Tutti i miei guai sono cominciati il giorno che hanno assunto quella donna per fare il mio stesso lavoro. D’accordo, lei fa parte di un’altra squadra, però fa la stessa cosa che faccio io e nello stesso posto. Insomma, facciamo lo stesso lavoro ma in due turni diversi.
Lavoro per la Compagnia Mineraria Table Mountain, come “talpa”. Vi spiego: il carbone viene portato fuori della miniera su un nastro trasportatore che lo fa cadere dentro un tubo, e dal tubo, uscendo, quel carbone forma un mucchio enorme di materiale grezzo. Il materiale più piccolo casca giù dritto, quello a pezzi grandi come sassi rimbalza un po’ più in là, e così via fino ai blocchi molto grossi, che rotolano verso la parte terminale del mucchio. Sotto questa montagna di carbone c’è un tunnel, che ha un tetto di lamiera molto spessa, con tanti fori. Ciascuno dei fori viene a trovarsi sotto quella parte del materiale di una determinata dimensione, e ha uno scivolo a forma di imbuto e un portello.
Il mio mestiere – e quello di lei – è di regolare quei portelli a seconda della dimensione dei pezzi richiesti giù all’impianto di lavorazione. Mettiamo che vogliano pezzi di dimensione media: bene, io apro il primo portello soltanto in parte, lasciando scendere un po’ del materiale più fine, poi apro in parte il terzo portello, lasciando cadere i pezzi di dimensione media sul nastro trasportatore del tunnel; da lì, una volta arrivati in fondo al tunnel, i pezzi finiscono dentro il cassone di un camion. I camion trasportano il materiale giù a valle, dove viene sottoposto a lavorazione e poi caricato sui vagoni-merci.
Questa parte del lavoro è semplice: la parte che odio, invece, è quella di ripulire. Non sempre il nastro trasportatore corre via diritto, qualche volta scivola giù da un lato e versa il carbone per terra, e mi tocca tirarlo su con la pala e rimetterlo sul nastro, che resta più in alto della mia testa. È una faticaccia, e devo ammettere che ci sono tante altre maniere molto più piacevoli di occupare il tempo.
Io il problema l’avevo risolto, prima che venisse lei. Seduto nella mia capanna di lamiera, tranquillo e al caldo, mi faccio un pisolino, mi leggo Playboy, oppure guardo fuori della finestra e vedo correre i cervi. Ogni tanto rientro nel tunnel a controllare i portelli e, se un po’ di carbone finisce in terra, be’, l’uomo dell’altro turno fa pulizia ogni venerdì, soffia fuori tutta la polvere che si accumula sui rulli e sulle pareti e poi sparge dappertutto uno strato di polvere di roccia. Sì, perché la polvere di carbone può causare un’esplosione, alle volte, e gli agenti federali sono severissimi per quel che riguarda l’accumulo di polvere di carbone e lo strato di protezione di quell’altra polvere. Così, se anche c’è un po’ di materiale in più da spalare, chi volete che venga a saperlo? Ci pensa quell’altro, che tanto è vicino alla pensione, perciò mica va a lamentarsi, vi pare?
Poi, l’altro in pensione ci va, e assumono quella... quella donna, perché prenda il suo posto. Oho, dico io, staremo un po’ a vedere quanto dura. Lo sanno tutti che una donna non può fare tutto il lavoro che fa un uomo. Così me la piglio comoda e lascio che se la sbrighi lei a raccogliere il materiale che scappa giù dal nastro. Lei non protesta. Immagino sappia che la compagnia mineraria non la vuole, anche se ha dovuto assumerla per la solita manfrina sulla parità di diritti, eccetera. Ma ecco che un giorno il suo capo, il vecchio “Mastino” Barrett, scende nel tunnel e vede tutto il disordine che ho lasciato, perché tanto c’è lei che ci pensa, e il giorno dopo mi salta in testa e me ne dice di tutti i colori. Urla che devo fare il mio lavoro come si deve e, già che c’è, aggiunge un paio di frecciate, dicendo che almeno lei si presenta al lavoro tutti i giorni. Roba da matti, a sentirlo ci sarebbe da credere che gli piaccia, avere una stupida donna tra i piedi.
Così i mesi passano e lei ogni giorno alza di più la cresta. Una volta lascia addirittura il tunnel in uno stato da far paura e mi scrive un biglietto, dicendo che è stufa di ripulire anche per me e che, d’ora in poi, quello che lascio così lo ritrovo. Che faccia tosta! In tanti anni che faccio questo mestiere, nessuno s’è mai azzardato a parlarmi in quel tono. Mi brucia, naturalmente, così lo dico al mio caposquadra. Chissà perché, lui non mi dà nessuna soddisfazione.
Lei, intanto, continua a tenermi sotto pressione, e un giorno che il Grande Capo mi coglie a schiacciare un sonnellino, la faccenda comincia veramente a mettersi male. Io sono sempre con i nervi tesi, e proprio perché ho i nervi tesi il lavoro ci va di mezzo. Ai capoccia questo non piace, ma non vedo come possano licenziare un individuo solo perché non sta bene. Giusto?
Così, il colpo finale arriva quando il Grande Capo mi chiama nel suo ufficio e dice: «Jack, abbiamo avuto troppe lamentele sul tuo assenteismo, sul modo come lavori – anzi, come non lavori – e sul fatto che ti addormenti mentre sei in servizio. La prossima volta – la prossima, bada – che ti colgono a dormire, o a non fare il tuo dovere, o a rimanere assente senza la giustificazione del medico, ricordati che con noi avrai chiuso, e tanti saluti.»
Poi mi dà una strana occhiata e dice: «Abbiamo messo una donna, all’altro turno, proprio per vedere se ti saresti vergognato un po’ e se avresti lavorato meglio. Ma già, a te non importa un bel niente se una donna fa il tuo stesso lavoro molto meglio di te».
Resto a bocca aperta, tanto non sto più né in cielo né in terra. Quando finalmente trovo qualcosa da rispondere, lui è già uscito dalla stanza. Non posso credere a quello che ho sentito. Ed è allora che decido che quella là deve andarsene.
Passo tutta la settimana successiva a studiare il tunnel, in cerca della maniera per sbarazzarmi di lei, in modo che le cose tornino come prima del suo arrivo. Prendo in considerazione alcune parti ma sono troppo solide per tentare un sabotaggio, e naturalmente deve sembrare un “incidente”. Alla fine decido per il portello dello scivolo N. 4. Non lo uso mai, perché solleva troppa polvere e a me non va di portare la maschera. Mi lascia degli strani segni sulla faccia. Mentre lei usa il N. 4 molto spesso, perché all’addetto all’impianto di lavaggio della sua squadra piace di lavorare sui blocchi più grossi. E inoltre, lo scivolo è già indebolito da quella volta che vi rimase incastrato dentro un grosso pezzo di roccia e ci toccò far saltare il masso per liberarlo. Esagerammo un po’ con la carica, e in quel punto la volta metallica è un po’ deformata.
Ci metto due giorni ad allentare i dadi che assicurano lo scivolo al tetto. Secondo i miei calcoli, quando lei prende servizio e apre quel portello, il peso di tutti quei massi di carbone e di roccia che piombano sul portello farà staccare lo scivolo dal tetto, lasciando un’apertura di un metro e mezzo di diametro attraverso la quale il carbone verrà giù a precipizio. Ci vorranno cinque secondi al massimo perché lei rimanga completamente sepolta sotto quei blocchi enormi. E chi potrà provare che non è un incidente? In fin dei conti, quei bulloni sono soggetti a uno sforzo continuo e la vibrazione può benissimo averli allentati. Quanto ai segni lasciati dalla chiave inglese, c’erano già dal giorno in cui sono stati installati gli scivoli.
Così, il giovedì preparo la trappola. Sto canticchiando la mia canzoncina preferita, mentre risalgo gli scalini per tornarmene nel mio casottino, al sicuro: dopo di questa giornata le cose torneranno com’erano una volta. Sono talmente immerso nelle mie riflessioni che non sento neppure il mio caposquadra venir su dagli scalini, finché lui non dice: «Ehi, Jack, oggi faremo partire i blocchi più grossi, perciò torna giù nel tunnel e apri il portello del N. 4. Io t’aspetto qui».
Nessun commento:
Posta un commento