Le sètte segrete e le confraternite hanno confuso le menti della gente fin dagli albori della loro esistenza e i non iniziati immaginavano che anche il più innocuo ordine potesse praticare i più abominevoli riti. Anche nel diciannovesimo secolo le genti provavano un forte interesse per questi eventi e, di conseguenza, è facile immaginare quanto materiale questi gruppi segreti fornissero ai più avventurosi autori di racconti del terrore appartenenti alla letteratura gotica.
Questo racconto di un membro degli Illuminati, è tratto da una raccolta anonima intitolata Leggende di terrore pubblicata da Sherwood, Gilbert e Piper di Paternoster Row nel 1826. Nell’introduzione l’autore ha fornito alcune note esplicative sulla setta che qui riportiamo: «All’inizio del diciottesimo secolo gli Illuminati, o setta di astrologi, avevano suscitato grande sensazione nel continente. Unendo la filosofa all’entusiasmo, la conoscenza di ogni processo chimico all’astrologia, essi influenzarono notevolmente i sentimenti superstiziosi della gente. In una o due occasioni l’infatuazione fu seguita da conseguenze fatali: ma, in nessun caso, fu così terribile come nel seguente racconto.»
Reginald, l’unico erede dell’illustre famiglia Di Venoni, aveva, fin dalla prima infanzia, un temperamento ardente e selvaggio. Suo padre dicevano fosse morto a causa di una forma di pazzia ereditaria; i suoi amici, notando la misteriosa intelligenza del suo sguardo e la potente energia del suo aspetto, solevano affermare che la terribile malattia era ancora presente nelle vene del giovane Reginald. Inoltre il suo modo di vivere non era tale da allontanare dagli altri ogni dubbio riguardo la sua pazzia. Affidato in giovane età alle cure di sua madre, che dopo la morte del marito era vissuta nel più assoluto isolamento, ebbe poche occasioni per ravvivare o distrarre la sua mente. Il tetro castello in cui risedeva era situato in Swabia, ai margini della Foresta Nera. Era una dimora selvaggia e isolata, costruita, come era di moda a quel tempo, secondo i dettami del macabro stile gotico. Non molto lontano sorgevano le rovine del castello di Rudstein, una volta famoso, e del quale ora rimaneva solo una cadente torre; più in là il paesaggio era delimitato dalle ombre profonde e dai recessi impenetrabili della Foresta Nera.
Questo era il luogo dove fu imprigionata la gioventù di Reginald. Ma la sua solitudine doveva presto essere alleviata dall’arrivo di un inatteso personaggio. Il giorno del suo diciottesimo compleanno un vecchio, apparentemente logorato dall’età e dalle malattie, fissò la sua dimora nella cadente torre di Rudstein. Durante il giorno usciva raramente e, poiché aveva la singolare abitudine di tenere costantemente una luce accesa nella torre, gli abitanti del villaggio conclusero, con buone ragioni, che era un emissario del diavolo. Questa notizia si diffuse alquanto rapidamente e, attraverso i pettegolezzi di un giardiniere, raggiunse l’orecchio di Reginald: questi, incuriosito, decise di andare da lui per conoscere le ragioni del suo singolare isolamento. Lasciò quindi improvvisamente il castello e si avviò verso la torre che si trovava poco distante dalla sua tenuta. Era una notte cupa e lo spirito della tempesta sembrava viaggiare sulle ali del vento. Mentre l’orologio della chiesa del villaggio batteva la mezzanotte, egli raggiunse il rudere; salendo la scala consumata dal tempo e che scricchiolava sotto i suoi passi, raggiunse, a fatica, l’appartamento del filosofo. Spalancò la porta e vide l’uomo seduto presso l’inferriata della finestra. Il suo aspetto era terribilmente impressionante. Una lunga barba bianca gli scendeva dal mento e il suo debole braccio reggeva, con difficoltà, una tavola dell’oroscopo rivolta verso il cielo. Sul pavimento erano sparsi disordinatamente libri scritti con caratteri sconosciuti, esoterici; sul tavolo era posto un vaso di alabastro sul quale erano incise lettere misteriose e i segni dello zodiaco. La sua figura era altrettanto impressionante. Indossava un abito di velluto nero tutto ricamato d’oro e con una fascia d’argento. I suoi riccioli sottili si gonfiavano mossi dal vento e con la mano destra reggeva una bacchetta di ebano. Quando il giovane entrò, egli si alzò e volse verso il viso ansioso di Reginald uno sguardo indagatore.
— Giovane nato sotto cattive stelle — esclamò con un tono cupo — siete venuto a carpire i segreti del futuro? Allontanatevi da me, per la vostra stessa vita, o per ciò che vi è ancora più caro, la vostra felicità eterna! Poiché io vi dico, Reginald Di Venoni, sarebbe meglio che non foste mai nato piuttosto che lasciato a suggellare la vostra rovina in un luogo che in seguito sarà testimone della vostra caduta.
L’astrologo pronunciò queste parole con un volto terrificante ed esse risuonarono nelle orecchie di Reginald come i rintocchi della sua campana a morto. Quindi rispose con voce esitante: — Sono innocente, padre, né la mia indole mi permetterà di compiere i mali che voi dite.
— Ah! — riprese il profeta. — L’uomo è sempre innocente fino al momento della sua dannazione; ma la stella del vostro destino già declina nel cielo e la stirpe della famiglia Di Venoni svanirà con essa. Guardate verso occidente! Quel pianeta che brilla così splendente nel cielo è la stella della vostra vita. Quando la vedrete sfrecciare verso il basso come una meteora attraverso l’emisfero, pensate alle parole del profeta e tremate. Un fatto di sangue sarà perpetrato e voi ne sarete l’artefice!
In quell’istante la luna uscì dalle grigie nubi che si muovevano lentamente nel cielo e diffuse sulla terra la sua pallida luce. A occidente splendeva solo un’unica stella. Era la stella di Reginald. Egli la fissò trattenendo il respiro e la osservò finché le nubi nascosero la sua lucentezza. L’astrologo, intanto, era ritornato presso la finestra e, mentre alzava la tavola dell’oroscopo verso il cielo, il suo corpo sembrò
tremare come in preda a convulsioni. Due volte si passò la mano sulla fronte rabbrividendo mentre osservava il cielo. Quindi disse: — Non mi sono rimasti che pochi giorni sulla terra, poi il mio spirito avrà il riposo eterno della tomba. La stella della mia nascita è fioca e pallida e non risplenderà più e la stella della vecchiaia non conoscerà mai conforto. Andatevene! — continuò allontanando Reginald dalla sua vista. — Non disturbate gli ultimi momenti di un uomo che sta morendo; fra tre giorni, ai piedi di questo rudere, seppellirete il mio cadavere che troverete qui. E ora, via!
Assalito da un riverente timore, Reginald non riuscì a proferire parola. Rimase come incantato; e, solo dopo alcuni istanti, fuggì dalla torre e raggiunse, profondamente turbato, il tetro castello di sua madre.
Allo scadere dei tre giorni Reginald, fedele alla sua promessa, ripercorse il cammino verso la torre. La raggiunse al calar della notte e, tutto tremante, entrò nel fatale appartamento. Vi era un silenzio tombale: ai suoi passi rispondeva solamente un sordo eco. Si udiva il lamento del vento attorno al rudere e il corvo, dalla cima della torre, aveva già iniziato il suo canto di morte. Entrò. L’astrologo era là, come prima, seduto presso la finestra apparentemente immerso in profonde astrazioni e la tavola dell’oroscopo giaceva posata al suo fianco. Timoroso di disturbare il suo riposo, Reginald gli si avvicinò cautamente. L’uomo non si mosse. Incoraggiato da questo inaspettato silenzio, gli si avvicinò e lo guardò in volto. Era ormai cadavere: i resti di ciò che una volta era stata la vita. A quella vista rimase pietrificato dall’orrore, dimenticò la promessa precedentemente fatta e scappò via terrorizzato.
Per molti giorni quel pensiero continuò a tormentarlo. Spesso cadeva in delirio e, durante la sua follia, parlava di uno spirito malvagio che lo aveva visitato durante i suoi sonni. Sua madre era profondamente scossa di fronte a questi evidenti sintomi di pazzia. Ricordava la malattia del marito e implorava Reginald, che le era molto affezionato, affinché partisse per un viaggio per riacquistare la pace del suo spirito: lo voleva convincere a lasciare la casa della sua infanzia. Le insistenze della contessa alla fine prevalsero ed egli lasciò il castello Di Venoni per il clima mite dell’Italia.
Il tempo passava, e le numerose novità del viaggio avevano prodotto in lui un effetto così benefico che non vi erano quasi più tracce del triste giovane Di Venoni di un tempo. Di tanto in tanto la sua mente ritornava cupa, ma le continue distrazioni allontanavano i ricordi passati e lo rendevano tranquillo, per quanto la sua natura glielo permettesse.
Rimase all’estero per diversi anni, scrivendo frequentemente a sua madre che dimorava sempre nel castello Di Venoni e annunciandole, un giorno, la sua intenzione di stabilirsi definitivamente a Venezia. Soggiornava solo da alcuni mesi in quella città, quando, durante l’allegra festa del carnevale, fu presentato, quale nobile straniero, alla bella figlia del doge. Era bella, ben educata e dotata di ogni requisito necessario per assicurare l’eterna felicità. Reginald fu affascinato dalla sua bellezza e conquistato dalla sua intelligenza. Le confessò il suo sentimento ed ella, arrossendo, gli disse che lo contraccambiava. Non restava altro da fare che chiedere la sua mano al doge; ciò fu fatto immediatamente, implorandolo, affinché coronasse la felicità della giovane coppia. La richiesta ebbe successo e la gioia degli amanti fu completa.
Nel giorno fissato per il matrimonio il palazzo ducale di San Marco era affollato
dalle più importanti famiglie veneziane. Tutti vennero per la festa e, alla presenza dei più famosi nobili italiani, Reginald conte Di Venoni ottenne la mano dell’invidiata figlia del doge. La sera venne data a palazzo una festa in maschera, ma i giovani sposi desiderosi di restare soli presto si allontanarono e con la loro gondola si affrettarono al castello preparato per riceverli.
Era una bella notte di luna. I dolci raggi delle stelle illuminavano l’Adriatico d’argento e le note lievi della musica – rese ancora più dolci dalla lontananza – giungevano trasportate dalla brezza che veniva da occidente. Le mille luci che illuminavano le piazze della città si riflettevano sulle onde, e il dolce canto dei gondolieri accompagnava il ritmo degli spruzzi dei loro remi. I cuori degli innamorati erano colmi di felicità e il magico spirito del tempo scorreva, nel loro animo, con tutta la sua dolcezza. Improvvisamente un profondo gemito sfuggì dal cuore colmo di Reginald: guardando verso occidente vide la stella che in quel momento splendeva lucente all’orizzonte e gli ricordò ciò a cui aveva assistito nella torre di Rudstein. I suoi occhi improvvisamente luccicarono come in delirio, ma subito si riempirono di lacrime evitando una fatale conseguenza. Le affettuose carezze della sua giovane sposa riuscirono, in quel momento, a calmare la sua agitazione e a riportare la sua mente alla tranquillità.
Erano trascorsi alcuni mesi dal giorno del matrimonio, e Reginald era felice. Amava Marcelia ed era teneramente ricambiato. A rendere più completa la sua felicità non mancava nulla, tranne la presenza della contessa madre. Le scrisse supplicandola affinché venisse ad abitare con lui a Venezia, ma gli rispose il suo confessore informandolo che sua madre era molto ammalata e necessitava della immediata assistenza di suo figlio. Non appena ricevette questa tristissima notizia si precipitò con Marcelia al castello dei Venoni. Quando arrivò, la contessa era ancora viva e lo accolse con un affettuoso abbraccio. Tuttavia era troppo debole per affrontare l’inattesa visita di suo figlio e spirò proprio mentre lo stringeva tra le sue braccia.
Da quel momento la mente di Reginald piombò nella più profonda depressione. Accompagnò sua madre alla tomba, e sulla via del ritorno, fu visto sorridere senza alcuna ragione. Il Castello dei Venoni, frattanto, aumentava l’innata depressione del suo animo e la vista della torre rendeva la sua fronte sempre più corrugata. Era solito vagare per giorni lontano da casa e quando ritornava, l’imbronciata espressione del suo viso preoccupava la moglie. Marcelia faceva tutto quello che poteva per mitigare il suo tormento ma non riusciva a liberarlo dalla sua malinconia. Talvolta, durante le crisi, la respingeva con violenza: ma nei momenti di dolcezza la guardava come se fosse una dolce visione di felicità svanita.
Una sera, mentre passeggiava con lei lungo le strade del villaggio, la sua conversazione divenne più triste del solito. Il sole stava lentamente tramontando e, sulla via del ritorno, attraversarono il cimitero dove riposavano le ceneri della contessa. Reginald si sedette presso la tomba con Marcelia ed esclamò, raccogliendo alcuni fiori fra l’erba: — O dolce fanciulla, non siete impaziente di raggiungere mia madre? È andata nel mondo dei beati, nella terra dell’amore e del sole! Se siamo già tanto felici in questo mondo, quale sarà il nostro stato di felicità in quell’altro? Uniamoci alla sua gioia e anche la nostra sarà più completa. — Mentre pronunciava
queste parole, i suoi occhi brillavano in delirio e la sua mano sembrava cercare un’arma. Marcelia, spaventata dal suo aspetto, lo allontanò da quel luogo e, tenendolo stretto per mano, lo condusse dolcemente verso casa.
Nel frattempo il sole era tramontato e le stelle della sera erano apparse in tutto il loro splendore. Più luminoso, fra tutte, brillava il fatale pianeta dell’occidente, la stella di Reginald. La osservò con orrore e la indicò a Marcelia.
— La volontà del cielo risiede in essa! — disse fra sé. — E la gloriosa stirpe dei Venoni si sta avvicinando alla fine. — Nello stesso istante gli apparve dinanzi agli occhi la torre diroccata di Rudstein e la luna piena che l’illuminava. — Quello è il luogo — riprese il folle — dove un fatto di sangue dovrà essere compiuto, e io sono colui che dovrà perpetrarlo! Ma non temete, mia povera ragazza! — soggiunse con dolcezza, mentre le lacrime gli salivano agli occhi. — Il vostro Reginald non vi può fare del male, potrà essere una persona perfida, ma non si macchierà mai di colpa! — Con queste parole raggiunse il castello e si sdraiò sul sofà mentre la sua mente era profondamente inquieta.
La notte calò, il giorno spuntò sulle colline attorno e riportò confusione nella mente di Reginald. La giornata era tempestosa all’unisono con i sentimenti del suo animo travagliato. Fin dall’alba si era allontanato da Marcelia e non le aveva fatto alcuna promessa sul suo ritorno. Ma al crepuscolo, mentre stava seduta presso la finestra, suonando all’arpa una melodia veneziana a lei cara, la porta si spalancò e apparve Reginald. Il suo occhio era rosso, in preda alla più tremenda pazzia e tutto il suo corpo scosso da terribili convulsioni.
— Non è stato un sogno — esclamò — l’ho vista e ci ha fatto segno di seguirla.
— Vista chi? — chiese Marcelia allarmata dalla sua agitazione.
— Mia madre — replicò il folle. — Ascoltatemi, mentre vi racconto quello che mi è successo. Mentre stavo vagando nella foresta comparve dinanzi a me una silfide che aveva le sembianze di mia madre, mi precipitai per raggiungerla ma fui trattenuto da un saggio che mi indicava la stella d’occidente. Improvvisamente si udirono grida acute e la silfide prese l’aspetto di un demonio. Divenne sempre più alto fino a raggiungere un’altezza indicibile e, con uno sprezzante sogghigno, indicava voi, sì proprio voi, mia Marcelia. Con rabbia vi trascinò fino a me. Io vi afferrai e vi uccisi mentre cupi gemiti si disperdevano nel vento di mezzanotte. Si udì quindi la voce del diabolico astrologo che sembrava provenire da un ossario: «Il destino è compiuto e la vittima può ritirarsi con onore». Quindi il cielo si oscurò e fitte gocce di viscido e granuloso sangue caddero copiose dalle nubi di occidente diventate improvvisamente nere. La stella sfrecciò nell’aria, di nuovo il fantasma di mia madre mi fece cenno di seguirlo.
Il folle tacque e uscì dall’appartamento in preda a un forte tormento. Marcelia lo seguì e lo trovò in trance appoggiato alla libreria. Con un gesto dolcissimo gli prese la mano e lo condusse fuori. Vagarono noncuranti della tempesta che stava sopraggiungendo, finché si trovarono ai piedi della torre di Rudstein. Improvvisamente Reginald si fermò. Un orrendo pensiero sembrò attraversargli la mente, prese Marcelia fra le sue braccia con possente slancio e la condusse nel fatale appartamento. Invano ella urlava chiedendo aiuto e pietà: — Caro Reginald, è Marcelia che vi parla, non potete farle del male. — Egli la sentiva ma non prestava
attenzione e nemmeno arrestava il suo passo, finché raggiunse la camera della morte. Improvvisamente la sua espressione non fu più violenta, divenne più timorosa, serena come in preda a una pazzia prestabilita. Andò verso la finestra, scrutò il cielo in tempesta. Nubi nere passavano velocemente all’orizzonte e un cupo tuono rimbombava sinistro in lontananza. A occidente la stella fatale era ancora visibile ma la sua lucentezza si andava affievolendo. In questo istante un lampo accecante illuminò tutto l’appartamento, e gettò un fascio di luce rossa su uno scheletro che, quasi ridotto in polvere, giaceva sul pavimento. Reginald l’osservò con terrore e si ricordò dell’astrologo che non aveva seppellito. Si avvicinò a Marcelia e, indicando la luna che saliva nel cielo, esclamò tutto tremante: — Una nube nera si muove nel cielo ma prima che la luna torni ancora a risplendere voi morirete, io vi accompagnerò nella morte e, mano nella mano, giungeremo al cospetto di nostra madre. — La povera ragazza implorava pietà urlando, ma la sua voce si confondeva con i furiosi boati della tempesta. Frattanto la nube avanzava, si avvicinava sempre più: la luce della luna si affievolì, si rabbuiò e, alla fine, il suo splendore scomparve del tutto. Il folle capì che il momento era arrivato e, con un urlo terrificante, si gettò sopra la sua vittima. Con fermezza assassina afferrò la sua gola, mentre la mano impotente di Marcelia e le sue parole soffocate imploravano pietà. Ben presto il sordo rantolo della morte annunciò che la vita era spenta e che l’assassino teneva un cadavere fra le sue braccia. Seguì un breve attimo di lucidità e, durante questo temporaneo recupero delle sue facoltà mentali, Reginald scoprì di essere l’inconsapevole assassino di Marcelia. Quindi la follia, la più profonda follia s’impossessò delle sue facoltà. Scoppiò in una violenta risata, emise urla demoniache che non avevano nulla di umano e, delirando, si lanciò a testa in giù dalla cima della torre.
La mattina seguente i corpi della giovane coppia furono trovati nella stessa tomba. Il fatale rudere di Rudstein esiste ancora: pochi tuttavia vi si recano poiché è considerata la dimora degli spiriti di coloro che lì morirono. Giorno dopo giorno va sempre più sgretolandosi, ormai solo rifugio per i corvi nella notte o per gli animali selvatici della foresta. La superstizione l’ha consacrata a se stessa e la tradizione del paese l’ha trasformata in un orribile ossario. Chi di notte vi passa accanto trema osservandone la desolazione ed esclama allontanandosi: — Questo è sicuramente un luogo dove la colpa può prosperare tranquilla, o il fanatismo può tessere incantesimi per stupire o catturare i suoi seguaci.
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