1.
Volete sentire il racconto della maga e di quel delitto che avvenne da queste parti? Ebbene, lei era una potente maga, questo è certissimo, conosceva una quantità di strane parole e tutto quanto, ma la cosa successe un sacco di tempo fa. Comunque ho raccontato questa storia tante volte che una di più non mi rovinerà.
Forse è meglio cominciare con la ragazzina che avevamo alla fattoria quell’estate. Era una straniera, dell’Ungheria, o Polonia, o Pennsylvania, o un posto simile.
Sui quindici anni. Parecchio tonta. Ma attirava, con quelle treccine bionde, gli occhi azzurri, e un paio di tette davvero ben sviluppate. E aveva un culetto che non ne avevo visti mai di più graziosi. Insomma, mio figlio Jug le mise gli occhi addosso un giorno in cui lei stava curvata a dare il mangime ai polli; era il primo o il secondo giorno che lavorava da noi, mi pare, e quello fu il giorno in cui Jug divenne uomo, si potrebbe dire.
Il fatto era che lui non sapeva come fare. Per tutti i diavoli, aveva appena quattordici anni. Sapeva soltanto che, quando lei stava accosciata a quel modo, con l’abito teso sul sedere perché davanti le serviva da sacchetto di mangime, sentiva un che nei jeans, come per magia. Non sapeva il perché.
Ma la sensazione c’era. E allora che fece? Si avvicinò lemme lemme alla ragazza, la guardò dritta negli occhi e si sbottonò. — Guarda qui — le disse. — Ne hai mai visto uno simile a questo prima?
Be’, lei non seppe che dire. Spalancò la bocca come un escavatore a cucchiaia. D’altronde non spiccicava quasi una parola d’inglese. E fuggì.
Ma fuggì nella direzione sbagliata. Andò verso la stalla. Quello fu il grande sbaglio. Io rimasi in casa tutto il tempo, a bere caffè in cucina, ma la sentii anche da lì. Squittiva come un maiale infilzato.
Ma i due, dopo quella volta, andarono avanti come una casa in fiamme.
La madre di Jug, povera donna, era morta dandolo alla luce.
Le volevo un gran bene, io. E sepolta là, nel pascolo dietro la fattoria, sotto il grande olmo viscido. Jug l’ho allevato io.
Forse è per questo che è venuto su così selvaggio, senza una madre a ingentilirlo, a insegnargli le buone maniere. Jug non era il suo vero nome. Io lo chiamavo così per via delle orecchie a sventola che lo facevano somigliare a una brocca [appunto jug in inglese. N.d.R.].
Un giorno la ragazza di servizio venne da me e, con quel suo pessimo inglese, mi disse che non riusciva quasi più a lavorare, Jug le ruotava sempre attorno. Parlai al ragazzo, ma lui disse: — Pa’, quando la vedo che mi passa accanto con quel vestitino leggero, le gambe tutte nude, e il resto, il maledetto coso s’irrigidisce come la coda di una moffetta, e non c’è nulla che posso fare se non afferrare la ragazza e darglielo.
Proprio in quel momento lei passò davanti alla finestra con un secchio, e visto come sculettava, compresi cosa intendesse mio figlio.
Era una mattina freddina, e i suoi capezzoli sporgevano dalla stoffa come un paio di proiettili da fucile.
— Tu va’ subito a dar da mangiare ai maiali — dissi a lui — e io parlerò con la ragazza.
Lui se ne andò e io me ne andai. Dietro alla ragazza. La raggiunsi alla pompa e le dissi di riposarsi un poco, di venire con me in casa a prendere un caffè.
Era seduta là in cucina a bersi il caffè, e io cominciai a pensare alla mia vita, a come ero solo.
Continuavo a guardare quelle sue gambe dritte e levigate da quindicenne. Quelle tette. Quei suoi occhi azzurri e tonti.
— Bambina — dissi — penso che potresti fare un bagno. — Lei fu d’accordo. Le scaldai dell’acqua sulla stufa e le riempii la grande tinozza proprio lì, in mezzo alla cucina. Le dissi di togliersi quel vestito. In principio non voleva, ma poi dovette pensare che poteva fidarsi di me perché ero come un padre o giù di lì; dovetti sembrarle un vecchio. Così se lo tolse, e per Giuda, che corpo aveva. Quasi non riuscivo a crederci. Le dissi di entrare nell’acqua, poi presi un bel pezzo di sapone scuro e mi inginocchiai accanto alla tinozza per insaponarla nel modo migliore. Le lavai la schiena, le lavai la parte anteriore. Le lavai le gambe. E a quel punto ero quasi pazzo.
Quando uscì dall’acqua, tutta lucida e bagnata e odorosa di sapone, non mi trattenni più. Lì, sul pavimento della cucina, su un telo di spugna, la pompai, e devo dirvi che era come una prugna matura e morbida, tutta calda di sole e così piena di dolci succhi quando la spacchi nel mezzo.
Era passato molto tempo da quando avevo avuto una donna, e fu tutto finito in un baleno.
Dopo l’avvolsi nel telo e la portai su in camera dove lo rifeci, lentamente e comodamente.
Naturalmente questo non risolse il problema. Anzi lo complicò. Lei, invece di averne uno, ora ne aveva due che le correvano dietro. Ogni qualvolta non la scopava Jug, lo facevo io. Per la verità non se ne lamentava, ma non sbrigava più il lavoro. La fattoria stava andando in malora. Non che fosse una gran fattoria. Pochi acri di terra.
Veramente era di mia moglie che l’aveva ereditata dal padre, e poi quando lei era morta, era tornata a me. Ma, come ho detto, stava andando in malora. L’aratura era trascurata a causa di un altro tipo di aratura. I maiali divennero così magri che pensammo di macellarli per pietà e farne pancetta e prosciutto prima che dimagrissero ancora. Pareva che non ci fosse mai il tempo per alimentarli. Jug e io eravamo troppo esauriti, sempre. Ma con il ragazzo fui deciso.
— Jug — gli dissi un giorno — va’ fuori e mungi la mucca. Poi attacca il cavallo all’aratro. E c’è anche una quantità di fieno che deve essere rimosso con il forcone. E...
— Pa’ — disse — tu sei tutto suonato. Se qui c’è del lavoro che va fatto, allora ce lo dovremo spartire. Non ho nessuna intenzione di spezzarmi la schiena stando là fuori tutto il giorno mentre tu servi la ragazza.
— Figliolo, parla con rispetto a tuo padre.
— Ah, piantala, pa’, non rifilarmi queste stronzate.
Be’, ci dividemmo il lavoro, come lui disse. E facemmo anche il lavoro della ragazza. Non ci parve giusto farla sgobbare mentre si prendeva tanta buona cura di noi nell’altro modo. Naturalmente, siccome non lavorava più, smettemmo di pagarla. Ma lei non se ne preoccupò. In fondo lì aveva vitto e alloggio. Cucinava per noi, questo sì. Ed era una cuoca peggiore di Jug, che è tutto dire. Ma sapevamo di non doverci lamentare... e mangiavamo quel che ci preparava.
Un giorno ricevemmo la visita del predicatore, il reverendo Simms. Alto, ossuto, con un occhio strabico, tutto vestito di nero. Più o meno della mia età. Aveva una moglie con una faccia come quella di George Washington sul biglietto da un dollaro. Ma quel giorno l’aveva lasciata a casa, sia ringraziata la provvidenza.
Arrivò sul suo vecchio macinino scoppiettante e traballante, verso sera, mentre io ero seduto sulla veranda posteriore a fumare la pipa e a guardare il sole rosso all’orizzonte.
— Fratello Taggott — mi disse.
— Buona sera, reverendo — risposi.
— Circolano strane voci — disse. — Sembra che vi siate preso una ragazzetta straniera qui alla fattoria.
— Sì, è vero. Viene dalla Pennsylvania, o un posto simile.
— Bene, fratello, lo dico senza offesa perché so che siete un uomo religioso, ma vedete, la cosa può non sembrare corretta. Voglio dire, qui non avete altre donne che si prendano cura della ragazza. Solo voi e vostro figlio. E vostro figlio, be’, si sta avvicinando all’età in cui noterà la ragazza. E lei è qui, tutta sola alla fattoria, con voi due uomini, nessuno a proteggerla, a dirle ciò che è bene e ciò che è male.
— Cosa pensate che dovremmo fare, reverendo?
— La ragazza è minorenne. Appartiene all’orfanotrofio della contea. La metteranno a lavorare là e le insegneranno i princìpi morali.
— E come faranno? Non sa quasi spiccicare una parola d’inglese.
— Le insegneranno anche quello, fratello Taggott, è il solo modo appropriato. Mia moglie mi ha dato l’idea e io ho constatato che lei non sbaglia mai in questioni di moralità e decenza.
— Bene, reverendo — dissi — penso che voi e vostra moglie abbiate ragione.
— Mi fa piacere che pensiate così.
— Però c’è una cosa, la ragazza potrebbe non desiderare di andare all’orfanotrofio. Star qui le piace.
— Questo non importa. È per il suo bene.
— Lo so. Ma come faccio a spiegarglielo? Non parla quasi l’inglese e in più è tonta come una capra.
— La fede muove le montagne, fratello.
— Amen. Sapete, penso che siate più adatto voi a parlare con lei.
— Buona idea.
— Voglio dire, siccome siete un uomo del clero e tutto quanto.
— Giusto, fratello. D’accordo. Se volete gentilmente accompagnarmi da lei, sistemerò subito la faccenda.
— Entrate, reverendo. — Lo feci passare in cucina e gli versai una tazza di caffè. — Sedetevi un minuto, reverendo, e io vado a dirle che siete qui.
Ebbene, la trovai di sopra in camera da letto a riposarsi e glielo dissi meglio che potei, del reverendo e dello scopo della sua visita.
Vedete, non era del tutto vero che non parlasse l’inglese; quando Jug e io la conoscemmo meglio, riuscimmo a capirci un poco, lei imparando qualche parola d’inglese e noi qualche parola della sua lingua, e in più usando il linguaggio dei gesti; così facevamo conversazione abbastanza bene. Le feci intendere qual era l’idea del predicatore e poi tornai in cucina.
— La trovate di sopra, reverendo, vi aspetta. È tutta vostra.
— Grazie, fratello Taggott. Siete molto discreto a questo riguardo.
— Desidero solo fare quel che è giusto.
E lui se ne andò su.
Ci rimase una mezz’ora. Quando ridiscese, la ragazza non era con lui.
— Non viene con voi? — dissi.
— Fratello Taggott — rispose — le vie del Signore sono misteriose.
— Amen.
— Un bambino ci guiderà.
— È la verità del Vangelo.
— Quella semplice, innocente bambina di sopra mi ha insegnato nel suo modo incolto che c’è una legge più elevata della legge umana. È la legge di Dio, ed è la legge dell’Amore.
— Alleluia.
— Ora la legge umana dice che la bambina appartiene all’orfanotrofio. Ma può un freddo istituto come quello offrirle amore? Può darle il semplice calore umano che ottiene qui, nella vostra casa?
— Sicuramente no — risposi.
— Giusto, fratello. Non può. E perciò ho deciso che la bambina resti qui, sotto la vostra guida.
— Come volete, reverendo.
— Ma devo porre una condizione.
— Quale?
— È ben vero che voi potete provvedere alla maggior parte delle sue necessità.
Una casa. Un riparo dalle tempeste. Cibo per il suo corpo. E quell’importantissimo amore di cui ho appena accennato. Ma una cosa non potete procurarle, fratello Taggott, l’assistenza religiosa. Perciò dico che concederò alla ragazza di restare qui con voi, purché io possa venire a farle visita, in privato, come suo consigliere spirituale. Vogliamo fare una volta alla settimana?
— Che ne direste del venerdì sera, subito dopo cena?
— Sarà perfetto. Sì, proprio perfetto.
Ma mentre usciva dalla porta, mi venne in mente una cosa e dissi: — Reverendo? Come la mettiamo con la signora Simms?
— A lei ci penso io — rispose, e se ne andò.
Dopo le cose filarono lisce come l’olio, per un poco. Io e Jug eravamo felici. La ragazza non si lamentava. Ogni venerdì, puntuale dopo l’ora di cena, arrivava il reverendo che si portava la ragazza da qualche parte e le impartiva i suoi consigli spirituali per una ventina di minuti, o giù di lì. La vita scorreva come acqua di ruscello.
Poi un giorno la signora Simms giunse alla fattoria sul solito macinino. Si fermò proprio dove ero io e mi guardò dritto negli occhi.
Ecco, non voglio dire che fosse brutta. Ma quella sua faccia sarebbe andata bene a un uomo. Per una donna era sbagliata.
— Signor Taggott — disse. Aveva una voce come Dewey Elgin, il basso che cantava nel coro della chiesa.
— Signora — dissi.
— Questa piccola a cui mio marito dà consigli spirituali...
— Sì, signora.
— Desidero vederla.
— Perbacco, certo. Vi conduco subito da lei.
La donna scese dalla vecchia auto e mi seguì mentre mi dirigevo verso casa. Ero un tantino preoccupato di quel che avrebbe visto là. Se la ragazza fosse stata di sopra con Jug, niente di male perché avrei avuto il tempo di fare allontanare Jug dall’altra porta e farla mettere bene in ordine prima che la moglie del reverendo le puntasse gli occhi addosso. Ma se fosse stata affaccendata in cucina, a lavare i piatti o a pulire i fornelli, poteva anche essere completamente nuda, capite.
Aveva preso l’abitudine di girare per casa senza niente addosso, per buona parte del tempo. In fondo non la biasimo.
Non meritava neppure far la fatica di mettersi un vestito, visto come funzionavano le cose tra lei, Jug e me.
Mi affrettai a salire sulla veranda posteriore e da lì in cucina, distanziando la signora Simms. Ma era tutto a posto. La ragazza era vestita. Aveva persino le scarpe. Mi chiesi dove le avesse pescate, finché mi ricordai che quelle erano scarpe di mia moglie. Le aveva comprate una volta in città.
D’un rosso brillante, con tacchi di circa cinque centimetri e aperte in punta. Le gambe nude della ragazza erano più belle del solito con quelle scarpe, e stavo per dirle di togliersele immediatamente e buttarle sotto l’acquaio quando sentii sbattere la porta a zanzariera alle mie spalle e percepii il freddo sguardo della donna sulla mia
nuca. — Guarda un po’, ragazza, la signora Simms è venuta a trovarti — dissi. — Molto carino da parte sua, non credi?
La signora Simms la guardò attentamente dalla testa ai piedi. Credetemi, era come un serpente che osserva un uccello. — Come vi chiamate, signorina? — chiese. La ragazza glielo disse. — Vi piace star qui nella fattoria Taggott? — La ragazza fece un cenno di assenso. Gli occhi della signora Simms la trapassavano da parte a parte. Poi le afferrò un braccio. — C’è carne attorno alle vostre ossa — disse. — Non credo proprio che vi facciano morire di fame. Ma voi, signor Taggott, avete un aspetto molto patito...
Effettivamente era vero. Patiti e scarni, io e Jug, come quei maiali ridotti così magri perché noi due eravamo sempre troppo esausti per dar loro da mangiare. Poi la signora Simms disse qualcosa di veramente strano. La mescolò a parole che parevano straniere, ma non della lingua della ragazza, forse quel tipo di francese maccheronico che mio zio Maynard parlava quando tornò dalla guerra mondiale. Ciò che la signora Simms disse suonava press’a poco: «La belle dom son mari see». E poi lo ripeté: «La belle dom son mari see vi ha in schiavitù. Dio vi aiuti».
— Amen — dissi, perché è quello che dico sempre quando viene menzionato Dio, specialmente da un prete o da sua moglie. Però non sapevo di che stava parlando. Parole delle Sacre Scritture, immagino. Era una donna molto istruita.
— Buona giornata a voi, signor Taggott — mi disse, poi fece dietro-front e se ne andò, sbattendo la porta a zanzariera.
Di sicuro respirai meglio quando sentii l’auto che partiva e sferragliava sulla strada.
I guai cominciarono poco dopo.
2.
Erano passati pochi giorni e una sera dopo cena la ragazza mi disse che era in stato interessante.
— Cosa? —dissi.
Lei annuì.
— Ne sei sicura? — chiesi.
Mi rispose con quel linguaggio a gesti.
— Gesù Cristo sulla montagna! — esclamai. E dopo chiesi: — Di chi è?
Lei non afferrò.
— Padre. Papà. Paparino. Pa’. Io? Jug? Chi?
La ragazza si strinse nelle spalle. Io ero assolutamente sconvolto.
Pescai Jug nella stalla, addormentato come un masso sul fieno. Gli assestai un calcio nel culo, e lui si drizzò a sedere, bene eretto. — Pa’, accidenti! — sbraitò.
— La ragazza ha un’anitra nel forno — gli dissi.
— Ah, bene... con la fame che mi ritrovo mangerei un orso, artigli e tutto.
— Maledetto stupido, è incinta!
— Gesù Cristo sulla montagna — disse Jug.
— Come la mettiamo?
— Lo chiedi a me? Io sono un ragazzo!
— Ma abbastanza vecchio per scoparla!
— E tu sei abbastanza vecchio da non farti fregare!
— Ficcatelo in quella tua testa, ragazzo. Qualcuno dovrà sposarla.
— Al diavolo, pa’, io non voglio sposarmi!
— E pensi che a me piaccia farlo? Fu già un brutto affare quando dovetti sposare tua madre dopo che aveva raggiunto lo scopo con te. Non intendo essere accalappiato una seconda volta.
— Ma è così, pa’... sei già destinato al giogo! Non ti danneggerà affatto!
— Non danneggerà neppure te! Ogni uomo dovrebbe sposarsi una volta nella vita. Ma due volte è una di troppo. Io ho già fatto il mio balzo. Adesso tocca a te.
— Accidenti, pa’, il bambino potrebbe essere tuo! E allora sarebbe il mio fratellastro!
— E se la sposassi io e il bambino fosse tuo, sarebbe mio nipote! In un modo o nell’altro abbiamo una bella rogna per le mani.
Proprio allora sentii arrivare il macinino del reverendo. — Che accidente di giorno è oggi? — chiesi.
— Venerdì — disse Jug.
— Torniamo in casa. Dobbiamo parlare con quel predicatore.
Il reverendo Simms non era molto entusiasta di chiacchierare con noi; voleva andarsene via con la ragazza e cominciare i suoi consigli spirituali; ma poi gli demmo la notizia.
Allora tolse la mano dalla spalla della ragazza così bruscamente che pareva se la fosse scottata alla stufa.
— Capisco — disse. — Bene, cosa contate di fare?
— Reverendo — dissi — non ci sono due strade da percorrere. Vi toccherà sposare la ragazza.
— Io???
— Cioè, darla in sposa a uno di noi, in maniera legale e regolare, in chiesa.
— Sì — disse, come se avesse perso ogni desiderio. E dopo continuò ad avere quell’aspetto per settimane.
— Ma chi di noi? — dissi.
— Chi? Diamine, quello che... che... — Poi s’interruppe e si grattò la testa. — Capisco il problema — disse.
Rimanemmo in conciliabolo nella cucina senza sapere dove sbattere la testa. Poi tirai giù una brocca di whisky di mais.
Ne versai un bicchiere per il reverendo; limpido come l’acqua era, e un altro per me.
— A me non spetta, pa’? — domandò Jug.
— Sei troppo giovane — dissi. Il prete e io sollevammo i bicchieri e ce li scolammo d’un fiato, rabbrividimmo e aspettammo che facesse effetto. Dopo circa cinque secondi arrivò. Come un paio di ferri di cavallo che ci cadessero sulla testa. — Figlio di puttana — dissi io. — Signore, Signore — disse il reverendo.
Quando ebbe ripreso fiato, disse: — La ragazza dovrà decidere.
Perciò lo chiedemmo a lei. Ma fece spallucce con un’espressione tonta.
— Be’ — propose il prete — perché non fate a testa e croce?
— Questo non mi sembra giusto — dissi. — Lascia la cosa alla sorte. Dovrebbe essere qualcosa che somigli di più a un gioco, dove si possa mettere dell’abilità.
Il prete disse: — Avete un mazzo di carte in casa?
— No.
— I dadi?
— No.
— Sono molto compiaciuto di sentire che non avete questi strumenti del diavolo in casa vostra, fratello Taggott, ma, dannazione, come fate a decidere?
Jug intervenne. — Ci sono quei giochi che fanno nelle fiere di paese. Corse nei sacchi. Maiale cosparso di unto.
— Sono troppo vecchio per le corse nei sacchi — dissi. — Mi batteresti.
— Ma non sei troppo vecchio per catturare un maiale unto. Te l’ho visto fare l’anno scorso.
Dissi: — Il ragazzo ha ragione. Siamo tutti e due bravi con il maiale unto.
— Allora sarebbe una gara leale — disse il reverendo Simms.
— Penso di sì.
— Il guaio è — disse Jug — che non possediamo più maiali.
— Nessun maiale? — domandò il predicatore.
— L’ultimo lo abbiamo macellato una settimana fa — risposi, facendo schioccare le dita. — Lo avevo proprio dimenticato.
— Dichiaro — disse il prete — che i problemi aumentano e si moltiplicano. Si potrebbe avere, fratello, un altro sorso di quel tonificante? Forse aiuta a schiarire il cervello.
Riempii due bicchieri e ce li scolammo. — Signore, Signore — dissi. — Figlio di puttana — disse il reverendo.
Il liquore non schiarì il cervello a noi due, ma a Jug sì, e gli bastò fiutarne l’odore. Infatti disse: — Reverendo? Perché non ungiamo la ragazza?
Ecco, vi dico subito che se il predicatore e io fossimo stati sobri, l’idea di Jug sarebbe stata scartata. Ma a quel punto avevamo messo in corpo un mezzo litro ciascuno di quel potente liquore, e l’idea non ci sembrò malvagia. Anzi diventò migliore dopo altri due bicchieri. Come aveva detto il reverendo, era un sistema appropriato. Dopotutto la ragazza andava in premio al vincitore, per così dire, quindi perché non doveva farsi ungere?
Dunque andammo tutti fuori, dietro la stalla. Il sole era ormai tramontato, ma c’era la luna piena e ci si vedeva abbastanza bene. Di una cosa avevamo abbondanza, il grasso di maiale, così Jug andò a prenderne un barile.
Cercammo di dire alla ragazza cosa stavamo per fare, ma non so se comprese correttamente. Era una buona ragazza, però, e rimase ferma mentre Jug e io le togliemmo il vestito e la spalmammo di grasso dal mento ai piedi. Se non avete mai ricoperto di grasso una giovane nuda, spogliandola con le vostre mani, ebbene io sono qui a dirvi che vi siete perso parecchio. In breve, la ragazza era viscida come una carpa appena pescata.
— Reverendo, giudicate che sia pronta? — chiesi.
— Sì.
Fui colto allora da un particolare sentimento che mi fece tremare tutto, senza una ragione. Forse fu quel chiar di luna che rendeva ogni cosa fredda e blu... era più o meno luna piena quella notte. Anche la ragazza, tutta nuda a quel modo e luccicante come un pesce, appariva fredda.
Ma forse fu un’altra cosa. Perché ricordo di avere pensato guardando Jug e il reverendo in piedi con quell’aspetto così sfinito ed emaciato sotto il chiar di luna e sapendo che io non ero meglio di loro, ricordo di avere pensato al grasso sulle mie mani, al grasso spalmato sul corpo della ragazza, quel grasso proveniente dai maiali che avevamo ucciso prima del tempo perché erano troppo magri, e lo erano perché non eravamo andati a nutrirli a causa della nostra continua spossatezza per il troppo sesso con la ragazza...
E, vedete, fu come se quella ragazza ci avesse prosciugati completamente in un modo o in un altro, consumando me, Jug, il reverendo fino all’esaurimento, e avesse consumato anche i maiali, si potrebbe dire, finché era stato necessario abbatterli e farne grasso da spalmare su di lei.
La ragazza era la sola nella fattoria a essere ancora appetibile e in salute, e bene in carne...
Ma sciocchi pensieri come quello sparirono quando il reverendo disse: — Sì, fratello Taggott, penso che la ragazza abbia assorbito tutto il grasso di maiale che il suo fresco corpicino possa tollerare.
— Allora cominciamo, pa’! — disse Jug. — Fremo dal desiderio di stringere le mie braccia attorno al corpo della ragazza e inchiodarla al suolo! Non resisto dal bisogno di esplodere!
— Ma prima — disse il predicatore — dobbiamo stabilire delle regole. Normalmente chi cattura il maiale lo vince. Ma vedendo che nessuno di voi due è particolarmente impaziente di vincere e avere la ragazza come sposa, può darsi che non ci mettiate molto impegno per catturarla. Perciò ribalteremo le regole. Chi la cattura la perde. Chi non la cattura, la vince. E la sposa.
Questo creò un ostacolo al mio piano, perché era proprio quello che intendevo fare: lasciare di proposito che mi sfuggisse dalle mani. Ma il predicatore era stato più furbo di me.
— Reverendo? — disse Jug. — Per rendere tutto più corretto e leale, non credete che io e pa’ dovremmo spogliarci?
— Oh, accidenti, Jug — dissi — sono troppo vecchio per queste esibizioni. E poi l’aria è pungente.
— Il ragazzo ha fatto una giusta osservazione, fratello — disse il predicatore. — Se entrambi sarete nudi come Adamo, nessuno potrà dire che gli abiti del vincitore erano più ruvidi di quelli dello sconfitto. È una questione di parità.
Così ci spogliammo completamente e rimanemmo lì sotto il chiar di luna come due fessi.
Il prete disse: — Fratello Taggott, i vostri anni vi autorizzano a tentare per primo.
— Va bene — risposi — ma solo se le rimetteremo altro grasso dopo il mio turno. Non sono tanto stupido da prendermi tutto il suo grasso e facilitare le cose a Jug.
Il prete annuì. — Vi aiuterò anch’ io a ungerla di nuovo — disse.
— Pensavo che lo avreste fatto.
Il reverendo tirò fuori un cipollone dalla tasca. — Questo — disse — era di proprietà di un giocatore d’azzardo. Lo usava per cronometrare i cavalli. Quando si pentì degli errori della sua vita e fu salvato, me lo regalò per gratitudine. Ciascuno di voi avrà esattamente sessanta secondi per catturare la ragazza. Prima d’iniziare, fratello, propongo di celebrare l’occasione prendendo un altro sorso da quella brocca, che vedo avete portato qui con voi.
Gli passai la brocca e lui se la portò alla bocca, tracannando un buon quartino del contenuto.
Quando me la restituì io feci altrettanto. Jug mi chiese di nuovo se poteva bagnarsi il becco, ma gli risposi di no.
— Pronto, fratello Taggott? — disse il predicatore.
— Sì.
Guardò l’orologio. — Via... andate a prenderla!
La ragazza corse e io la inseguii. Quando voltammo l’angolo vicino al trogolo l’afferrai per una spalla, ma la presa mi sfuggì.
La volta dopo, quando superammo la catasta di legna, la presi alla vita e la sbattei giù. Mi saltò via dalle braccia come una rana. Mi aggrappai alle sue mammelle, ma scivolarono via come se fossero state due pesche sbucciate. Affondai le dita nelle sue natiche, ma sculettò via senza difficoltà. Tentai di afferrarle le cosce, ma le mie mani scivolarono giù, fino alle sue caviglie e poi la persi.
— Tempo scaduto! — strillò il reverendo Simms.
Ero ricoperto di grasso di maiale dalla testa ai piedi. Ne avevo più io che la ragazza.
— Hai vinto, pa’! — disse Jug.
— No, non ancora — risposi. — Bisogna vedere come te la cavi tu. Ungiamo di nuovo la ragazza.
Il predicatore lavorò con impegno e ci aiutò, e questa volta la ragazza riuscì a capire il divertimento del gioco, ridacchiò e squittì per tutto il tempo in cui la ungemmo.
— Sei pronto, Jug? — disse il reverendo quando l’ingrassaggio fu finito.
— Oh sì, reverendo, prontissimo! — Pronto lo era di sicuro. Bisognava essere ciechi per non vederlo.
Il reverendo consultò quel suo orologio. — Via, ragazzo! — gridò.
Jug la inseguì come un bracco rincorre un coniglio. Lei gli fece sudare un bel po’ il suo premio, correndo attorno alla rimessa e dietro verso il pascolo. Poi inciampò su una radice, cadde bocconi e Jug le fu sopra in un baleno.
La tenne stretta come se fosse questione di vita o di morte. Se si divincolava e si dimenava? Altroché, dovevate vederla!
A un certo momento stava per liberarsi, ma poi la sentimmo squittire come un maiale infilzato e immaginai che Jug l’avesse veramente inchiodata al suolo come aveva promesso di fare.
Era stato tutto quel whisky di mais, non capite. Mi aveva tanto intontito che non avevo potuto trattenerla. Ma Jug non ne aveva bevuto un goccio.
— Il tempo è scaduto e lei è ancora in terra — disse il reverendo. — Ritengo che il ragazzo abbia vinto. Cioè ha perso. — La ragazza stava ancora squittendo prossima a
esplodere.
— Jug! — gridai. — Lascia immediatamente la ragazza, mi senti?
— Tra un... minuto... pa’... — disse, ansando.
— Subito! — gridai di rimando. — Quella signorina è la mia futura moglie!
— Propongo rispettosamente un brevissimo fidanzamento — disse il prete.
— Vi starebbe bene domani mattina?
— Alle dieci? Non venite prima perché devo battezzare il piccolo Geer alle nove.
— Jed Geer? Pensavo che in guerra avesse perso tutto.
— L’ho detto prima e lo ripeto, fratello Taggott. Le vie del Signore sono misteriose.
— Amen. Jug? Mi senti? Lascia stare quella ragazza!
— Sì, pa’. Ora... vengo!
Comunque fu così che mi fidanzai con la servetta. Ma il matrimonio fu tutta un’altra cosa.
La mattina dopo di buon’ora, in una bella giornata di sole, ci tirammo tutti a lucido. Jug sarebbe stato il mio testimone.
Era abbastanza sviluppato per indossare il mio abito della domenica, blu a righe, e io mi misi il vecchio abito nero con le code che apparteneva a mio suocero. Lo ereditai con la fattoria. Lo avevo indossato due volte, al mio primo matrimonio e quando seppellii mia moglie. E con quello avrei voluto farmi seppellire. Alla ragazza facemmo indossare con non poca fatica un vecchio abito bianco della mamma di Jug. Fu come voler ficcare un chilo di mangime in un sacco da mezzo chilo. La mia povera moglie era un gingillo, magrolina, mentre la servetta non lo era affatto. Be’, comunque bastava che non si sedesse, non si piegasse, o non respirasse. E le facemmo mettere quelle scarpe rosse. Era davvero carina.
— Buona abbastanza da mangiare — disse la signora Simms, quando la vide in piedi nella cucina, vestita da sposa.
La moglie del reverendo era venuta per accompagnare la ragazza alla chiesa con il macinino, e condurla all’altare. Io e Jug saremmo dovuti andare con il carro a quattro ruote.
Non era bello arrivarci tutti insieme alla stessa ora, disse la signora, e non so che altre sciocchezze. Così attaccai il cavallo al carro e io e Jug partimmo per la chiesa.
Là trovammo il reverendo Simms fuori del portale ad attenderci. — Buongiorno, fratello Taggott — disse. — Siete agghindato come un’oca natalizia.
— Oh, grazie.
— Ma dov’è la vostra timida sposina?
— Vostra moglie la sta portando qui con la vostra auto, reverendo. Io e Jug siamo venuti sul carro.
— Come? Mia moglie non mi ha detto che aveva questa intenzione — disse. — Ma prevedo che saranno qui a minuti.
Passò mezz’ora prima che il macinino, sferragliando e fumando, arrivasse davanti alla chiesa. La signora Simms scese, ma senza la ragazza. Io bollivo già per la lunga attesa e quando vidi che la sposa non era con lei, l’affrontai gridando: — Dove diavolo è la ragazza?
— Dove la luna non brilla, signor Taggott — disse — e neppure il sole. Marito: una parola con te. — Condusse il reverendo dentro la chiesa, e lasciò me e Jug ad aspettare lì come due vitelli appena nati.
Dopo il reverendo mi spiegò tutto. Non compresi la metà di quel che disse, ma forse voi capirete. Pare che la signora sapesse quel che noi tutti combinavamo dal momento in cui aveva posato gli occhi sulla ragazza. Perché quella non era una comune ragazza della nostra terra, ma di spregevole razza straniera, capite. La signora Simms queste cose le conosceva perché era una gran maga, come vi ho detto, e disse che la ragazza era del genere che ti succhiava una cosa o l’altra; disse che ce n’erano tante così laggiù da dove veniva lei, e che avevano scritto interi libri su di loro, e anche poesie, come quella di La belle dom son mari see. Insomma succhiava la vita a me, a Jug e al reverendo. Il solo modo per liberarsi di una di quelle, disse, era trapassarle il cuore con un piolo. E questo fece; la seppellì là nella mia terra, nel pascolo posteriore, vicino a mia moglie, sotto il grande olmo. E io non ho dovuto risposarmi, dopotutto.
La signora Simms disse anche che la ragazza non veniva dalla Pennsylvania come pensavamo. Era di un altro posto, chiamato Transilvania, credo.
Ma qualche volta di notte, anche adesso, sapete che sento la mancanza di quella ragazza? Quando mi prende quel senso di solitudine, penso a lei intensamente e ricordo come il chiar di luna le illuminava il corpo nudo, e non importa una montagna di fagioli se lei era o no quel che la signora Simms disse che era.
Naturalmente lo sceriffo non credette a una sola parola e accusò la signora Simms di assassinio. Il movente furono le visite settimanali del reverendo che dava consigli spirituali alla ragazza. Non colpevole perché ritenuta pazza, dissero, e andò in manicomio. Se non era pazza quando vi entrò, sicuramente lo era quando vi morì dieci anni dopo.
Da tutto questo non sono stato buono di ricavarci qualcosa.
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