Stati Uniti, 1929 / Mignon G. Eberhart
Col naso aquilino, la pelle lentigginosa, i capelli rossi e, come dice lei stessa nelle prime pagine del romanzo che vede il suo esordio, La stanza n. 18 (The patient in the room 18), «una certa tendenza alla pinguedine», l'infermiera Sarah Keate è una
donna di mezza età che non si perde mai d'animo e ama il proprio mestiere sopra ogni cosa. «Nessun abito - dice - sta bene indosso a una donna quanto la bianca e inamidata divisa».
Ama anche curiosare qua e là, raccogliere pettegolezzi e ficcare il naso dove non dovrebbe. E alla fine - spesso grazie all'aiuto del giovane ispettore di polizia Lance O'Leary, costretto al ruolo di "spalla"- riesce sempre a risolvere misteri e delitti.
La simpatia che questo personaggio di donna non più giovanissima ma sempre un po' vezzosa, dotata di solido buon senso e di una grande capacità di osservazione, suscitò al suo primo apparire, convinse la scrittrice che anche nella tradizione poliziesca all'inglese, cui essa si ispirava, cominciava ad avvertirsi la necessità di una diversa composizione dei ruoli: la figura centrale dell'investigatore magniloquente e del tutto estraneo alla vicenda poteva per esempio essere benissimo sostituita da un'infermiera davvero in gamba.
Nel breve periodo compreso tra il 1935 e il 1938 ben sei sono i film che si ispirano all'infermiera Sarah Keate. Il migliore è probabilmente The patient in the room 18, diretto da Crane Wilbur e interpretato da Ann Sheridan.
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