martedì 21 novembre 2023

Robert F. Young: La prima spedizione su Marte, 1979


Avevano costruito l’astronave nel cortile di Larry. Il suo cortile era più grande di quello di Chan, o di Al. Questo, perché la casa dei suoi genitori si trovava alla periferia della città, dove le case erano molto lontane una dall’altra e non riunite in isolati, e dove in certi casi dalla porta sul retro si vedeva solo la campagna.
Larry non pensava minimamente, allora, che un giorno sarebbe diventato un vero astronauta. Marte lo affascinava tanto quanto affascinava Al e Chan, ma in fondo al suo cuore quello che lui desiderava veramente fare da grande era il pompiere.
Come gambe di atterraggio usarono un paio di vecchi cavalletti che Al aveva trovato nel solaio del garage di suo padre e sopra i cavalletti ci inchiodarono il ponte:
una piattaforma di assi costruita con del legname di scarto che avevano grattato dietro la nuova scuola in costruzione. Il padre di Chan, che faceva il robivecchi, gli aveva già detto che potevano prendere in prestito il grosso coprifumaiolo conico di lamiera, che aveva rimediato quando la vecchia fabbrica di macchine agricole di Larrimore era stata smantellata, e in un torrido pomeriggio di luglio lo liberarono dallo sporco all’interno del recinto della roba vecchia, poi lo fecero rotolare attraverso tutta la città fino a casa di Larry.
Qui, sudati e senza fiato, lo issarono sul ponte e lo fissarono con tre chiodi piantati di traverso.
Per ripulire e pitturare il fumaiolo ci misero due giorni, Però non spesero un soldo, perché nella cantina di Larry c’erano un sacco di barattoli di pittura, più o meno pieni. Non c’erano due colori uguali, ma mescolando insieme quelli più vivaci, ottennero un bellissimo verde-azzurro.
Il terzo giorno, dopo che la pittura si fu asciugata, installarono il propulsore ionico: un motorino Briggs & Stratton da tre cavalli, che il padre di Al aveva messo da parte quando si era sbarazzato della vecchia falciatrice meccanica. In precedenza, avevano segato via dal ponte un quadrato di centimetri 60 x 60, costruendo quindi un portello che funzionava secondo il principio della botola. Per ultimo, montarono il quadro comandi: il cruscotto di una Ford modello 1957, dono del padre di Chan.
Preparati Marte... arriviamo.
Tutto questo era successo prima che il Mariner 4 mandasse all’aria i “canali” di Giovanni Schiaparelli e di Percival Lowell e le “vie d’acqua” di Edgar Rice Burroughs, “provando” prematuramente che Marte è morto, tanto dal punto di vista geologico che da quello biologico.
Guidata dalla mano del destino, la loro scelta del punto di atterraggio! Assolutamente.
La mappa di cui si servirono aveva una quantità di misteriose zone ombreggiate, che indicavano mari, laghi, paludi e cose del genere, e loro scelsero una regione che confinava in parte con una delle più grandi di queste zone. Avrebbero potuto scegliere, per lo stesso motivo, sei o sette altre regioni. Ma non lo fecero.
Scelto il posto, cominciarono a pensare al nome da dare all’astronave. Decisero per “La Regina di Marte”.
Poi programmarono il decollo per le 22,00 della sera seguente. A quell’ora, Marte sarebbe stato visibile, e in questo modo sarebbero stati in grado di stabilire la rotta. Dal momento che il viaggio, tra andata e ritorno, avrebbe richiesto almeno due ore, e che volevano avere tempo sufficiente per esplorare, dovettero chiedere ai rispettivi genitori il permesso di stare fuori tutta la notte. Chan e Al non ebbero alcuna difficoltà ad ottenerlo, ma la madre di Larry andò su tutte le furie, e solo l’intervento di suo padre rese possibile la sua partecipazione alla storica spedizione su Marte.
Il giorno seguente lo passarono a caricare a bordo l’equipaggiamento e le provviste, a verniciare il nome della nave in grosse lettere nere sulla prua e a fare ipotesi su quello che avrebbero trovato quando avessero raggiunto la loro destinazione. L’equipaggiamento consisteva in tre sacchi a pelo e nella torcia elettrica dal padre di Larry. Le provviste comprendevano tre panini al salame (gentilmente forniti dalla madre di Chan), tre scatolette da duecentocinquanta grammi di salsiccia con piselli marca Campbell (sottratti da Larry dalla dispensa di sua madre) e tre confezioni di latte al cioccolato.
Imbarcarono per ultime le provviste.
– Forse dovremmo prendere anche delle armi – suggerì Al. – Nel caso che le forme di vita marziane si rivelino ostili.
Chan tornò a casa sua e prese un’accetta; Al, una mazza da baseball; Larry andò in camera sua e prese il coltello da scout che era stato di suo padre. Aveva quattro lame, una delle quali era un apriscatole, che sarebbe stato molto utile al momento di aprire le scatolette di salsicce con piselli.
Arrivarono le nove. Le nove e mezzo. Cominciarono ad apparire le stelle.
– Ecco Marte! – gridò Chan. – Proprio lassù.
Era come un faro nel cielo notturno, rossastro e invitante.
– Andiamo – disse Al. –Adesso possiamo calcolare la rotta.
– Ma non sono ancora le ventidue – obiettò Larry.
– Che differenza fa?
– Fa una bella differenza. Le missioni spaziali devono seguire una tabella oraria molto precisa.
– Non con un motore a propulsione ionica. Quando si ha un motore a propulsione ionica basta dire: “Andiamo” e si va.
Larry si arrese. – E va bene. Tanto è quasi l’ora.
Salirono sulla nave, chiusero il portello e si sedettero al buio. Larry accese la torcia elettrica, ne diresse il raggio sul pannello dei comandi e stabilì la rotta.
Al cominciò il conto alla rovescia. Quando arrivò allo zero, Larry “attivò” il propulsore ionico. – Partenza – gridò.
Dal momento che non c’era altro da fare, mangiarono i panini al salame, mandandoli giù con il latte al cioccolato. Finito di mangiare, Larry spense la torcia per risparmiare le batterie. Restarono seduti in silenzio per quelle che a loro sembrarono ore, ma dal momento che nessuno aveva pensato a portare un orologio, per quanto ne sapevano potevano anche essere stati minuti.
Un’altra cosa che si erano dimenticati di fare, era stato di installare un oblò di osservazione. Però nello scafo c’era una fessura, là dove i due orli della lamiera che formava il fumaiolo erano stati saldati insieme, e alla fine Larry si mise in piedi e andò a sbirciare attraverso la stretta apertura.
– Cosa vedi? – chiese Chan.
– Stelle – disse Larry.
– Accidenti, dovremmo essere arrivati, ormai – disse Al. – Fa’ guardare me.
Larry lasciò l’improvvisato oblò.
– Ehi! Ehi! – gridò Al, dopo un momento. – Lo vedo! Proprio dritto di prua!
– Okay, Al – disse Larry. Adesso la metto in orbita, e tu mi fai un fischio quando vedi la zona di atterraggio.
– Ehi! Un canale! Due! Tre!
– Lascia perdere i canali. Preoccupati della zona di atterraggio.
– Adesso la vedo. Proprio sotto di noi. È una grande pianura, con un canale in mezzo. Ehi! Si vede una città!
– Siamo troppo in alto per vedere una città.
– Non me ne importa niente. Io la vedo lo stesso. Atterra, Larry, atterra!
– Prima devo farla girare, per scendere dalla parte giusta. Tenetevi stretti!
Eseguita la manovra, Larry mandò su di giri il motore a propulsione ionica per un atterraggio morbido. Passarono i minuti. O forse erano solo secondi.
Improvvisamente, si sentì un piccolo scossone.
Non avrebbe dovuto esserci, ma ci fu.
Al in testa, i tre astronauti si calarono dal portello, strisciarono da sotto la nave e si rialzarono. Nella fretta, Al dimenticò la mazza da baseball, Chan la sua accetta e Larry la torcia elettrica di suo padre.
C’era davvero una città.
Si trovava alla confluenza di tre canali, il più vicino dei quali tagliava a metà la grande pianura su cui era atterrata l’astronave. Aveva due torri alte come l’Empire State Building. Una miriade di luci splendeva al di sopra delle sue mura, e un paio di ampi cancelli servivano da entrata e uscita.
L’aria era limpida e fresca.
Le stelle, così luminose che faceva male agli occhi guardarle, brillavano in un cielo nerissimo.
C’erano due piccole lune. Una proprio allo zenit, l’altra che saliva veloce dall’orizzonte.
Mentre stavano lì a guardare la città lontana, sentirono alle loro spalle un rumore simile a quello del tuono. Crebbe e si trasformò nel rombo di un galoppo sordo. Voltandosi, scorsero una bestia enorme con una gran bocca spalancata, che si dirigeva verso di loro con un cavaliere in groppa. Si ritirarono, con la schiena contro la nave.
La grossa bestia aveva otto zampe e una lunga coda piatta. Passò loro vicina, simile a una locomotiva di carne e ossa, facendo tremare la terra sotto il suo passo tremendo. Larry boccheggiò, quando vide in faccia il cavaliere.
Era il viso di una donna bellissima.
Anche se lei vide i tre astronauti o “La Regina di Marte” (e quest’ultima non poteva certo sfuggirle), non lo dimostrò. L’animale continuò il suo galoppo attraverso la pianura, e in breve rimpicciolì in distanza.
Quando arrivò alle mura della città, i cancelli si aprirono il tempo sufficiente per farlo entrare insieme al cavaliere, quindi si richiusero.
Al tirò un respiro profondo.
– Forse stiamo sognando.
– Dev’essere così – disse Chan.
Larry non disse niente. La donna aveva un’inquietante aria familiare. Dove l’aveva vista prima?
E anche quell’orribile animale a otto zampe gli ricordava qualcosa.
– Be’ – disse Chan con un tremito nella voce, – adesso che siamo su Marte, cosa si fa?
– Andiamo in esplorazione, naturalmente – disse Larry, con più sicurezza di quanta ne provasse realmente.
– Nella... nella città?
– Io... credo che sarà meglio lasciar perdere la città. Andiamo a dare un’occhiata a quel canale.
– Facciamo a chi arriva primo! – gridò Al, mettendosi a correre.
Il primo passo che fece lo portò a metà strada dalla riva. Cadde sulla schiena e rimbalzò in piedi, senza farsi male.
– Ehi, che bello!
Larry e Chan lo seguirono più cautamente, facendo balzi più piccoli e cercando di atterrare in piedi. Certe volte ci riuscivano, altre no. Al era già arrivato alla riva e guardava l’acqua, quando loro arrivarono. Era così limpida che il fondo del canale sembrava pieno di stelle. La riva opposta distava più di mezzo chilometro. Lungo il canale, si alzavano a intervalli costruzioni dalla forma bizzarra, con le finestre illuminate da una luce gialla.
Quella sponda del canale era cosparsa di innumerevoli sassi piatti, e i tre cominciarono a scagliarne qualcuno sulla superficie dell’acqua, per vedere chi di loro riusciva a farlo rimbalzare più lontano. Vinse Al. Ne tirò uno così forte, che a forza di salti arrivò quasi dall’altra parte.
– Viene qualcosa! – sussurrò Chan.
Anche Larry sentì il rumore: il “tum-tum-tum” sordo di molti zoccoli. Veniva dalla direzione della città.
Dapprima non videro niente. Poi, alla luce delle lune e delle stelle, apparvero tre ombre. Erano tre dei giganteschi animali, con tre cavalieri.
I tre astronauti restarono come paralizzati.
Si sentivano altri rumori. Un crepitio, come di armi. Degli schiocchi, come di finimenti di cuoio.
Gli animali erano uguali a quello che era sfrecciato poco prima vicino a loro. Il fatto che questi tre andassero al passo, invece di galoppare, non li rendeva per niente meno terribili.
A poco a poco, col diminuire della distanza, le figure dei tre cavalieri divennero sempre più distinte. Quello a sinistra era un bell’uomo di pelle bianca, di età indefinibile, con i capelli neri, che indossava una specie di bardatura che sembrava fatta di cuoio e aveva al fianco una lunga spada.
Quello nel centro era la bellissima donna che era sfrecciata a fianco dei tre astronauti poco dopo il loro arrivo. Forse la cavalcatura che montava era la stessa che aveva montato allora: non c’era modo di saperlo. Una reticella d’oro le teneva a posto i capelli neri, due coppe dorate, tempestate di pietre preziose, le coprivano il petto, e una gonna intessuta di innumerevoli fili d’oro le nascondeva e le rivelava di volta in volta le gambe. La sua pelle scura poteva essere dovuta a un’abbronzatura intensa o a un naturale colore rossastro della pelle.
Il cavaliere sulla destra, presumibilmente un maschio della sua specie, era molto più alto degli altri due ed era armato di un fucile lungo più di tre metri, oltre che di una spada. La sua bardatura era simile a quella dell’uomo bianco, ma qui finiva qualunque somiglianza tra i due. Aveva delle lucide zanne bianche, e gli occhi ai lati della testa. Proprio sopra gli occhi gli spuntavano le orecchie simili ad antenne, e nel centro esatto della faccia c’erano due fessure verticali in funzione di naso. Le sue dimensioni e il suo aspetto sarebbero stati da soli sufficienti a demoralizzare i tre astronauti, ma c’era dell’altro: invece di due braccia, ne aveva quattro, e anche se la luce delle lune e delle stelle lasciava molto a desiderare in fatto di illuminazione, sembrava proprio che avesse, la pelle verde.
Rocce. Da qualsiasi parte guardasse, c’erano rocce.
Marte e le rocce ormai erano una cosa sola. Quelle relativamente piccole, fotografate dai Viking I e II, e le due più grosse nel cielo chiamate lune.
In piedi, nella pallida luce del sole, sotto quel cielo stranamente luminoso, Larry si chiese se Hardesty, l’astronauta vicino al modulo atterraggio che lo stava riprendendo con la telecamera (quella montata sul modulo non aveva superato l’ultima serie di prove di laboratorio), sentiva lo stesso suo disappunto per la zona di atterraggio.
La scelta della NASA era stata dettata da motivazioni altruistiche, ma non rendeva giustizia al pianeta. Il Marte del Mariner 9, come si usava chiamarlo, era molto diverso dal Marte romantico immaginato dagli astronomi del diciannovesimo secolo e dei primi anni del ventesimo, ma, a suo modo, era affascinante lo stesso.
Dritto a est del punto in cui si trovava Larry, molto sotto l’orizzonte, Hecates Tholus, Albor Tholus ed Elysium Mons torreggiavano al di sopra della grande escrescenza della crosta marziana nota come Elysium. Sull’emisfero opposto, proprio a sud dell’equatore, si stendeva il terribile complesso di canyon conosciuto con il nome di Valles Marineris. A nord ovest dei canyon si trovavano la massiccia catena del Tharsis e i vulcani Arsia Mons, Pavonis Mons e Ascraeus Mons, anche loro dei giganti; ancora più a nord e a ovest c’era il più grande di tutti, l’Olympus, che si alzava per quasi ventitré chilometri nel cielo marziano.
Ma la NASA aveva optato per la regione di Isidis.
Forse era una regione piatta, poco eccitante, ma offriva il minimo di rischio e il massimo di sicurezza. La NASA, fin da un anno e mezzo prima, aveva deciso che se un uomo doveva posare il piede su Marte, il posto sarebbe stato quello.
Solo Owens, il terzo astronauta, in orbita sul modulo di comando, vedeva il pianeta nella sua luce migliore, passando alternativamente sulle sue due “facce”: quella giovane e quella vecchia. In un certo senso, Larry lo invidiava.
CENTRO DI CONTROLLO: – Tutto okay, Comandante Reed?
LARRY: – Tutto a posto. Mi sto guardando intorno.
CENTRO DI CONTROLLO: – Siete diventato una stella della televisione, Larry. La più luminosa della storia. Gli occhi di tutto il mondo sono su di voi.
Gli occhi di sua moglie. Quelli di sua madre e di suo padre. Gli occhi di sua figlia di dodici anni e di suo figlio di dieci.
Gli occhi di tutti.
Cercò di sentire tutti quegli occhi, ma non ci riuscì. Non sentiva niente di niente. Era il suo momento di gloria e non provava niente.
Colpa della stanchezza. Non dovuta a fatica fisica, sebbene ci fosse anche quella, ma a fatica emozionale. Il risultato inevitabile di avere trascorso mesi e mesi in uno spazio ristretto, in costante compagnia di altri due esseri umani, cercando di non diventare paranoico.
Si era fermato, nel mezzo della sua passeggiata marziana, non solo per guardarsi intorno, ma per cercare di dare un senso al volo della “Regina di Marte”, al pianeta su cui, apparentemente, lui e Chan e Al erano atterrati. Adesso cominciò ad allontanarsi ulteriormente dal modulo. Era restato sotto l’occhio della telecamera fin da quando aveva aiutato Hardesty a piantare la bandiera metallica. La zona di atterraggio si trovava leggermente a nord del bacino di Isidis. Durante gli ultimi minuti della discesa, Larry aveva dovuto usare i comandi manuali, per fare atterrare in una zona relativamente sgombra il modulo, che ora se ne stava acquattato sulle sue zampe di ragno, in grottesco contrasto con il paesaggio circostante. Le rocce e i macigni che erano stati eruttati milioni di anni prima, al momento dell’impatto che aveva creato il cratere, si stendevano tutto intorno: verso sud, in direzione dell’orlo eroso dai venti: verso est, in direzione della depressione interrotta da altopiani; verso ovest, in direzione di una pianura punteggiata di crateri e verso nord, apparentemente all’infinito.
Larry stava andando verso nord.
Ora camminava adagio, con cautela. Su Marte pesava meno di quaranta chili, ma il terreno non era per niente adatto a fare passi da gigante.
Gli venne in mente quello che aveva fatto Al, e ripensò ancora una volta ai canali, alla città e alla pianura. Era stato tutto un sogno? si chiese. E in questo caso, aveva sognato da solo, oppure anche Chan e Al avevano fatto lo stesso sogno? Aveva avuto paura di chiederlo, dopo, paura che gli amici d’infanzia si prendessero gioco di lui. Forse per la stessa ragione, neanche loro glielo avevano mai chiesto. E neppure se l’erano chiesto a vicenda.
Dopo tutti quegli anni, ancora non lo sapeva.
I tre cavalieri fecero fermare le loro mostruose cavalcature a sei o sette metri dai tre astronauti attoniti, come ipnotizzati, sulla riva del canale.
Finalmente a Larry venne in mente chi erano. Li aveva già incontrati.
Nei libri.
E anche Chan e Al, sebbene, probabilmente, loro non se ne ricordassero.
Ma l’averli riconosciuti non serviva a molto. Incontrarli come personaggi fantastici in un libro era una cosa, vederli in carne e ossa era un’altra. Non era quindi meno terrorizzato di Chan e di Al, quando il cavaliere sulla destra si passò il fucile dal paio inferiore di mani a quello superiore, e quando i suoi due compagni si voltarono e scapparono, lui li seguì.
In due balzi furono alla “Regina di Marte”. S’infilarono alla disperata nel portello, lo chiusero, e si strinsero l’uno all’altro nel buio. Nessuno pensò di “attivare” il motore a propulsione ionica, ma a quanto pare quello si “attivò” da solo. A ogni modo, all’alba si ritrovarono sani e salvi sulla Terra.
Le rocce avevano una sfumatura rossastra nel sole pallido.
Larry stava per girare attorno a una molto più grossa delle altre, quando un debole luccichio nel terreno vicino alla base, attrasse la sua attenzione. Chinandosi, vide un piccolo oggetto oblungo. Lo raccolse.
Si raddrizzò e lo tenne nella mano guantata, fissandolo incredulo attraverso il visore affumicato del casco. In quel momento capì che niente, per lui, sarebbe più stato uguale a prima. Mai più.
Dopo che Chan e Al se ne furono tornati a casa, portandosi dietro i sacchi a pelo, e con la promessa di tornare il giorno dopo a smontare la nave (avevano tacitamente convenuto che non ci sarebbero più state spedizioni su Marte), Larry rimise la torcia nella macchina del padre e le tre scatolette intatte di salsicce con piselli nella dispensa. Poi mangiò una tazza di latte e fiocchi d’avena, e andò a letto.
Solo il pomeriggio, sui tardi, si accorse che non aveva più il suo coltello da boy scout. Frugò la nave da cima a fondo e il cortile in lungo e in largo.
Lo cercò e cercò da tutte le parti, ma non lo trovò più.
CENTRO DI CONTROLLO: – Comandante Reed, un momento fa vi siete chinato e avete raccolto qualcosa, ci sembra. Avete trovato qualche oggetto di interesse scientifico, per caso?
Larry esitò. Se diceva la verità, gli avrebbero creduto?
Forse la NASA sì. Ci sarebbero stati più o meno costretti: prima di ricevere l’okay di entrare nel modulo di comando, lui, Hardesty e Owens erano stati perquisiti così accuratamente che non avrebbero potuto introdurre a bordo nemmeno uno spillo non autorizzato.
Ma, a parte la NASA, qualcun altro gli avrebbe creduto sulla parola.
Non molti, ma qualcuno sì.
Sua madre e suo padre. Sua moglie.
Sua figlia di dodici anni, e suo figlio di dieci.
“Loro” gli avrebbero creduto senza riserve.
Ma lui lo voleva?
Voleva che i suoi figli, cresciuti come il resto dei loro coetanei nella fede nella tecnologia, credessero che tre ragazzini avevano raggiunto Marte a bordo di un fumaiolo di lamiera, in un seimillesimo del tempo che avevano impiegato tre astronauti adulti a fare il medesimo viaggio nei più sofisticato veicolo spaziale mai costruito dalla tecnologia?
Voleva che credessero che, sui piatto della bilancia del cosmo, il Marte del Mariner 9 non aveva più peso di quello immaginato da Percival Lowell e popolato da Edgar Rice Burroughs?
Voleva che sapessero che la realtà non era altro che una grossa burla giocata ai danni della razza umana?
Voleva che dubitassero, così come lui era destinato a dubitare, della realtà oggettiva di tutto quello che esisteva sotto il sole, o, quanto a quello, dell’esistenza oggettiva del sole stesso?
CENTRO DI CONTROLLO: – Comandante Reed, avete trovato qualche oggetto di interesse scientifico? Rispondete, Reed.
Valles Marineris valeva mille stupidi canali. Il Mons Olympus faceva sembrare minuscole e senza importanza le descrizioni più audaci degli scrittori d’avventure di altri tempi.
Faceva qualche differenza che entrambi fossero fatti di fumo?
LARRY: – Finora ho trovato solo sassi.
CENTRO DI CONTROLLO: – Non importa... fra pochi minuti voi e Hardesty
tornerete al modulo per riposare in vista dei prossimi esperimenti. Prima di rientrare, Larry, volete dire qualche parola per commemorare questo momento storico?
LARRY: – Ci proverò. Oggi, il Comandante Hardesty, il capitano Owens e io abbiamo valicato una delle prime vette che aspettano l’uomo nel lungo e pericoloso viaggio verso le stelle. Il fatto che ci siamo riusciti è dovuto infinitamente meno a noi che ai campi-base stabiliti dalla tecnologia lungo il nostro cammino.
CENTRO DI CONTROLLO: – Siete stato grande, Larry. Nessuno avrebbe potuto dirla meglio. Comandante Hardesty, prima che voi e il Comandante Reed torniate sul modulo, vorreste offrire al mondo un’altra inquadratura della bandiera?
Larry aspettò finché non fu fuori campo, poi lasciò cadere a terra il coltello. Col piede lo ricoprì di sassi e polvere. Mentre si voltava per tornare al modulo, al limite estremo del suo campo visivo vibrò invitante una lontana città dalle torri gemelle. Si dissolse subito.
 

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