venerdì 25 aprile 2025

Miyoshi Ryuko: Pianeta penitenziario



Cara Frequenza, siamo un gruppo di ergastolani appena trasferiti nel pianeta penitenziario
H 2124, detto il “pianeta senza sbarre”, dove sono in uso i nuovi sistemi
umanitari. Molti di noi, che abbiamo già passato degli anni in fondo ai pozzi di Venere,
o nelle cosmogalere cellulari che ruotano intorno a Vega, o anche negli antichissimi
penitenziari terrestri della barisfera, eravamo felici di venire qui: dove ci
avevano promesso che non saremmo stati rinchiusi né guardati a vista, ma avremmo
goduto di ogni libertà di circolare a nostro piacimento per tutto il pianeta.
Ed è vero: saremo liberi di circolare a nostro piacimento! Ma...
Stamattina, quando siamo arrivati qui dopo tre anni di viaggio in razzomerci, il
Direttore del Trasporto ci ha spiegato come funziona, più o meno; questo nuovo sistema
umanitario. «Non crediate» ci ha detto con brutale franchezza, «che si tratti davvero
di ragioni sentimentali e umanitarie. Gli orrendi delitti che vi hanno escluso per
sempre dalla società umana, vi escludono anche da ogni pietà. Le ragioni per cui vi
abbandoniamo a voi stessi, senza sorveglianza di nessuna specie, su questo pianeta
relativamente comodo e confortevole, sono di natura esclusivamente economica: e
cioè, appunto, per potere abolire del tutto il personale di sorveglianza. Domani vi
calèremo a terra, il Trasporto ripartirà, e tanti saluti. Fino a domani, resterete ancora a
disposizione del personale tecnico».
Siamo rientrati nei nostri stanzoni, e dagli oblò guardavamo il pianeta, a poche
centinaia di metri sotto di noi. Si vedeva una campagna verde, alberi, e qua e là dei
villaggi di capanne costruiti dagli ergastolani. Su uno spiazzo, al centro del gruppo di
capanne più vicino, c’era gente che agitava le braccia verso di noi.
— Evviva! — abbiamo gridato da dietro gli oblò, sventolando i fazzoletti per
rispondere a quei saluti.
Ed abbiamo cominciato, naturalmente, a fare progetti.
— Io — diceva uno che veniva dai Pozzi di Venere, — mi farò una capanna su
quella collina laggiù...
— Macché capanna! — diceva un ex tecnico dell’Immobiliare Intergalattica. — Io
mi costruirò un bel villino a due piani! Chi si mette in società con me?
— Io, io! — hanno risposto da tutte le parti. — Altro che quelle capanne lì! Costruiremo
una città... Faremo palazzi con l’ascensore... Fabbricheremo automobili... E
la radio... E la televisione... E...
— E una astronave! — ha detto tutt’ad un tratto qualcuno.
— E una astronave! — abbiamo gridato tutti. — Un’astronave!
Poi ci siamo guardati l’uno con l’altro e siamo ammutoliti, guardando verso le
porte dello stanzone. Qualcuno ha cominciato a fischiettare, per darsi un contegno.
Ma negli occhi di tutti s’era accesa una nuova speranza: con tanti ex tecnici di ogni
specialità che ci sono tra noi, con tanti altri che ce ne saranno laggiù, con tutto il
tempo, tutta la libertà per lavorare, con le risorse minerarie di tutto un pianeta a
disposizione...
— Un’astronave... un’astronave... — si ricominciava a sussurrare.
Ma io guardavo di nuovo il pianeta, attraverso gli oblò, e c’era qualcosa che non
mi convinceva. Quei gesti che facevano gli ergastolani raccolti laggiù, sullo spiazzo
tra le capanne, sembravano più di disperazione che di saluto: allargavano le braccia o
le tendevano in alto, come per mostrare qualche cosa che noi da così distante, non
potevano vedere, e in quei gesti c’era una stranezza indefinibile, qualcosa che avevo
sotto gli occhi eppure non mi riusciva di afferrare: qualcosa, cominciavo a pensare, di
terribilmente sinistro... E poi quelle capanne: rudimentali ammassi di frasche. Eppure,
non distante dal villaggio, si vedeva il greto pietroso d’un torrente. Possibile che non
riuscisse nemmeno a costruirsi delle case di sassi, quella gente che secondo noi
avrebbe potuto fabbricare un’astronave?
Stavo per comunicare queste riflessioni ai miei compagni, quando una porta dello
stanzone s’è aperta, ed è entrato uno del personale tecnico, un infermiere, per annunciarci
che chi voleva scrivere alla famiglia doveva farlo subito. Poi ha detto qualche
altra cosa all’orecchio del capostanza, e se n’è andato.
— Che cosa ha detto? Che cosa ha detto? — abbiamo chiesto tutti.
Il capostanza era pallido e non voleva rispondere. Ha ripetuto che chi voleva
scrivere alla famiglia, doveva farlo subito. Entro un’ora.
— Va bene — ho detto io. — Possiamo scrivere subito. Ma perché tanta fretta? Le
lettere, immagino, le riporteranno indietro col Trasporto. Ed il direttore non ha detto
che resteremo qui fino a domani?
— Già — ha risposto il capostanza con una voce che appena si sentiva. — Ma ha
detto anche che fino a domani restiamo a disposizione del personale tecnico... E ci ha
detto che è per via del... Per via del vaccino, credo.
Gli altri si sono accontentati di questa spiegazione, e si sono messi a scrivere alle
famiglie. Io non ho famiglia, e mi sono messo a pensare. Sono tornato agli oblò e ho
guardato meglio in basso. Poi sono andato dal capostanza, che stava scrivendo (ma
non riusciva a tracciare una parola, tanto gli tremava il polso), e gli ho chiesto piano
qualcosa. M’ha guardato e ha fatto lentamente segno di sì; s’è rimesso a tentare di
scrivere.
Io, come ho detto, non ho famiglia, e perciò scrivo a te, cara Frequenza N. Non
chiedo aiuto per noi, perché ormai è troppo tardi. Ti chiedo solo di far presente in alto
loco (mi pare che si dica così) che noi ergastolani preferiremmo la più angusta delle
celle, la più stretta delle sorveglianze, alla sorte che ci hanno riservato in questo pianeta
“umanitario”! In questo pianeta “senza sbarre”! Sì, è vero: il Direttore ha detto
che è una questione di economia, non di umanità. Ma è possibile che ogni sentimento
di umanità debba perdersi, con noi ergastolani, fino a questo punto? Io non so... Mi
mancano le parole per dire quello che sento. E del resto, il tempo che ci hanno concesso
per scrivere sta per scadere... Tra poco, non potrò più scrivere né a te né a
nessun altro, mai più... Tra poco, ci taglieranno le mani.

 

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