeta vicino. Ma quella massa era più grande di qualsiasi pianeta, più grande anche di quasi tutte le stelle giganti. Il centro e la causa di quella massa, mantenuti oltre la visibilità umana dalla sua stessa estensione, era un
sole milione di volte più grande del Sole terrestre. Le nuvole erano polvere interstellare, sollevata dalla spinta dell’ipermassa, e destinata a ricadere ed agitarsi in essa in un turbine perpetuo. Nel ricadere, le nuvole di polvere generavano campi elettrici che si scaricavano in lampi continui. Karlsen vide quelli più vicini, di un colore bianco azzurro. Ma la maggior parte dei lampi, come la maggior parte delle nuvole, erano lontano, sotto di lui, così la luce che lo illuminava era di un rosso-cupo, e variava di poco secondo la pendenza della collina-gravità. Il piccolo scafo-bolla di Karlsen aveva una forza di gravità propria, che lo faceva ruotare mantenendo il ponte verso il basso, così Karlsen vedeva la luce rossa sotto di sé, attraverso il ponte trasparente, fra i suoi piedi calzati di stivali spaziali. Sedeva in una massiccia poltrona fissata al centro della bolla, con inseriti tutti i comandi per il controllo dello scafo e i meccanismi necessari per mantenergli la vita. Sotto il ponte c’erano un paio di forme opache. Una era il piccolo ma potentissimo motore spaziale. Tutto il resto attorno a Karlsen era vetro trasparente. Lo scafo conservava l’aria all’interno, ed escludeva le radiazioni, ma gli lasciava occhi e anima disarmati alle profondità dello spazio che ovunque lo circondava. Trattenne il fiato e mise in moto il motore, cercando di risalire e allontanarsi. Come aveva previsto, non accadde niente. Anche a tutta energia. Avrebbe ottenuto di più pigiando i pedali di una bicicletta.
Si sarebbe immediatamente accorto anche del minimo cambiamento d’orbita, dato che la sua bolla era in un certo senso ancorata in un piccolo cerchio di rocce e di polvere che si allungava come un nastro a chiudere la vastità dello spazio sotto di lui. Prima ancora che si curvasse a seguire l’immenso cerchio il nastro perdeva la sua identità confondendosi con altri nastri di maggiore consistenza. Questi, a loro volta, si univano a fasce più grandi, sempre di dimensione più grande, fino a che (centomila chilometri più lontano? Un milione di chilometri?) il primo anello della grande serie di cerchi, il più largo, diventava percettibile. Poi l’arco, colorato come un arcobaleno dalla luce dei lampi, sprofondava rapidamente, scomparendo alla vista sotto il terribile orizzonte formato dal velo di polvere dell’ipermassa. Le fantastiche forme-nuvola di quell’orizzonte. lontano milioni di chilometri da lui, si avvicinava a vista d’occhio, tanto grande era la velocità della sua orbita.
La sua orbita, pensò Karlsen doveva avere circa le dimensioni del percorso della Terra attorno al Sole. Ma giudicando da come la superficie delle nubi girava sotto di lui, una sua rotazione completa doveva avvenire in poco più di quindici minuti. Superare la velocità della luce nello spazio normale era una follia, ma quello non era uno spazio normale. Quelle pazzesche scie di polvere e di rocce in orbita suggerivano che lì la gravità si formava in linee di forza, come il magnetismo.
Le fasce in orbita sopra Karlsen viaggiavano meno velocemente della sua bolla. Nelle fasce più vicine, poteva distinguere rocce isolate che si susseguivano nella corsa come denti di una sega circolare. Cercò di non pensare a quei denti, alla spaventosa velocità, alla distanza, alle dimensioni.
Rimase seduto nella poltrona guardando in alto verso le stelle. E si domandò vagamente se risalendo nel tempo dell’universo da cui era caduto, poteva ringiovanire. Non era un professore di matematica o di fisica, ma secondo lui non era possibile. Quello dell’età era un trucco che nemmeno l’universo poteva modificare. Ma c’era la possibilità che in quell’orbita lui invecchiasse assai più lentamente del resto della razza umana.
Si accorse di essere rannicchiato nella sua poltrona come un bambino sbalordito, le dita intorpidite nei guanti per la forza con cui si teneva afferrato ai braccioli. Si sforzò di rilassarsi, di pensare a cose più pratiche. Era sopravissuto a cose peggiori di quello spettacolo della natura, anche se nessuna più impressionante.
Aveva aria, e acqua, e cibo a sufficienza, e l’energia necessaria alla rigenerazione dei rifiuti a tempo indeterminato. Gli apparecchi di bordo potevano fare miracoli.
Studiò le linee di forza, o cos’altro fossero, che lo tenevano prigioniero. Sembrava che le rocce più grandi, alcune delle dimensioni della sua bolla, non cambiassero mai la loro posizione relativa. Ma i piccoli frammenti ondeggiavano liberamente avanti e indietro, a bassa velocità.
Si alzò e si girò. Un solo passo, e fu al vetro concavo. Guardò fuori, cercando di individuare il nemico.
A circa mezzo chilometro da lui, afferrato nello stesso vortice di relitti spaziali, c’era lo scafo degli inseguitori che lo avevano spinto lì. Quello scavo aveva per scopo la sua morte. Gli scandagli dovevano essere fissi sulla sua bolla, e probabilmente ne seguivano i movimenti senza perdere tempo nella stupita contemplazione dello spettacolo, questo era certo.
Il suo scafo-bolla era privo di armamento, ma quello degli inseguitori, no. Perché non sparavano? Quasi in risposta al suo pensiero un raggio uscì dalla lancia inseguitrice. ma percorse pochi metri in mezzo a una esplosione di rocce e di polvere, poi si distese come un fuoco d’artificio, lasciando altra polvere, più densa. attorno allo scafo degli inseguitori. Probabilmente la macchina aveva sparato ancora, ma quello strano spazio non tollerava armi ad energia. Missili, allora?
Sì, missili. Osservò gli inseguitori lanciarne uno. Il cilindro partì con un balzo verso di lui, poi scomparve. Dov’era finito? Precipitato verso l’ipermassa? A una velocità invisibile, in questo caso.
Non appena scorse il lampo di un secondo missile, Karlsen guardò in basso. Nella linea d’energia sottostante vide accendersi una fiammata e formarsi del fumo. Uno dei denti della sega circolare scomparve. Il fumo si disperse lontano, scomparendo istantaneamente alla vista. In quel momento Karlsen si rese conto di avere guardato lo scafo degli inseguitori non con paura ma con una specie di sollievo, come una distrazione a quanto lo circondava.
— Oh, Dio! — disse a voce alta, guardando davanti a sé. Oltre il lento vortice dell’infinito orizzonte si erano sollevate mostruose nuvole a forma di testa di drago. Contro l’oscurità dello spazio le teste madreperlacee sembravano essersi materializzate dal nulla per tuffarsi verso l’ipermassa. Presto i colli dei draghi si sollevarono sopra i confini del mondo, vortici colorati di materia, che rotolavano a velocità irreale nell’ipermassa. E poi i corpi dei draghi, nuvole palpi. tanti di lampi-azzurri sopra le rosse viscere dell’Inferno.
Il grande anello, di cui la fascia di rocce dove si trovava Karlsen era una componente, correva verso le prominenze. Sarebbe finito schiacciato fra quei picchi galattici... La vorticosa fascia che lo aveva travolto sarebbe stata schiacciata tra una Scilla ed un Cariddi cosmici. Poi, nell’attimo in cui passava, Karlsen si accorse che la distanza tra loro era enorme, incalcolabile.
Chiuse per un attimo gli occhi. Se gli uomini avevano osato pregare, se avevano osato anche pensare al Creatore dell’universo, era solo perché le loro piccole menti non erano mai riuscite a visualizzare nemmeno la millesima, la milionesima parte... di visioni come quella per la quale non c’erano parole adatte.
E cosa dire degli uomini che credevano soltanto in sé, o in niente? Cosa sarebbe successo a quegli uomini se avessero potuto vedere il cosmo?
Riaprì gli occhi. Nella sua fede era convinto che un singolo umano fosse molto più importante per il Creatore di qualsiasi sole per quanto enorme. Si sforzò di guardare ancora. E si sforzò di vincere il suo timore quasi superstizioso.
Ma fu costretto a farsi di nuovo forza quando si accorse di come si stavano comportando le stelle. Erano aghi biancoazzurri. L’onda frontale della loro luce, fusa insieme, colpiva in fuga precipitosa la collina di gravità. La sua velocità era tale da consentirgli di vedere alcune stelle muoversi lentamente in uno spostamento di parallasse.
Tornò alla poltrona, e si risedette, accasciato. Avrebbe voluto scavarsi un tunnel, fino al centro di un immenso pianeta, per nascondercisi... Ma dov’erano i pianeti? Piccoli punti sperduti in quella immensità, non erano più grandi, ora, della sua bolla.
Lui si trovava di fronte ad una inconsueta visione spaziale dell’infinito. Lì dov’era, le leggi fisiche conosciute non bastavano più a far capire la prospettiva delle rocce che cominciavano poco fuori dalla bolla e trascinavano la mente lontano, da roccia a roccia, da linea a linea, da gradino a gradino, avanti, avanti e ancora avanti...
Bene. Se non altro c’era qualcosa contro cui combattere, e combattere era certo meglio che starsene seduto a tremare. Tanto per cominciare, un po’ della solita routine. Bevve dell’acqua, ottima, e si costrinse a mangiare un po’.
Ora, bisognava abituarsi allo scenario senza diventare pazzo. Guardò nella direzione in cui stava volando la sua bolla. A circa sei metri c’era la prima roccia, grande quanto dodici uomini assieme, appesa alla linea-orbita di forza. Soppesò mentalmente la roccia e la misurò, poi rivolse la sua attenzione al masso seguente, un sasso lanciato un poco più lontano. Le rocce continuavano in lontananza, e finivano inghiottite dallo schema convergente di linee di forza che piegavano attorno all’ipermassa.
Gli pareva di essere un cucciolo di scimmia che sbatte le palpebre alla luce del sole nella giungla, o che, spaventato all’inizio dalle dimensioni delle piante e dei rami, li vede poi per la prima volta come una rete di sentieri da poter percorrere.
Ora osò guardare l’orlo a sega del più vicino cerchio di rocce, per lasciare poi che la sua mente lo superasse, e andasse lontano. Osò guardare le stelle che si spostavano con lui, pensandole come un perfetto impianto luminoso.
Era stanco anche prima che lo scafo precipitasse lì, e adesso il sonno lo vinse. Fu destato all’improvviso da un rumore assordante. Il suo inseguitore, dopo tutto, non era impotente: due macchine nemiche, grandi quanto un uomo, stavano fuori dalla bolla e armeggiavano attorno al portello. Karlsen afferrò macchinalmente la pistola, pur sapendo che la piccola arma non gli sarebbe stata di grande utilità.
C’era qualcosa di bizzarro nell’aspetto dei robot sospesi nel vuoto, all’esterno. Avevano un rivestimento scintillante. Sembrava ghiaccio, solo che aveva una forma ben definita soltanto sulle loro superfici anteriori e sgocciolava all’indietro con orli frastagliati e code, come i colori di un artista diventati solidi sulla tavolozza. Le due figure erano sicuramente solide. Le loro martellate sul portello... ma, un momento... La fragile porta non cedeva. Gli assassini metallici avevano i movimenti impediti e rallentati dalla rete argentea con cui lo spazio fantastico li aveva avvolti. Quando cercarono di aprirsi un varco per penetrare, quella sostanza soffocò i raggi dei laser, e annullò le cariche di esplosivo che i robot cercarono di lanciare. Dopo aver tentato di tutto, si allontanarono, spingendosi di roccia in roccia per tornare dalla loro madre metallica, indossando la sostanza argentea come cappucci di penitenza. Lui gridò al loro indirizzo insulti di soddisfazione Pensò anche di aprire il portello e sparare. Poi pensò che sarebbe stato soltanto un inutile spreco di munizioni. Nel fondo della sua mente aveva concluso che era molto meglio, nella presente situazione, non pensare al tempo. Non vide ragione di polemizzare con quella decisione, e presto perse la cognizione delle ore, dei giorni... forse delle settimane.
Tenne il corpo in esercizio e si fece regolarmente la barba, e mangiò, e bevve. Il sistema di rigenerazione funzionava perfettamente. A bordo c’era anche un apparecchio che gli avrebbe permesso di ibernarsi, ma no, grazie, non era ancora il momento. Nei suoi pensieri la possibilità di salvezza era un misto di speranza e di paura del tempo.
Sapeva che quando era finito lì non esistevano scafi in grado di raggiungerlo e farlo uscire da quello spazio matto. Ma se avesse resistito per qualche settimana, o mese, mentre all’esterno trascorrevano diversi anni... Sapeva di essere importante per molte persone importanti che avrebbero fatto ogni tentativo di salvarlo, se appena fosse stato possibile.
Dal timore che l’aveva quasi paralizzato, passò a uno stato di esaltazione, e poi arrivò la noia. La mente aveva le sue preoccupazioni, e si staccò da tutti gli stupefacenti miracoli eterni. Dormì, a lungo.
In un sogno si vide in piedi nello spazio. Si vide da lontano e la sua figura appariva poco più di un punto. Con un braccio appena visibile, il lui del sogno fece un cenno di saluto e si allontanò, per dirigersi verso le stelle biancoazzure e scomparve nella profondità...
Si svegliò con un grido. Uno scafo spaziale si era affiancato alle sua bolla di cristallo e dondolava a pochi metri di distanza. Era un ovoide metallico, di un modello che lui conosceva, e i numeri e le lettere dipinte sullo scafo gli erano familiari.
Ce l’aveva fatta! Era riuscito a resistere. La brutta avventura era finita.
Il portello dello scafo di salvataggio si aprì, e due figure in tuta apparvero, una dopo l’altra, uscendo dalla cabina. Immediatamente le due figure divennero una macchia d’argento, come i due robot degli inseguitori, ma lui poteva vedere le facce degli uomini attraverso la visiera. Tenevano gli occhi fissi su Karlsen. E gli sorridevano incoraggianti, senza staccare lo sguardo nemmeno per un istante.
Bussarono al portello e continuarono a sorridergli mentre lui indossava la tuta. Ma non fece nessun movimento per farli entrare. Prese invece la pistola.
I due corrugarono la fronte. All’interno degli elmetti le loro bocche formarono la parola: « Aprite! ». Accese la radio. Forse loro stavano trasmettendo, ma a lui non giunse niente dallo spazio. Loro continuavano a guardarlo.
« Aspettate » segnalò sollevando una mano. Prese una tavoletta e una penna, dalla poltrona, e scrisse un messaggio. « Guardate per un attimo lo spettacolo che vi circonda ».
Era sano, ma forse loro pensavano che fosse pazzo. Quasi per schernirlo, cominciarono a guardarsi attorno. Una nuova serie di teste di drago si stava sollevando oltre il temporalesco orizzonte ai confini del mondo. I due uomini, con la fronte corrugata, guardarono i draghi lontani, la sega lucente che girava tutt’attorno, guardarono verso il basso, nelle spaventose profondità dell’inferno, e verso l’alto, alle velenose punte biancoazzurre delle stelle che scivolavano nel vuoto.
Poi tutti e due, sempre corrugando la fronte senza comprendere, tornarono a fissare Karlsen.
Sedeva nella poltrona, stringendo la pistola in mano, e aspettava. Sapeva che lo scafo degli inseguitori doveva avere a bordo degli scafi di salvataggio, e che il nemico era in grado di costruire macchine a forma d’uomo, sufficientemente ingannevoli.
Le due figure che stavano all’esterno produssero una loro tavoletta. « Abbiamo sorpreso gli inseguitori alle spalle. Tutto bene. Non c’è più pericolo. Uscite ».
Si guardò alle spalle. La nuvola di polvere sollevata dagli spari delle inutili armi degli inseguitori si era sparsa nascondendo la zona alle spalle di Karisen. Se solo avesse potuto credere che quelli erano davvero uomini...
Fecero degli energici gesti di incitamento, poi scrissero qualcos’altro. « L’astronave è dietro la nuvola. È troppo grande per mantenersi a lungo in questo livello ». E poi ancora: « Karlsen. venite con noi!!! È la vostra sola possibilità di salvezza!!! »
Non volle più leggere i loro messaggi, per paura di lasciarsi convincere, e cadere nelle braccia metalliche che l’avrebbero ucciso. Chiuse gli occhi, e cominciò a pregare.
Riaprì gli occhi dopo molto tempo. I “salvatori” e il loro scafo erano scomparsi.
Non molto dopo... così gli parve... da dietro la nuvola che nascondeva gli inseguitori, si sollevarono dei lampi. Un combattimento con qualcuno che aveva portato delle armi capaci di funzionare in quello spazio? O un altro tentativo di ingannarlo? Aspettò.
Osservò attentamente uno scafo di salvataggio, molto simile al primo, uscire dalla nuvola e avanzare verso di lui. Arrivato accanto alla sua bolla, si fermò. Altre due figure in tuta uscirono, e subito furono avvolte dal drappo argenteo.
Questa volta aveva già la sua scritta pronta. « Guardate per un attimo lo spettacolo che vi circonda ».
Quasi per schernirlo, cominciarono a guardarsi attorno. Forse pensavano che fosse pazzo, ma lui era sanissimo. Dopo circa un minuto non erano ancora tornati a girarsi verso di lui... Uno dei due alzò la faccia per osservare le incredibili stelle, mentre l’altro si girava lentamente a guardare le teste di drago che scomparivano. Lentamente si irrigidirono nel terrore, e si strinsero alla sua bolla di vetro.
Karlsen aprì il portello.
— Benvenuti, uomini — disse nell’interfono. Fu costretto ad aiutare uno dei due a risalire sullo scafo di salvataggio. Ma ce l’avevano fatta!
Nessun commento:
Posta un commento