domenica 21 dicembre 2025

Restare soli per imparare a tornare: il miracolo imperfetto di Mamma, ho perso l’aereo

 

Mamma, ho perso l’aereo è uno di quei film che vengono traditi dal successo. Tutti lo ricordano per le risate, per le trappole, per le urla e le cadute. Quasi nessuno ha voglia di guardare davvero cosa racconta. Eppure è un film feroce, malinconico, persino crudele, mascherato da commedia natalizia.
Kevin McCallister non è il bambino adorabile che la memoria collettiva ha addolcito. È un bambino solo. Invisibile. Costantemente zittito, ignorato, spinto ai margini da una famiglia rumorosa che non ascolta nessuno, figuriamoci lui. La sua “sparizione” non è solo un errore logistico: è la conseguenza emotiva di un’esclusione continua. Kevin viene dimenticato prima ancora di essere dimenticato davvero.
Quando la casa si svuota, il film cambia pelle. Non diventa una favola, diventa una prova di resistenza. La casa enorme, illuminata ma fredda, diventa un labirinto emotivo. Kevin non festeggia la libertà: la riempie di rumore perché il silenzio fa paura. Guarda film violenti perché ha bisogno di sentirsi forte. Finge di essere adulto perché nessuno si prende cura del bambino che è.

Le trappole, così idolatrate, sono in realtà un atto disperato di controllo. Kevin non gioca: combatte. Trasforma l’intelligenza in difesa, l’immaginazione in arma. I ladri sono caricature, sì, ma rappresentano l’irruzione del mondo esterno in uno spazio che Kevin sta cercando di difendere come unica casa possibile: la sua.
Ed è qui che il film colpisce più a fondo, nei momenti che non fanno ridere. L’incontro con il vicino “spaventoso” è lo specchio perfetto di Kevin: due solitudini giudicate dall’esterno, due esseri umani ridotti a etichette. In quella panchina, in quella chiesa, Mamma, ho perso l’aereo parla finalmente chiaro: la paura nasce quando nessuno ci guarda davvero.

La madre, parallelamente, non è un’eroina. È una donna che sbaglia. Che corre, che si dispera, che capisce troppo tardi. Ma il film non la punisce: le concede il ritorno. E quel ritorno non è trionfale, è necessario. Perché il film non dice che si sta meglio da soli. Dice che si sopravvive, ma non si vive.
La musica di John Williams non accompagna il Natale: accompagna la nostalgia. È una colonna sonora che sa di ricordo, di infanzia, di qualcosa che non torna più uguale. Ed è per questo che il finale commuove ancora: non per il lieto fine, ma per la consapevolezza che crescere significa anche perdonare.

Mamma, ho perso l’aereo è un cult perché non promette felicità eterna. Promette una cosa più rara: il ritorno. Tornare a casa, tornare a essere visti, tornare a non sentirsi sbagliati. E ogni volta che lo riguardiamo, in fondo, stiamo cercando la stessa cosa.



Nessun commento:

Posta un commento