sabato 16 settembre 2023

Mary Shelley: Il mortale immortale, 1833


16 luglio 1833 – Questo per me è un anniversario memorabile; oggi compio il mio trecentoventitreesimo anno di età!
L’Ebreo Errante?... Certamente no. Più di diciotto secoli sono passati sopra la sua testa. In confronto a lui io sono un Immortale molto giovane.
Ma, dunque, io sono davvero immortale? Questa è la domanda che mi sono posto giorno e notte, da trecento e tre anni, e ancora oggi non posso rispondere. Proprio oggi ho scoperto tra i miei capelli bruni una ciocca di capelli grigi, questo è certo un segno di decadimento. Eppure, è possibile che sia rimasta nascosta per trecento anni... poiché vi sono persone i cui capelli sono incanutiti prima dei vent’anni.
Racconterò la mia storia, e il lettore giudichi al mio posto. Racconterò la mia storia e riuscirò a far passare qualche ora di una lunga eternità, ormai così tediosa per me... Per sempre! Può essere? Vivere per sempre! Ho sentito parlare d’incantesimi in cui le vittime erano immerse in un sonno profondo, per risvegliarsi centinaia d’anni dopo, sempre giovani e fresche; i Sette Dormienti, ad esempio... Così, essere immortali non dovrebbe risultare, poi, troppo gravoso. Ma – oh! – il peso del tempo che non finisce mai... il faticoso trascorrere delle ore, che non cessano mai di susseguirsi, una dopo l’altra! Com’era felice la favolosa Nourjahad! Ma... al lavoro, adesso!
Tutti hanno sentito parlare di Cornelio Agrippa. Il suo ricordo è immortale come le sue arti, che hanno creato me. Tutti hanno anche udito del suo allievo il quale, inconsapevolmente, destò l’immondo demone durante l’assenza del suo maestro, e ne fu distrutto. Il racconto, vero o falso, di questo incidente, fu divulgato, e creò gravi angustie al famoso filosofo. Subito tutti i suoi discepoli lo abbandonarono, i suoi servi fuggirono. Non restò nessuno accanto a lui, per aggiungere carbone al suo fuoco sempre acceso mentre dormiva, o ad osservare i colori sempre mutevoli dei suoi preparati chimici mentre studiava. Gli esperimenti uno dopo l’altro fallivano, perché un solo paio di mani non era sufficiente a completarli: gli spiriti delle tenebre lo deridevano per non essere stato capace di trattenere un solo mortale al suo servizio.
Allora io ero molto giovane, molto povero... e molto innamorato. Da circa un anno ero uno dei discepoli di Cornelio Agrippa, anche se ero assente quando capitò l’incidente. Al mio ritorno, i miei amici m’implorarono di non ritornare nella dimora dell’alchimista. Tremai, mentre ascoltavo la spaventosa storia che mi raccontarono. Non mi fu necessario un secondo avvertimento; e quando Cornelio venne e mi offrì una borsa piena d’oro perché ritornassi sotto il suo tetto, provai la sensazione che fosse Satana in persona a tentarmi. I miei denti batterono, mi si rizzarono i capelli... e corsi via con tutta la velocità concessami dalle ginocchia tremanti.
I miei passi titubanti mi condussero, dopo una corsa affannosa, al luogo dov’erano stati attratti ogni sera, negli ultimi due anni: una sorgente d’acqua pura soavemente gorgogliante, accanto alla quale sostava una fanciulla dai capelli bruni, i cui occhi raggianti fissavano il sentiero che ogni sera avevo l’abitudine di percorrere. Non riesco a ricordare un’ora sola in cui io non abbia amato Bertha; le nostre case erano vicine, ed eravamo compagni di giochi fin dall’infanzia; i suoi genitori, come i miei, conducevano un’esistenza umile ma onesta; il nostro reciproco affetto era stato fonte di gioia per loro. Bastarono poche ore, un tragico giorno, e una febbre maligna le ghermì sia il padre che la madre, e Bertha fu orfana. La mia famiglia era pronta ad accoglierla, a darle una nuova casa, ma, sfortunatamente, la vecchia signora del vicino castello, ricca e senza figlie, dichiarò la sua intenzione di adottarla. Da allora, Bertha indossò vesti di seta, abitò in un palazzo di marmo, e fu considerata da tutti la più fortunata delle fanciulle. Ma anche nella sua nuova condizione, tra gente diversa, Bertha restò fedele agli amici dei suoi giorni più umili. Visitò spesso la casa di mio padre, e quando le fu proibito di recarvisi, s’inoltrava nel bosco e m’incontrava accanto all’ombrosa sorgente.
Bertha dichiarava spesso di non dover nulla alla sua nuova protettrice, la cui generosità rispondeva a un preciso dovere umano. Io, tuttavia, ero ancora troppo povero per sposarmi, e lei cominciava a stancarsi di esser tormentata per causa mia. Aveva uno spirito altero, ma impaziente, e s’incolleriva di fronte agli ostacoli che impedivano la nostra unione. Quel giorno c’incontravamo dopo una lunga assenza da parte mia; Bertha era stata crudelmente angariata e si lamentò amaramente. Quasi m’incolpò di esser povero. Replicai senza riflettere:
«Io sono onesto, anche se povero!... Se non lo fossi, potrei diventar ricco in fretta!»
Questa esclamazione provocò mille domande. Non volevo sconvolgerla, dicendole la verità, ma lei riuscì ugualmente a farmi confessare. Mi rivolse uno sguardo sprezzante, e disse: «Sostieni di amarmi, e hai paura di affrontare il Diavolo per me!»
Protestai che avevo avuto soltanto paura di offenderla... mentre invece lei pensava soltanto alla cospicua ricompensa che mi sarei guadagnato. Così, mi svergognò e riuscì a infondermi coraggio. Guidato soltanto dall’amore e dalla speranza, ridendo delle mie recenti paure, con passo rapido e cuor leggero, ritornai dall’alchimista e accettai le sue offerte; subito fui installato al mio posto.
Passò un anno. Mi arricchii di una considerevole somma di denaro. L’abitudine aveva bandito le mie paure. Nonostante la mia più attenta vigilanza, non trovai la più piccola traccia di un piede fesso; né il deliberato silenzio della nostra dimora fu mai disturbato da urla demoniache. Continuai ad incontrarmi di nascosto con Bertha, e la speranza si riaffacciò sulla mia vita – la Speranza con la S maiuscola – ma non la gioia perfetta, poiché Bertha era convinta che la certezza fosse nemica dell’amore e il suo piacere consisteva nel mantenerli divisi dentro il mio petto. Anche se il suo cuore era sincero, si comportava come una civetta, ed io m’ingelosivo come un turco. Mi faceva mille torti, ma non volle mai ammettere il suo errore. Poteva farmi impazzire per la rabbia, e poi costringermi a chiederle perdono. A volte pensava che io non fossi abbastanza remissivo, e allora tirava fuori la storia di un rivale, favorito dalla sua protettrice. Era circondata da giovani vestiti di seta, ricchi e spensierati. Quali possibilità aveva mai, di fronte a loro, il discepolo squallidamente abbigliato di Cornelio Agrippa?
Giunse il momento in cui il filosofo mi chiese una tale porzione del mio tempo, che non mi fu più possibile incontrarla come invece avrei voluto. Cornelio era impegnato in qualche ossessiva ricerca, ed io fui costretto a restare al suo fianco giorno e notte, a riempire le sue fornaci e ad osservare i suoi preparati chimici. Bertha mi attese invano alla fontana. Il suo spirito altero s’infiammò, davanti a una simile trascuratezza; e quando alla fine riuscii a sgusciar fuori durante quei pochi minuti che mi erano concessi per riposare, sperando di esser consolato da lei, Bertha mi accolse con disprezzo, e congedandomi mi schernì, giurando che qualsiasi uomo avrebbe potuto avere la sua mano, ma non colui che non riusciva a trovarsi contemporaneamente in due luoghi diversi, per amor suo. Si sarebbe vendicata! E, in verità, lo fece. Nel mio cupo ritiro, seppi che era andata a caccia accompagnata da Albert Hoffer.
Albert Hoffer era il favorito della sua protettrice, e tutti e tre passarono cavalcando davanti alla mia finestra fumosa. Qualcuno fece il mio nome, cui seguì una risata di scherno, mentre i suoi occhi scuri si giravano sprezzanti a fissare la mia dimora. La gelosia, con tutto il suo veleno e il suo tormento, si insinuò nel mio petto. Ora, versai un torrente di lagrime al pensiero che non avrei mai potuto chiamarla mia, e di tanto in tanto lanciai mille imprecazioni contro la sua incostanza. Tuttavia, dovetti continuare ad alimentare i fuochi dell’alchimista, e occuparmi ancora dei mutamenti dei suoi incomprensibili preparati.
Cornelio vegliò per tre giorni e tre notti, senza chiudere occhio. Il progredire dei suoi alambicchi era più lento di quanto si fosse aspettato, ma nonostante la sua ansietà, il sonno gli appesantiva le palpebre. Ancora, e ancora, allontanò il torpore con un’energia superumana; ancora, e ancora il torpore prendeva il sopravvento sui suoi sensi. Osservava i suoi crogioli con occhi pieni di desiderio. «Non è ancora pronto», mormorava. «Sarà forse necessaria un’altra notte, prima che il lavoro sia finito? Winzy, tu sei attento – e fedele – e soprattutto hai dormito, ragazzo mio, hai dormito la scorsa notte. Guarda quel vaso di cristallo. Il liquido che contiene è di un delicato color rosa: nell’istante in cui comincerà a cambiar colore, svegliami... Fino a quando non accadrà, potrò chiudere i miei occhi. Dapprima diventerà bianco, poi comincerà ad emettere lampi dorati. Ma non aspettare fino a quel momento; non appena il colore rosato sbiadirà, corri a destarmi.» Udii appena le ultime parole, poco più di un borbottio assonnato. Ma ebbe un ultimo guizzo di ribellione alla natura: «Winzy, ragazzo mio», disse ancora, «non toccare quel vaso, non portarlo alle tue labbra. È un filtro, un filtro contro il mal d’amore... E se tu vuoi continuare ad amare la tua Bertha, stai attento, e non berlo!»
E si addormentò. La sua testa venerabile si piegò sul petto, e udii appena il suo respiro regolare. Per qualche minuto fissai il vaso. Il colore rosato non cambiò. Poi, i miei pensieri cominciarono a vagare, visitarono la sorgente, e si soffermarono su mille incantevoli scene che non si sarebbero mai più ripetute... mai più! Serpenti e vipere si contorcevano nel mio cuore, mentre la parola “Mai!” continuava a formarsi sulle mie labbra. Crudele fanciulla! Falsa e crudele! Non mi avrebbe mai sorriso, come aveva fatto quella sera ad Albert. Donna detestabile e vana! Per nulla al mondo avrei rinunciato a vendicarmi – avrebbe visto Albert esalare l’ultimo respiro ai suoi piedi – lei stessa sarebbe morta. Aveva sorriso, piena di disprezzo e trionfante, pur conoscendo la mia infelicità e il suo potere. Ma qual era, infine, il suo potere? Quello
di eccitare il mio odio... il mio completo disprezzo... il mio... oh, tutto, esclusa l’indifferenza. Ma anche questa sarei riuscito a conseguire, e avrei potuto guardare Bertha con occhio distratto, dedicando il mio amore a un’altra donna più bella e sincera... Questa sarebbe stata la mia vittoria!
Un lampo balenò davanti ai miei occhi. Mi ero dimenticato del vaso di cristallo! Fissai la misteriosa sostanza del filosofo con occhi sgranati per lo stupore: scintille di meravigliosa bellezza, più luminose dello sfavillio di un diamante colpito dai raggi del sole, sprizzavano dalla superficie del liquido; un profumo, una soave fragranza soverchiarono i miei sensi. Il vaso si trasformò in un globo di splendore vivente, meraviglioso per l’occhio e irresistibile per il palato. Il mio primo pensiero – suggerito dal mio più basso istinto, lo confesso – fu: Devo berlo! Sollevai il vaso alle mie labbra. «Mi guarirà dal mio amore, dalla mia tortura!» Avevo già inghiottito una buona metà della più deliziosa bevanda che fosse mai stata assaporata dal palato di un uomo, quando Cornelio si mosse. Sussultai, lasciai cadere il vaso... il liquido fiammeggiò e lampeggiò spargendosi sul pavimento, mentre la mano del filosofo mi avvinghiava la gola, e la sua voce risuonava, terribile: «Disgraziato! Hai distrutto il lavoro di tutta la mia vita!»
Il filosofo non si era minimamente accorto che io avevo bevuto una buona parte della sua pozione. Era convinto – ed io vi consentii, conservando il silenzio – che avessi preso in mano il vaso di cristallo spinto dalla curiosità e, spaventato dall’improvviso lampeggiare, lo avessi mandato a frantumarsi sul pavimento. Mi guardai bene dal disingannarlo. Il fuoco della misteriosa sostanza si estinse, la fragranza svanì, Cornelio Agrippa si calmò, come un filosofo doveva fare, appunto, di fronte alle prove più dure, e mi congedò.
Non mi sforzerò di descrivere il sonno glorioso e benedetto che lavò la mia anima in un bagno paradisiaco durante le ore che ancora restavano di quella notte memorabile. Le parole darebbero soltanto un’impressione debole e superficiale della mia gioia, e della felicità che s’impadronì del mio spirito quando mi svegliai. Camminavo sulle nuvole, i miei pensieri erano ai sette cieli. La terra mi sembrava il paradiso ed io ne respiravo ogni delizia. «Ecco quel che significa esser guariti dall’amore» pensai. «Vedrò Bertha oggi stesso; scoprirà che il suo innamorato è gelido e indifferente, troppo felice per mostrarsi sprezzante, e tuttavia completamente insensibile nei suoi confronti.»
Le ore passarono danzando. L’alchimista, sicuro di aver avuto successo una volta, e convinto di poterlo ripetere, ricominciò a concuocere i suoi intrugli. Si tappò in casa con i suoi libri e le sue droghe, e a me concesse una vacanza. Mi abbigliai con cura; mi guardai in un antico scudo lucidato che mi serviva da specchio, e giudicai il mio aspetto splendidamente migliorato. Mi affrettai fuori delle mura della città con la gioia nell’anima, il cielo e la terra meravigliosi intorno a me. M’incamminai verso il castello, contemplai le sue torri altere a cuor leggero, poiché ero guarito dall’amore. La mia Bertha mi vide da lontano, mentre avanzavo lungo il viale. Non so quale improvviso impulso abbia animato il suo petto, ma alla mia vista, leggera come una cerbiatta, si precipitò giù per i gradini di marmo e si affrettò verso di me. Ma un’altra persona mi aveva visto: la nobile e vecchia megera, che si definiva sua protettrice ma in realtà era la sua tiranna. Attraversò, zoppicando e ansimando, il viale; un paggio, orrendo come lei, le teneva sollevato lo strascico, facendole vento mentre si affannava. La vecchia obbligò la mia bella fanciulla a fermarsi, esclamando imperiosa: «Dove vai, mia audace donzella, così velocemente? Torna nella tua gabbia... ci sono falchi in giro!»
Bertha congiunse le mani, i suoi occhi fissavano ancora la mia figura che si avvicinava. Vidi la lotta. Come aborrii la vecchia strega che frenava i dolci impulsi del cuore della mia Bertha! Fino a quel giorno, il rispetto che portavo al suo rango aveva fatto sì che evitassi la signora del castello; ora, sdegnai considerazioni così banali. Ero guarito dall’amore, e al di sopra di tutte le umane paure; accelerai il passo, e presto le raggiunsi. Com’era adorabile la mia Bertha! I suoi occhi lampeggiavano, le sue guance erano accese d’impazienza e di rabbia; era mille volte più incantevole di quanto la ricordavo. Non l’amavo più – oh, no! – l’adoravo, la veneravo, l’idolatravo!
Quella mattina Bertha era stata tormentata con accresciuta veemenza, perché acconsentisse all’immediato matrimonio col mio rivale. Le era stato rimproverato l’incoraggiamento nei suoi confronti, e vi era stata aggiunta la minaccia di scacciarla dal castello, marchiata dalla sventura e dalla vergogna. Il suo spirito orgoglioso si era ridestato, battagliero, a quella minaccia; ma quando aveva ricordato il disprezzo che aveva ostentato nei miei confronti, e il fatto che, in tal modo, con tutta probabilità aveva perduto colui che considerava il suo unico amico, era scoppiata in lagrime per il rimorso e la rabbia. In quell’istante, io ero comparso nel viale. Quando giunsi al suo fianco, «Oh, Winzy!» Esclamò. «Portami nella casa di tua madre, fai che io abbandoni subito il lusso detestabile e l’infelicità di questa nobile dimora... Dammi la povertà e la gioia.»
La strinsi tra le mie braccia, con grande trasporto. La vecchia dama restò senza parole per il furore, ed esplose in invettive quando ormai eravamo lontani, sulla strada della casupola in cui ero nato. Mia madre accolse la bella fuggitiva, che aveva rinnegato la sua gabbia dorata, con naturalezza e semplicità, tenerezza e gioia. Mio padre, che le voleva un gran bene, le aprì il cuore. Fu una giornata felice, che non ebbe certo bisogno dell’aiuto della misteriosa pozione dell’alchimista per immergermi nella delizia.
Subito, dopo questo giorno straordinario, feci di Bertha la mia sposa. Non fui più il discepolo di Cornelio, ma continuai ad essergli amico. Sentivo della gratitudine per lui, per avermi procurato, in consapevolmente, quella deliziosa sorsata del magico elisir il quale invece di guarirmi dall’amore (triste cura! rimedio solitario e senza gioia per un male che si trasfigura in beatitudine nel ricordo), mi aveva infuso coraggio e determinazione, consentendomi così di conquistare il più ambito tesoro.
Ricordo spesso con meraviglia quel periodo di ebbrezza, simile a un dolce delirio. La pozione di Cornelio non aveva assolto al compito per cui il filosofo affermava di averla preparata, ma i suoi effetti erano più potenti e deliziosi di quanto sia possibile esprimere a parole. Sfumavano gradualmente, eppure li sperimentai per lungo tempo, e tingevano la vita di colori splendenti. Bertha spesso si meravigliava della mia allegria, della mia insolita gaiezza, poiché prima di allora ero stato piuttosto serio di carattere, perfino triste. Mi amava ancor di più per il mio temperamento ridente, e i nostri giorni volavano sulle ali della felicità.
Cinque anni più tardi fui improvvisamente convocato al capezzale di Cornelio, morente. Mi aveva mandato a chiamare in tutta fretta, invocando la mia immediata presenza. Lo trovai disteso sul suo pagliericcio, debolissimo e in punto di morte; tutta la vita che ancora gli restava si concentrava nei suoi occhi penetranti, e questi erano fissi su un vaso di cristallo colmo di un liquido rosato.
«Guarda», mi disse con un sottile filo di voce, «considera la vanità dei desideri umani! Per la seconda volta le mie speranze erano sul punto di venir coronate, e per la seconda volta sono distrutte. Guarda quel liquido, ricordi che cinque anni fa ne ho preparato uno uguale, con l’identico successo? E allora, come adesso, le mie labbra assetate bramavano di assaporare l’elisir immortale... ma tu lo frantumasti! E ora è troppo tardi.»
Parlava con difficoltà, e ricadde sul cuscino. Non potei fare a meno di replicare: «Com’è possibile, riverito maestro, che una pozione contro il mal d’amore possa ridarti la vita?»
Un debole sorriso gli illuminò il volto, mentre avidamente pendevo dalle sue labbra per cogliere il suo confuso farfugliare.
«Una cura per l’amore e per tutte le cose... l’Elisir dell’Immortalità. Ah, se ora potessi berne, vivrei per sempre!»
Mentre parlava, un lampo dorato riverberò dal fluido; una fragranza che ricordavo fin troppo bene si sparse nell’aria. Cornelio si rizzò a sedere, per quanto fosse debole. La forza sembrò miracolosamente rinascere nel suo corpo... tese la mano, e una violenta esplosione mi fece sobbalzare. Un raggio di fuoco scaturì dall’elisir, e il vaso di vetro che lo conteneva si disintegrò completamente! Girai gli occhi verso Cornelio: era ricaduto supino... i suoi occhi erano vitrei, i lineamenti irrigiditi. Era morto!
Ma io ero vivo, e sarei vissuto per sempre! Così aveva detto lo sfortunato alchimista, e per alcuni giorni credetti alle sue parole. Ricordavo la gloriosa ebbrezza seguita a quella sorsata furtiva. Riflettei sul cambiamento che aveva impresso al mio corpo... alla mia anima. Mi contemplai allo specchio, e non riuscii a cogliere alcun mutamento nei miei lineamenti, dopo cinque anni da quel giorno. Ricordai i colori radiosi e il soave profumo di quel delizioso infuso, esso ben valeva il dono! Io ero, quindi, IMMORTALE!
Qualche giorno più tardi, risi della mia credulità. Il vecchio proverbio “nemo propheta in patria” era senz’altro vero per quanto riguardava me e il mio defunto maestro. L’avevo amato come uomo – l’avevo rispettato come saggio – ma ridevo all’idea che potesse comandare ai poteri delle tenebre, e mi facevo beffe delle paure superstiziose del volgo. Era un uomo saggio, un filosofo, ma non aveva nessun rapporto con gli spiriti, se non quelli rivestiti di carne e sangue. La sua scienza era soltanto umana; e la scienza umana, me ne convinsi molto presto, non avrebbe mai potuto dominare le leggi della natura fino al punto d’imprigionare per sempre un’anima nella sua dimora di carne. Cornelio, a furia di cuocere e ricuocere, aveva ottenuto una pozione per rinfrescare lo spirito, più inebriante del vino, dolce e più fragrante di qualunque frutto. Possedeva, probabilmente, energiche doti medicamentose, e aveva impartito gioia al mio cuore e vigore ai muscoli. Ma i suoi effetti si sarebbero affievoliti; già stavano diminuendo, nel mio stesso corpo. Ero stato fortunato a poter bere una sorsata di salute e di spirito gioioso, e a garantirmi,
forse, una lunga vita, grazie al mio maestro. Ma la mia fortuna terminava qui: la longevità era una cosa molto diversa dall’immortalità.
Continuai ad accarezzare quest’idea per molti anni. A volte un pensiero s’insinuava nella mia mente... L’alchimista si era veramente ingannato? Ma quasi sempre ero convinto che anch’io sarei andato incontro al destino di tutti i figli di Adamo, quando fosse giunto il mio momento... un po’ più tardi, magari, ma sempre a un’età naturale. Eppure, questo era certo: il mio aspetto restava meravigliosamente giovane. Mi deridevano per la mia vanità, perché consultavo così spesso lo specchio, ma lo consultavo invano, la mia fronte era senza rughe, le mie guance, i miei occhi, tutta la mia persona restava intatta, come quando avevo vent’anni.
Ero preoccupato. Vidi appassire la bellezza di Bertha; sembravo quasi suo figlio, ormai. Un po’ alla volta, i miei vicini cominciarono a fare le stesse considerazioni, e alla fine scoprii che mi chiamavano il “discepolo stregato”. Anche Bertha divenne inquieta, gelosa e irritabile, e qualche tempo dopo cominciò a farmi delle domande. Non avevamo figli, eravamo tutto, l’uno per l’altra, e anche se, man mano invecchiava, il suo spirito vivace sprofondò nel cattivo umore, e la sua bellezza tristemente sfiorì, io, nel mio cuore, la vedevo sempre identica alla donna che avevo idolatrato, la moglie che avevo cercato e conquistato con un amore così perfetto.
Ma, alla fine, la nostra situazione divenne intollerabile. Bertha aveva cinquant’anni... io ne mostravo, sempre, venti. La vergogna mi aveva spinto ad adottare ugualmente – entro certi limiti – le abitudini dei più anziani. Non mi mescolavo più allegramente alle danze con i più giovani, ma il mio cuore ballava insieme a loro, mentre tenevo a freno i piedi, ed ero una ben dolorosa figura tra i Nestori del nostro villaggio. Ma prima del tempo di cui ho parlato, le cose cambiarono – tutti presero ad evitarci; fummo – o almeno, io fui tacciato di aver mantenuto un’iniqua connivenza con alcuni dei presunti amici del mio antico maestro. La povera Bertha fu compatita, ma ugualmente disertata, da tutti. Io fui guardato con orrore e odio.
Che cosa dovevamo fare? Sedevamo accanto al fuoco in inverno – la povertà aveva invaso la nostra esistenza poiché nessuno voleva più comperare i prodotti della mia fattoria, e spesso ero stato costretto a viaggiare per venti miglia, fino a qualche località dove non mi conoscevano, per vendere i frutti della mia terra. È vero, avevamo messo da parte qualcosa per i giorni brutti – ma quei giorni erano giunti.
Sedevamo accanto al nostro focolare solitario, il giovane dal cuore vecchio e la sua moglie sfiorita. Ancora una volta Bertha insistette per conoscere la verità; mi ricapitolò tutto quello che aveva sentito dire di me, un anno dopo l’altro, e aggiunse le sue osservazioni personali. Mi scongiurò di liberarmi dall’incantesimo; mi descrisse quanto più sarebbero piaciuti al mondo i capelli grigi, piuttosto che quelle orribili ciocche castane; si diffuse sulla reverenza e il rispetto dovuti ai vecchi, e sottolineò quanto fossero preferibili alla superficiale benevolenza che si riservava ai fanciulli: immaginavo forse che il disprezzabile dono della giovinezza e della bellezza valessero la sventura, l’odio, il disprezzo? No, alla fine sarei stato bruciato sul rogo, come un adepto della magia nera, mentre lei, con la quale non mi ero degnato di spartire neppure una briciola della mia fortuna, forse sarebbe stata perfino lapidata come mia complice. Giunse infine a insinuare che avrei dovuto dividere il segreto con lei, e accordare anche a lei gli stessi benefici di cui godevo, oppure mi avrebbe denunciato... e quindi scoppiò in lagrime.
Poiché il tormento l’affliggeva a tal punto, decisi che era meglio dirle la verità. Gliela rivelai con la maggior delicatezza possibile, e parlai soltanto di una vita molto lunga, non dell’immortalità, del resto, questo era molto più vicino alle mie stesse convinzioni. Quand’ebbi finito, mi alzai e dissi:
«Ora, mia Bertha, sei pronta a denunciare l’innamorato della tua giovinezza?... Non lo farai, lo so. Ma è troppo duro per te, povera moglie mia, soffrire a tal punto per la mia infelice fortuna e per le arti malefiche di Cornelio. Ti lascerò, hai con te di che vivere senza patir la fame, e durante la mia assenza gli amici ritorneranno da te. Me ne andrò via; giovane come sembro, e forte come sono, potrò guadagnarmi il pane fra gli estranei, insospettato e sconosciuto. Ti ho amato durante la mia giovinezza; Dio ne è testimone che non ti rinnegherò con gli anni, ma la tua sicurezza e la tua felicità lo rendono necessario.»
Afferrai il berretto e mi diressi alla porta; in un attimo le braccia di Bertha mi circondarono le spalle e le sue labbra furono premute sulle mie. «No, marito mio, mio Winzy!» Gridò. «Non te ne andrai da solo. Portami con te! Lasceremo questo villaggio e, come tu hai detto, tra gente forestiera nessuno ci sospetterà, e vivremo al sicuro. Non sono ancora così vecchia da farti vergognare, mio Winzy, e oso predire che l’incantesimo presto si affievolirà e, con la benedizione di Dio, tu diverrai più anziano anche nell’aspetto, com’è giusto. Tu non mi lascerai.»
Ricambiai di tutto cuore l’abbraccio di quell’anima buona. «Non ti lascerò, mia Bertha; soltanto per il tuo bene non avevo pensato a una simile soluzione. Sarò il tuo vero, fedele marito fino a quando il destino ti conserverà a me, e farò il mio dovere, nei tuoi confronti, fino alla fine.»
Il giorno dopo, ci preparammo in segreto ad emigrare. Fummo costretti a grandi sacrifici finanziari, ma erano inevitabili. Realizzammo comunque una somma sufficiente a sostentarci fino a quando, almeno, Bertha fosse rimasta in vita. Senza dire addio a nessuno, lasciammo il nostro paese natio per rifugiarci in una località remota della Francia occidentale.
Fu crudele strappare Bertha al suo villaggio, allontanarla dagli amici della sua giovinezza, andando a vivere in un diverso paese, con una lingua e costumi diversi. L’assurdo segreto del mio destino fece sì che questo cambiamento fosse del tutto indifferente, per me; ma provavo una profonda compassione per lei, e fui lieto di constatare come riuscisse a trovare una sorta di compensazione con tutta una serie di buffi comportamenti. Lontana dalle pettegole indiscrezioni, cercò di diminuire la grande disparità delle nostre età apparenti con mille artifici femminili, belletto, vesti giovanili, e anche atteggiamenti giovanili. Mi fu impossibile arrabbiarmi. Non portavo io stesso una maschera? Perché disputare con lei, anche se la sua mascheratura era indubbiamente molto meno efficace? Mi addoloravo profondamente, ricordando che quella era la mia Bertha, che avevo amato tanto, e conquistato con uno slancio così generoso... la fanciulla dagli occhi scuri, i capelli bruni, che sapeva sorridere con incantevole malizia e guizzare col suo passo di cerbiatta... e ora quella donna gelosa che sorrideva e camminava con mille affettazioni. Avrei dovuto riverire le sue ciocche grigie, le sue guance avvizzite, ma in queste condizioni... Ed era opera mia, lo sapevo. Ma ugualmente non potevo fare a meno di deplorare queste debolezze umane.
La sua gelosia non si assopiva mai. La sua occupazione principale era quella di scoprire che, nonostante le apparenze esteriori, anch’io invecchiavo. Credo che veramente quella povera anima mi amasse con tutto il suo cuore, ma nessun’altra donna mai aveva escogitato dei modi così tormentosi per esprimere il suo amore. Era pronta a scoprire la più piccola ruga sul mio viso e l’incombere della decrepitezza nel modo in cui camminavo, mentre invece io procedevo con vigore e baldanza, il più giovane tra i giovani del villaggio. Non osai mai guardare un’altra donna. Un giorno, convinta che la bella del villaggio avesse posato i suoi occhi su di me, mi portò a casa una parrucca grigia. Quand’era con le sue conoscenti ripeteva continuamente che, nonostante io sembrassi così giovane, il mio corpo era in avanzata decrepitezza, e affermava che, appunto, il sintomo peggiore era proprio la mia apparente floridezza. Diceva che la mia giovinezza era una malattia, e che io dovevo sempre tenermi pronto, se non a una morte improvvisa e spaventevole, almeno a risvegliarmi un mattino con i capelli bianchi e il corpo incurvato da un’età più che avanzata. Io la lasciavo parlare, anzi, spesso mi associai ai suoi ragionamenti. I suoi avvertimenti echeggiavano in perfetta sincronia con le mie incessanti speculazioni sul mio effettivo stato di salute, ed io con vivo interesse, anche se addolorato, annuivo a tutto quello che la sua fervida ed eccitata fantasia riusciva ad escogitare su questo soggetto.
Perché soffermarsi su questi trascurabili avvenimenti? Continuammo a vivere. insieme per lunghi anni. Bertha fu colta da paralisi e si trovò confinata nel suo letto; io la curai come neppure una madre avrebbe potuto fare per suo figlio. Divenne ancor più irritabile, e continuò a battere sempre sulla stessa corda, per quanto tempo sarei riuscito a sopravviverle. È sempre stata fonte di consolazione, per me, aver soddisfatto scrupolosamente i miei doveri nei suoi confronti. Era stata mia durante la sua giovinezza, era mia durante la vecchiaia. Alla fine, quando ammucchiai le zolle sopra il suo corpo esamine, piansi, perché sentii di aver perduto tutto quello che ancora mi legava all’umanità.
Da allora, quante preoccupazioni, quanti dolori, e quanto poche, e vuote, le mie gioie! Interrompo qui la mia storia, non voglio proseguirla oltre. Un marinaio senza timone né bussola, travolto da un mare in tempesta – un viaggiatore sperduto in una sterminata brughiera, senza pietre miliari né altri punti di riferimento – questa è stata la mia esistenza, più solitario e disperato di entrambi. Le luci di una nave, di una lontana capanna, possono salvare il marinaio o il viandante; ma per me non esiste luce alcuna all’orizzonte, se non la speranza della morte.
La morte! Misterioso amico – dal volto infausto – della debole umanità! Perché, solo fra tutti i mortali, mi hai scacciato dal tuo ovile? Oh, la pace della tomba! Il profondo silenzio della tomba cinta di ferro, e questo pensiero cesserebbe di vibrare nella mia mente, e il mio cuore non batterebbe più all’unisono con lo scandire di emozioni che differiscono soltanto nella loro tristezza!
Sono io, forse, immortale? Eccomi, nuovamente, alla prima domanda. E, per incominciare, non è più probabile che la pozione dell’alchimista fosse più impregnata di longevità che di vita eterna? Questa è la mia speranza. E poi, devo ricordare che ho
bevuto soltanto metà della pozione da lui preparata. Non era forse necessario berla tutta, per completare l’incantesimo? Aver bevuto soltanto metà dell’elisir dell’immortalità significa essere soltanto un mezzo-immortale, il mio per-sempre è quindi destinato a interrompersi, ad annullarsi.
Ma chi può valutare gli anni che rappresentano la metà dell’eternità? Spesso, cerco d’immaginare con quali regole sia possibile dividere l’infinito. A volte mi pare di scoprire, dentro di me, l’avanzare dell’età. Ho trovato, nella mia chioma, un capello grigio. Pazzo! Mi sto lamentando, forse? Sì, la paura dell’età e della morte striscia, gelida, nel mio cuore. Più a lungo vivo, più temo la morte, pur odiando la vita. Tale enigma è l’uomo – nato per perire – quando combatte, come io sto facendo, contro le leggi stabilite dalla natura.
Ma al di fuori di queste anormali sensazioni, sì, io certamente posso morire. La medicina dell’alchimista non può essere efficace contro il fuoco – o la spada – o l’annegamento in acque tumultuose. Ho contemplato le profondità azzurre di molti placidi laghi, e il tumultuoso scorrere di molti fiumi possenti, e mi son detto: la pace alberga tra quelle acque; eppure ho sempre rivolto i miei passi altrove, per vivere un altro giorno ancora. Mi sono chiesto se il suicidio sia veramente un crimine per qualcuno che soltanto in questo modo potrebbe spalancare davanti a sé le porte dell’altro mondo. Ho fatto di tutto, fuorché esibirmi come soldato o duellante, non ho voluto correre il rischio di distruggere i miei... no, non i miei compagni mortali... e perciò vi ho rinunciato. Loro non sono i miei compagni. L’inestinguibile potere di vita del mio corpo, e la loro effimera esistenza, ci separano come i poli del globo terrestre. Non potrei alzare un dito contro il più meschino o il più potente fra loro.
Così, ho continuato a vivere per innumerevoli anni – solo, e stanco di me stesso – bramando la morte, eppure senza mai morire, un mortale immortale. L’ambizione o l’avarizia non riescono ad accendere la mia mente, e l’amore ardente che consuma il mio cuore, senza poter essere mai ricambiato – senza mai trovare un uguale su cui saziarsi – arde soltanto per tormentarmi.
Proprio oggi ho concepito un progetto che potrebbe por fine a tutto – senza uccidermi, senza fare di un altro uomo un Caino – una spedizione alla quale un corpo umano non potrà mai sopravvivere, anche se gratificato dalla giovinezza e dalla forza che albergano in me. Così potrò mettere alla prova la mia immortalità, o trovare il riposo eterno, o ritornare, meraviglia e benefattore della specie umana.
Prima di partire, una miserabile vanità mi ha fatto accostare a queste pagine. Non intendo morire senza lasciare dietro di me un nome. Tre secoli sono passati, dal giorno in cui ho sorseggiato quella bevanda fatale; ma non trascorrerà un altro anno senza che io, affrontando pericoli giganteschi – combattendo le forze del gelo nella loro dimora – tormentato dall’inedia, dalla fatica e dalle tempeste... ceda questo mio corpo, gabbia fin troppo robusta per un’anima assetata di libertà, agli elementi distruttori dell’aria e dell’acqua. Oppure, se sopravvivrò, il mio nome sarà ricordato come uno dei più famosi tra i figli dell’uomo; ma, condotta a termine l’impresa, adotterò dei mezzi più risoluti e, disseminando e annichilendo gli atomi che compongono il mio corpo, restituirò la libertà alla vita in esso imprigionata e tanto crudelmente impedita di ascendere da questa oscura terra verso una sfera ben più congeniale alla sua immortale essenza.

 

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