sabato 9 settembre 2023

Ambrose Bierce: La strada al chiar di luna, 1893


1. Dichiarazione di Joel Hetman junior

Sono l’uomo più sfortunato. Ricco, rispettato, un’ottima cultura e una salute di ferro, e molti altri pregi generalmente apprezzati da quelli che li possiedono e disprezzati da quelli che non li possiedono. A volte penso che se mi avessero rinnegato sarei stato meno infelice, perché in questo modo i conflitti tra la mia vita intima e quella esteriore non richiederebbero una continua e dolorosa attenzione.
Forse la privazione estenuante e il bisogno di reagire riuscirebbero a distogliere la mia attenzione da quell’oscuro segreto, oltremodo intricato dalle congetture che ne derivano.
Sono l’unico figlio di Joel e Julia Hetman. Mio padre era un uomo di campagna con una buona educazione, mia madre una bella e affascinante fanciulla cui lui era legato da una passione che ora posso definire col nome di morbosa ed esclusiva devozione.
La dimora di famiglia, che si trovava a poche miglia da Nashville, nel Tennesee, era una casa molto grande costruita in modo irregolare e dallo stile architettonico imprecisato, posta in un parco di alberi e arbusti, vicino alla strada.

All’epoca della mia narrazione avevo diciannove anni ed ero studente all’Uni-versità di Yale. Un giorno ricevetti un telegramma da mio padre, urgente a tal punto che non appena lessi quel misterioso messaggio partii da casa.
Alla stazione di Nashville trovai ad attendermi un nostro lontano parente e da lui appresi la ragione della mia chiamata: si trattava di mia madre, che era stata barbaramente assassinata, senza che nessuno potesse avanzare congetture sul nome del colpevole e sulle ragioni del suo gesto. Mi accingerò ora ad esporre le circostanze.
Mio padre era partito per Nashville con l’intenzione di ritornare la sera seguente, ma siccome un oscuro impedimento non gli aveva permesso di condurre a termine i suoi affari, fu costretto a ritornare la sera stessa, dopo il tramonto.
Nella testimonianza che fornì al coroner spiegò che, non avendo con sé le chiavi e non volendo disturbare la servitù che già dormiva, era passato, senza un’intenzione ben precisa, sul retro della casa. Appena ebbe girato l’angolo, sentì il rumore di una porta che veniva chiusa piano, mentre nell’oscurità intravide la sagoma di un uomo, che dopo pochi istanti spariva in mezzo agli alberi del giardino.
Dopo un breve inseguimento e una rapida occhiata alla zona circostante, credendo che l’intruso fosse l’occasionale visitatore di una cameriera cui le cose non erano andate per il verso giusto, entrò dalla porta che trovò senza catenaccio e salì le scale verso la camera di mia madre. La porta era aperta e avanzando faticosamente nel buio cadde, inciampando in qualcosa di pesante che si trovava sul pavimento. Ch’io possa a questo punto risparmiarmi i dettagli: si trattava del corpo esanime della mia povera madre, morta strangolata!
Niente nella casa era stato toccato, i domestici non avevano udito nessun rumore e, a parte quegli orrendi graffi sul collo della donna – Dio mio! Se potessi dimenticarli! – l’assassino non aveva lasciato nessuna traccia.
Rinunciai ai miei studi, per rimanere al fianco di mio padre che naturalmente era molto provato. Se ne stava sempre tranquillo e taciturno, era caduto in un profondo stato di depressione dal quale niente riusciva a distoglierlo. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, un passo, lo sbattere improvviso di una porta, nulla riusciva a risvegliare in lui un benché minimo interesse o, perlomeno, uno stato di inquietudine.
A volte sembrava visibilmente sensibile alla scoperta dei sensi e diventava pallido, ma poi si rilassava improvvisamente in una sempre più profonda malinconica apatia. Penso si potesse definire col nome di “relitto vegetale”.
Per quanto mi riguarda, invece, la giovinezza mi rendeva superficiale e apparentemente forte e solo il passare del tempo mi avrebbe reso più maturo.
La gioventù era segnata dal servizio alla patria, in cui c’era conforto per ogni ferita. Ah! se potessi trovarmi di nuovo a combattere in quella terra incantata! Incosciente del dolore, non avrei saputo valutare il mio cordoglio; non sarei stato in grado di giudicare appieno la forza delle mie ferite.
Una notte, pochi mesi dopo il terribile evento, mio padre ed io stavamo tornando a casa dalla città. La luna piena si trovava a tre ore di distanza dall’orizzonte orientale; l’intera campagna era circondata dalla quiete solenne di una notte estiva, i nostri passi e il rumore incessante delle cavallette erano gli unici suoni distinguibili nelle vicinanze. Le ombre scure degli alberi attraversavano la strada e, stando in mezzo alla via, davano l’impressione di riflettere di una luce bianca come se fossero spiriti.
Quando ci avvicinammo al cancello della nostra abitazione, la cui facciata rimaneva nascosta nell’ombra e in cui non s’intravedeva nessuna luce, mio padre si fermò improvvisamente e, stringendomi il braccio, disse in un fil di fiato:
— Oh, mio Dio! Che cos’è?
— Non sento niente — risposi.
— Ma guarda, guarda là! — disse indicando la strada proprio davanti a noi.
Replicai: — Non c’è niente. Forza, padre, rientriamo in casa, siete ammalato.
Aveva lasciato il mio braccio e stava lì in piedi, rigido e irremovibile al centro della strada illuminata, fissando qualcosa, come una persona priva di sensi. Il suo viso al chiar di luna appariva pallido e fisso, inespressivamente contratto. Gli tirai piano la manica, ma aveva dimenticato la mia esistenza. All’improvviso cominciò a indietreggiare, passo dopo passo, non distogliendo lo sguardo neppure per un attimo da quello che vedeva o che credeva di vedere.
Mi girai un attimo intorno senza riuscire a prendere una decisione. Non ricordo di aver provato nessun senso di paura, se non un brivido di freddo improvviso, a livello di manifestazione fisica. Avevo come l’impressione che un vento gelido sfiorasse il mio viso e penetrasse tutto il mio corpo, riuscivo a percepirlo dai capelli.
In quel momento la mia attenzione fu catturata da una luce che si era improvvisamente accesa e che proveniva da una finestra superiore della casa. Uno dei domestici, probabilmente svegliato da un’oscura premonizione del male ed ubbidendo ad un impulso indefinibile, aveva acceso una luce.
Quando mi girai di nuovo verso mio padre, vidi che era sparito, e durante tutti gli anni che passarono neanche un sussurro sul suo destino riuscì a oltrepassare le frontiere della congettura dal regno del mistero.

2. Dichiarazione di Caspar Grattan

Oggi, a quanto dicono, sono vivo; domani, in questa stessa stanza, giacerà una sagoma di ceneri priva di vita che molto tempo fa apparteneva a me. Se qualcuno alzasse il lenzuolo dal viso di quella cosa spiacevole, avrebbe gratificato un puro senso di morbosa curiosità. Alcuni, senza dubbio, andrebbero oltre e si chiederebbero: — Chi era?
In questo scritto fornirò la sola risposta ch’io sia in grado di dare. “Caspar Grattan”. Certamente anche un nome ha la sua importanza.
Questo nome ha servito per più di vent’anni una vita di incerta lunghezza. È vero, sono stato io a darmelo, ma visto che non ne possedevo altri, avevo pur il diritto di scegliermene uno. È necessario avere un nome a questo mondo, serve a evitare che si faccia confusione anche se non rispecchia la vera identità. Tuttavia, alcuni vengono riconosciuti dai numeri, che danno anche l’impressione di inadeguate distinzioni. Per illustrare meglio il concetto, farò un esempio.
Un giorno mi trovai a camminare lungo la strada di una città lontana da qui, quando incontrai due uomini in uniforme, uno dei quali, quasi fermandosi e guardandomi con curiosità, disse al suo compagno: — Quell’uomo assomiglia al 767.
Quel numero aveva per me qualcosa di famigliare e di terribile.
Mosso da un impulso incontrollabile, mi buttai in una via secondaria e corsi attraverso una via di campagna.
Come potrei dimenticare quel numero, mi torna sempre alla memoria con sprazzi d’insensate oscenità, frastuoni di amare risate, il rumore della porte di ferro. Per
questo sostengo che un nome, anche se scelto arbitrariamente da noi stessi, è meglio di un numero. Almeno sul registro del “campo delle ceramiche” li avrò entrambi. Che ricchezza!
A colui che rinverrà questo scritto, chiedo di avere un po’ di considerazione. Non è la storia della mia vita; non ho il dono dello scrittore. È solo un ricordo, formato da frammenti di memorie apparentemente disconnessi, alcuni dei quali chiari e logici come perle su un filo, altri remoti e strani, da sembrare sogni rossi con interspazi vuoti e neri, come i fuochi delle streghe che s’innalzano statici e rossi in un clima di grande desolazione.
Stando sulla spiaggia dell’eternità, mi giro a dare un ultimo sguardo verso la terra da cui provengo. Ci sono le orme di vent’anni che si distinguono abbastanza chiaramente e danno l’impressione di piedi che sanguinano. Conducono alla povertà e al dolore, devianti ed insicuri, come qualcuno che barcolla sotto il peso della responsabilità.
Remoto, nemico, malinconico, lento.
Ah, la profezia del poeta sull’io, ammirevole, terribilmente ammirevole!
Ritornando indietro all’inizio di questa via dolorosa, quest’epica di sofferenze con episodi peccaminosi, tutto mi è oscuro; esce da una nuvola.
So che dura solo vent’anni, ora sono un uomo anziano. Una persona, di solito, non si ricorda della propria nascita, le viene raccontata da altri. Ma per me è stato diverso; la vita è venuta da me a piene mani e mi ha dotato di tutte le mie facoltà e i miei poteri.
Di una mia precedente esistenza non ne so più di altri, poiché noi tutti non possediamo altro che dei timidi indizi che possono essere ricordi o sogni. So solo di essere stato per la prima volta consapevole della mia maturità, fisica e mentale, consapevolezza accettata senza sorprese o congetture.
Semplicemente mi trovai a camminare in una foresta, mezzo nudo, con i piedi doloranti, stanco e affamato.
Alla vista di una fattoria, mi avvicinai per chiedere qualcosa da mangiare e mi fu dato da qualcuno che chiese anche il mio nome. Non sapevo ancora che tutti avevano un nome. Mi ritirai molto imbarazzato, per rifugiarmi in una foresta a passare la notte.
Il giorno dopo entrai in una grande città che non dovrei nominare, non dovrei nemmeno raccontare dei successivi incidenti della vita che ora sta giungendo al termine, vita di vagabondaggio, sempre e dovunque ossessionato da un senso travolgente di crimine per punire gli errori e da un senso di terrore per punire il crimine. Vediamo se riesco a raccontarlo.

Sembra che una volta io vivessi in una grande città, prospero piantatore sposato a una donna che amavo e di cui non mi fidavo. A quanto pare avevamo anche un figlio, un giovane brillante e promettente. Ma era sempre una figura vaga, mai chiaramente delineata, frequentemente al di fuori della scena.
Una sera sfortunata mi capitò di mettere alla prova la fedeltà di mia moglie in modo volgare e comune, familiare a chi conosce la narrativa reale e quella fantastica. Andai in città, dicendo a mia moglie che mi sarei assentato fino al pomeriggio seguente. Ritornai prima di sera e passai dal retro della casa, con l’intenzione di entrare da una porta da me segretamente manomessa in modo da sembrare chiusa a chiave anche se in realtà non lo era.
Appena mi avvicinai udii un rumore, come se l’uscio si stesse aprendo lentamente per poi richiudersi, dopodiché vidi qualcuno allontanarsi furtivamente nel buio. Con tutta la mia sete di vendetta, feci un balzo dietro la figura ma era già svanita senza lasciare tracce sulla sua identità.
A volte ora non sono nemmeno sicuro che si trattasse di un essere umano.
Impazzito dalla rabbia e dalla gelosia, cieco e bestiale in preda alle passioni più meschine che possano appartenere al genere umano, entrai in casa salendo in fretta le scale e arrivai alla porta della camera di mia moglie. Era chiusa, ma avendo manomesso anche la sua serratura, riuscii a entrare facilmente e nonostante il buio potei raggiungere il letto.
Toccandolo con le mani riuscii a capire che, sebbene sfatto, nessuno vi stava dormendo. — È di sotto — pensai — terrorizzata dalla mia presenza ha cercato di sfuggirmi nell’oscurità del corridoio.
Col proposito di cercarla mi girai per lasciare la stanza ma nella direzione sbagliata; anzi quella giusta! Il mio piede la colpì, se ne stava accucciata in un angolo della stanza.
Le mie mani furono subito sul suo collo, soffocandole l’urlo; le mie ginocchia erano sopra il suo corpo che lottava e nel buio senza parole d’accusa o di rimprovero la strangolai finché non fui sicuro che era morta!
Qui finisce il sogno. L’ho raccontato al passato, ma la forma più giusta sarebbe il presente, poiché l’oscura tragedia rivive sempre più nella mia coscienza.
Infinite volte riorganizzo il piano, soffro della conferma, rimedio allo sbaglio. Poi il vuoto, dopodiché la pioggia che batte contro i vetri sporchi, o la neve che cade sui miei miseri abiti, le ruote scorrono veloci su queste squallide strade che mi vedono povero e disoccupato.
Se mai v’è stato il sole, non lo ricordo; se vi sono uccelli, non cantano. C’è un altro sogno, un’altra visione della notte. Mi vedo in piedi tra le ombre di una strada al chiar di luna. Sono consapevole di un’altra presenza, ma non posso stabilirne l’identità. Nelle ombre di una grande casa intravedo il luccichio di una veste bianca, poi la figura di una donna, osteggiata davanti a me, mia moglie assassinata!
Il suo viso è la maschera della morte, il suo collo è pieno di segni; gli occhi fissi sui miei con infinita gravità, che non è un rimprovero, né odio, né minaccia, né qualsiasi altra cosa meno terribile del riconoscimento.
Davanti a questa orrenda visione mi ritiro terrorizzato, terrore che s’impadronisce di me anche mentre scrivo. Non riesco neanche ad esprimermi.
Guarda! Loro.
Ora sono calmo, ma a dir la verità non c’è più nulla da raccontare: l’incidente termina dove è cominciato, nel buio e nell’incertezza. Ora riesco a controllarmi: «sono il capitano della mia anima». Ma non si tratta di respiro è un altro stadio e una fase di espiazione.
La mia pena, sempre costante, sta mutando nella forma: una delle sue varianti è la tranquillità. Dopo tutto è solo una sentenza di vita «condannato all’inferno per tutta la vita».
Questa è una paura folle: il colpevole sceglie la durata della propria funzione.
Oggi il mio termine scade.
Auguro a ognuno e a tutti la pace che non fu mia.

3. Dichiarazione dell’anziana Julia Hetman attraverso il medium Bayrolles

Mi ero ritirata presto, per cadere quasi subito in un pacifico sonno dal quale mi svegliai con quell’indefinibile segno di pericolo che penso sia un’esperienza comune, in quell’altra precedente vita.
Anche del suo carattere insignificante, ne ero interamente persuasa, anche se non contribuiva a renderlo uomo. Mio marito Joel Hetman era via e la servitù dormiva in un’altra ala della casa. Ma queste condizioni erano del tutto normali; prima non mi avevano mai preoccupato. Ciò nonostante cresceva sempre più in me uno strano terrore talmente insopportabile che, vincendo la mia riluttanza a muovermi, mi sedetti e accesi la lampada di fianco al letto.
Contrariamente alle mie aspettative non servì a rassicurarmi; la luce sembrava risaltare pericolosamente, e capii che lo spiraglio si sarebbe visto al di là della porta, rilevando la mia esistenza a una qualsiasi presenza demoniaca che si stesse aggirando nei dintorni.
Voi che siete ancora in carne ed ossa, soggetti agli orrori dell’immaginazione, pensate a quale tremenda paura dev’essere quella di cercare sicurezza nel buio dalle malefiche presenze della notte. Significa dover cercare di eludere una presenza invisibile. La strategia della disperazione!
Vedendo che la luce si stava estinguendo mi coprii il viso con la vestaglia e stavo lì tremante e silenziosa, incapace di gridare e dimenticandomi di pregare. Devo essere rimasta in questo stato pietoso per il tempo che voi chiamereste ore, da noi non vi sono ore, non esiste il tempo.
Alla fine sentii provenire dalle scale un silenzioso e irregolare suono di passi. Erano lenti, esitanti, incerti come di qualcuno che non vedeva dove camminava. Per lo stato di confusione in cui mi trovavo, cieca e senza ragione, non c’era niente di terrificante a cui non si poteva fare appello.

Pensai persino di aver lasciato la lampada dell’ingresso accesa e l’avanzare brancolante di questa creatura provava che era un mostro della notte. Tutto ciò apparve sommesso e non in rapporto con il mio precedente terrore della luce, ma che cosa avreste pensato? La paura non conosce la ragione, è stupida. Spinge le persone ad agire in modo irrazionale e vile.
Lo sappiamo bene noi, noi che siamo passati nel Regno del Terrore nascosti nel buio eterno tra le scene delle nostre precedenti vite, invisibili anche a noi stessi e tra di noi, abbandonati in luoghi solitari ansiosi di parlare con i nostri cari, che sono sordi, e allo stesso tempo temendoli come loro ci temono.
A volte l’incapacità viene rimossa, la legge sospesa: con il potere mortale dell’odio o dell’amore rompiamo l’incantesimo, siamo visti da chi vorremmo avvisare, consolare o punire. In quale forma appariamo ai loro occhi non saprei; sappiamo solo che spaventiamo anche quelli che vorremmo confortare e dai quali desidereremmo simpatia e calore.
Vi prego, dimenticate questa digressione illogica da parte di colei che fu una donna. Voi che ci chiedete consiglio in questo modo imperfetto, voi non capite. Ci fate strane domande su cose sconosciute e su cose previste. La maggior parte di ciò che conosciamo e che potremmo impartire nei nostri discorsi non ha significato per i vostri. Dobbiamo comunicare con voi attraverso un’intelligenza infantile in quella piccola frazione del vostro linguaggio che voi riuscite a capire. Pensate che noi facciamo parte di un altro mondo. Vi sbagliate, non conosciamo altri mondi se non il vostro, sebbene per noi non vi sia la luce del sole, il calore, la musica, le risate, il cinguettio degli uccellini o l’amicizia. Oh, mio Dio! che strana situazione è per noi essere fantasma; umiliati e tremanti in un mondo alterato, una preghiera di apprensione e disperazione!
No, non sono morta di paura. La Cosa si girò e se ne andò via. La sentii mentre scendeva le scale, in fretta, pensai come se anche lei avesse paura. Poi mi alzai per chiamare aiuto. A fatica la mia mano riuscì a trovare la maniglia della porta quando, per mia disgrazia, la sentii ritornare. I suoi passi mentre risaliva le scale erano rapidi, pesanti e rumorosi; facevano tremare la casa. Scappai in un angolino e mi rannicchiai sul pavimento.
Cercai di pregare, tentai d’invocare il nome del mio caro marito. Poi udii la porta aprirsi all’improvviso. Ci fu un intervallo di incoscienza, e quando riuscii a riprendermi sentii una stretta alla gola che mi soffocava, le mie braccia colpivano debolmente qualcosa che mi spingeva forzatamente indietro, la lingua mi usciva fuori dalla bocca! Poi passai in questa vita.
No, non avevo idea di cosa si trattasse. Tutto quello che conoscevo nel momento della nostra morte significava conoscere più tardi tutto quello che viene prima. Di questa esistenza conosciamo molte cose, ma nessuna luce nuova viene gettata sulle sue pagine; nella memoria è scritto tutto ciò che possiamo leggere.
Qui non vi sono cime di verità sovrastanti il paesaggio confuso di quel campo irto di dubbi. Stiamo ancora lottando nella Valle delle Ombre, ci nascondiamo nei suoi luoghi solitari, scrutando dai rovi e dai boschetti i suoi abitanti pazzi e maligni. Come potremmo avere nuove conoscenze di quel passato sbiadito?
Quello che sto per raccontare accadde una notte. Sappiamo che è notte perché voi
di solito vi ritirate nelle vostre case e così possiamo avventurarci, dai nostri luoghi occultati, senza timore attorno alle vostre vecchie case, guardare attraverso le finestre e persino entrare e scrutarvi mentre dormite. Ho vagato a lungo nelle vicinanze dell’abitazione da dove sono passata a questa vita in modo così crudele, come di solito si fa se qualcuno che amiamo oppure odiamo è rimasto. Invano avevo cercato qualche modo per manifestarmi e far capire a mio marito e a mio figlio la mia continua esistenza, il mio grande amore e la mia immensa pietà.
Ogni volta poteva succedere che si svegliassero e, se presa dalla disperazione avessi pensato di avvicinarmi a loro nella veglia, mi avrebbero guardato con quel terribile sguardo della persona umana, facendomi abbandonare lo scopo.
Quella notte li cercai; in casa non c’erano, neanche al tramonto della luna. Perché sebbene il sole per noi sia perso per sempre, la luna, piena o parzialmente visibile, è rimasta anche da noi. A volte splende di notte, a volte splende di giorno, ma sempre nasce e tramonta, come nell’altra vita.
Quella notte dunque lasciai il prato per muovermi nella luce bianca e nel silenzio lungo la strada, sofferente e senza speranza. Improvvisamente sentii la voce del mio povero marito, in un’esclamazione di stupore, e quella di mio figlio che lo rassicurava e lo dissuadeva; stavano lì nell’ombra, vicini, così vicini! I loro volti erano rivolti a me, gli occhi dell’uomo più anziano fissi sui miei.
Mi aveva visto, finalmente, finalmente mi aveva visto!
Mentre me ne rendevo conto, il terrore mi abbandonava come in un sogno crudele al risveglio. L’incantesimo della morte si era spezzato.
L’Amore aveva conquistato la Legge!
Pazza di gioia gridai. Poi, riprendendo il controllo, camminai per andargli incontro, sorridente e consapevole della mia bellezza, per offrirmi alle sue braccia, confortarlo con tenerezza e, con la mano in quella di mio figlio, suggerire parole che avrebbero restaurato i vecchi legami tra i vivi e il morto.
Il suo viso si fece bianco dalla paura, i suoi occhi sembravano quelli di un animale braccato. Più mi avvicinavo e più lui indietreggiava, per poi girarsi e fuggire nel bosco, dove nemmeno io lo so.
Al mio povero figlio, rimasto solo e incerto, non riuscii a rivelare la mia presenza. Ma, anche lui, presto, dovrà passare a questa Vita Invisibile e rimarrà con me per sempre.

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