lunedì 29 settembre 2025

Randye Lordon: Ardere d’odio



Una grigia mattina, svegliandosi, Mitchell Smith decise che era tempo di agire. Si guardava attorno nella misera cameretta e pensava alla sua casa, su nel nord. Dal letto nel quale si era abituato a svegliarsi per ben quindici anni, a quest’ora avrebbe potuto contemplare le foglie della quercia che, al di là della finestra, sembrava stormire per dargli il buongiorno. Invece, si ritrovava a osservare, sulla parete di fronte, il percorso privo di direzione di un insetto.
Cominciò a programmare la giornata. Era sabato. Lei sarebbe stata al lavoro.
Gettate in là le coperte, si sottrasse al calduccio del letto e, a piedi nudi, andò nel bagno. Sorrise alla propria immagine nello specchio e si passò le dita tra i capelli pepe-e-sale. Fece la doccia, la barba, poi si ammirò ancora una volta prima di uscire e affrontare la città che detestava.
Nell’aria c’era il primo freddo dell’autunno. Svoltò nella Broadway. Nel caffè greco stagnava un odore di pancetta e di ammoniaca. Finì la sua terza tazza di caffè, diede una mancia molto generosa al cameriere dall’espressione arcigna e pagò alla cassa.
Durante l’ora e quaranta minuti che occorrevano per percorrere in macchina il familiare tratto di strada tra la città e la sua casa, fischiettò allegramente, rifiutando di permettere a se stesso di pensare. Quante volte aveva detto a lei, lungo quello stesso percorso: «La strada è troppo bella per ingombrarla di pensieri». Svoltò nel lungo viale d’accesso privato e per gli ultimi quattrocento metri guidò in silenzio.
La ghiaia scricchiolava sotto le sue suole di gomma, mentre si avviava a piedi verso la casa. Si fermò a inebriarsi della vista della facciata. La casa aveva cento anni, e lui ne aveva trenta quando l’aveva vista per la prima volta. Lei aveva riso, quando le aveva confidato il suo sogno di comperare «il vecchio rudere sulla collina», come diceva la gente del luogo, ma alla fine si era dichiarata d’accordo. I soldi dell’eredità di lei erano finiti, ormai, e per comperare la casa si erano aiutati a vicenda, raggranellando tutto il possibile. «A volte, Mitch», scherzava lei, «penso che tu voglia più bene a questa casa che a me», e allora lui l’abbracciava e se la teneva stretta stretta.
La sua chiave scivolò senza difficoltà nella serratura, che subito scattò, aprendosi. Lei allora aveva mentito, dicendo d’averla fatta cambiare. Posò il sacco di carta nel soggiorno e si preparò un drink, poi andò a fermarsi sulla soglia del suo studio.
Lei aveva cambiato la disposizione dei mobili. Seduto alla scrivania, Mitchell spostò la lampada da sinistra a destra, tirò giù il dizionario dallo scaffale per rimetterlo accanto alla lampada. Appoggiò il bicchiere sopra la carta asciugante, poi si abbandonò all’indietro nella vecchia poltrona un po’ cigolante e chiuse gli occhi.
Non era certo vuoto, il silenzio. Con l’occhio della mente, lui rivedeva sua moglie proprio come se stesse osservando alcuni spezzoni di un film, e ogni volta che la faccia di lei gli balenava davanti sembrava rivelargli nuovi aspetti della personalità, finora sconosciuti. «L’amore se n’è andato, Mitchell, non so dov’è finito. Ho bisogno di rimanere sola.»
Riaprì gli occhi, quasi aspettandosi di vederla seduta nella stessa poltrona che aveva occupato quando, con molta calma, gli aveva spiegato perché era sempre così lontana da lui. Ma la stanza non era più la stessa e gli occhi di Mitchell si posarono invece su un vecchio arcolaio. Si alzò in fretta, allora, e lasciò lo studio, chiudendosi la porta alle spalle.
Nel girovagare per la casa, notò qua e là altri piccoli cambiamenti: una sedia aveva cambiato posto, un tavolino non c’era più. Sapeva che, durante i quattro mesi in cui lui aveva vissuto in, città, la moglie aveva metodicamente tentato di cancellare la sua presenza dalla casa. Preferì tenersi alla larga dalla cucina, che era sempre stata il regno di lei.
Strano ma vero, la stanza da letto non era cambiata. Lei era uscita in fretta quel mattino, trascurando di rifare il letto. Mitchell si attardò un poco a tirare le lenzuola, a lisciare la coperta celeste con gli orli di raso. Appese la vestaglia di lei all’attaccapanni dietro la porta del bagno, poi andò a gettare un’occhiata nell’armadietto dei medicinali. Sulle piccole mensole c’erano solo prodotti per donna, e lui sorrise apertamente, nel richiudere lo sportello. Si stese sul letto rifatto, inviando un saluto alla quercia. Badando a non appoggiare le scarpe sulla coperta, sorseggiava la sua bibita e prendeva profondi respiri. I cuscini gli rimandavano il profumo di lei.
Una volta vuotato il bicchiere, ritornò nel soggiorno. Si versò un altro drink e notò che le foto dalla mensola del caminetto erano state tolte. Si avvicinò alla finestra. Lei aveva trascurato il prato e aveva dimenticato di ricoprire le aiuole con un telo di plastica. Prese un’altra, lunga sorsata, poi ritornò verso il sofà e tirò fuori dal sacco di carta il primo, grosso contenitore. Tornato di sopra, prese a spargere il liquido infiammabile nelle camere di sopra, poi giù per gli scalini di legno. Il secondo contenitore lo vuotò al piano principale e, in particolare, nello studio. Infine, con calma, andò alla porta di strada e la chiuse a chiave, sapendo che, come via di fuga, avrebbe usato la porta di servizio; poi sedette sul divano del soggiorno e, aspirando con gusto i vapori di benzina, tirò a sé il telefono.
Dopo tre squilli, rispose una voce estranea.
— Agenzia Immobiliare Amelia Grayson.
Chiese di Amelia e venne lasciato in attesa. Aspettò pazientemente.
— Sì, prego? — La voce di lei, filtrata attraverso il ricevitore, era energica, d’affari.
— Buongiorno, mia cara... come va? — Intendeva essere magnanimo.
— Mitch? 
Colse l’irritazione di lei e accavallò le gambe. — Sì.
— Mitchell, ho molto da fare in questo momento... è così importante?
Lui si passò la lingua sulle labbra. — Pensavo che potessimo scambiare poche parole. — Non le diede il tempo di protestare. — Hai dimenticato di coprire le aiuole e gli ortaggi. — Ne ascoltò il respirò ansante e continuò: — Ora, come sappiamo entrambi, non è giusto che la casa l’abbia tu.
— Mitchell, ne abbiamo già discusso non so quante volte. — Voci smorzate, nello sfondo, distrassero per un po’ l’attenzione di lei. Mitchell aspettò. — Ascolta, Mitch, — riprese la moglie di lì a qualche istante, — è stata tua la decisione di trasferirti in città. Hai detto che sarebbe stato meglio per la tua attività di scrittore. — Una pausa. — Il libro come procede?
— Se lo sono mangiato gli scarafaggi. Siamo punto e da capo, Amelia. Sapevi che la sola cosa che volevo, quando ci siamo divisi, era la casa. Mi dovevi almeno questo.
— Mitchell, non solo la casa appartiene a me, dal lato legale, ma ci tengo ad averla quanto ci tieni tu. — Ora poteva sentirla accendere una sigaretta.
— Credevo che avessi smesso di fumare.
— Ho ricominciato. — Altra pausa. — Ascolta, ho davvero molto da fare, ora. Fammi un favore: perché non fai un salto da me in ufficio? C’è una proprietà nella stessa zona che sarebbe l’ideale per te.
— Tesoro, è perfettamente inutile. La casa è mia. — Mitchell finì di bere. Capiva benissimo d’averla messa in agitazione. Non aveva niente altro da aggiungere, così posò pian pianino il ricevitore sulla forcella e si alzò dal sofà.
Arrivato a metà scala, estrasse dalla tasca posteriore una bustina di fiammiferi. Ne accese uno e accostò la fiammella a uno degli scalini un po’ più in alto. La passatoia prese fuoco immediatamente e il fuoco seguì la traccia di benzina su su, verso le stanze da letto.
Dalla soglia della cucina, gettò un altro fiammifero acceso verso la sala da pranzo. Il fiammifero si spense prima di arrivare a terra. Di sopra, intanto, già il fuoco crepitava, e il calore cominciava ad arrivare fino a lui. Mitchell si abbassò, accese un altro fiammifero e lo posò direttamente sul liquido sparso al suolo. Una sottile linea di fuoco corse via, attraverso la sala da pranzo e fino in soggiorno. Lui voltò le spalle alle fiamme ed entrò in cucina.
I pensili gialli splendevano nel sole pomeridiano. Mitchell passò rapidamente in rassegna la stanza. Lei aveva cambiato le tendine alla finestra. Ma soltanto nell’avvicinarsi alla porta Mitchell notò un altro cambiamento: un sottile palo di metallo che sporgeva lungo il centro della porta, la base incuneata in un foro che era stato praticato nel pavimento. Una serratura di sicurezza. Ne aveva già viste altre, come quella. Provò a scrollare l’asta di ferro. Non si muoveva. La porta era stata chiusa dall’esterno. («Non mi fido di questa serratura, Mitch», aveva detto lei. «Dovremmo farne mettere una sicura come quella della porta di strada.»)
Assestò un calcio all’uscio. Poi, prese un profondo respirò, rifiutandosi di permettere al panico di affiorare. Intorno a lui, cominciavano a formarsi volute di fumo. Corse alla finestra e scostò le tende nuove. All’esterno, lei aveva fatto installare una grata in ferro battuto. Ruppe allora il vetro e tentò di scrollar via la grata, aspirando intanto profonde boccate d’aria fresca.
Il fumo diventava sempre più denso. Mitchell fece dietro-front, per tornare di corsa verso l’uscita principale. Dalla porta della cucina, di trovò di fronte a un vero muro di fuoco, poi udì un tremendo schianto e comprese che il piano superiore cominciava a crollare. Tra il fragore delle fiamme, udiva se stesso urlare. Gli occhi gli bruciavano per il fumo. Guardò in giù e si accorse d’avere la gamba sinistra dei calzoni in fiamme, sebbene non sentisse niente.
Rideva e piangeva, mentre si avvolgeva la giacca attorno alla gamba per estinguere il fuoco. Riprese a strisciare verso la porta di servizio, riuscendo a stento a vederci attraverso tutto quel fumo nero. Stava perdendo le forze, ma ruppe col pugno il piccolo pannello di vetro della porta. Il sangue gli sprizzava dal polso, mentre, brancolando alla cieca, cercava invano di arrivare alla maniglia esterna. Il calore era insopportabile. Sentendosi soffocare, gli sembrò di avvertire in distanza il suono delle sirene. Il telefono di cucina cominciò a squillare.
Mitchell scivolò a terra, ascoltando la distruzione all’opera, le sirene, il telefono che rimaneva senza risposta. Si rannicchiò contro la porta. Ho vinto, pensava, mentre le fiamme si facevano sempre più vicine. È mia, ora. Chiuse gli occhi e sorrise. — È mia, — bisbigliò, scivolando nell’incoscienza.

 


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