venerdì 4 aprile 2025

Ben Bova: Beibol


Nixon sedeva accigliato in panchina, con il mento scuro chino sulle lettere della sua divisa da baseball e gli occhi gonfi di rabbia. Non era furibondo con noi, ma con Castro.
Dall'altra parte del campo, i Cubani stavano distribuendo sigari nella loro area di panchina. Era la fine del nono inning e loro erano in vantaggio, 1 a 0. Avevamo ancora tre possibilità contro il loro lanciatore robot. Fino ad ora, tutto quello che quel mostro meccanico era riuscito a fare era eliminare quattordici di noi, giocatori scelti americani, e non permettere a nessun corridore di oltrepassare la prima base.
Castro sembrava molto più vecchio di quanto avessi immaginato, e la sua barba era tutta grigia. Però adesso stava ridendo e aspirava un grosso sigaro mentre la sua squadra tornava in campo e quel dannato robot rotolava sulla pedana.
Nixon balzò in piedi. Aveva un aspetto buffo nell'uniforme da baseball, e sembrava fuori posto.
«Uomini» ci disse «questo è più di un gioco. Sono certo che lo sapete.»
Noi tutti mormorammo e borbottammo e annuimmo.
«Se vincono questa serie, diventeranno padroni di tutti i Caraibi. Di tutta l'America Centrale. Gli Stati Uniti saranno umiliati.»
Sì, forse era così, pensai. E tu sarai di nuovo un furfante, anziché un eroe. Ma lui non doveva scendere in campo e provare a battere contro quel robot comunista. Da quel che avevamo sentito, era stato costruito da qualche parte, in Cecoslovacchia o in un altro posto del genere, perché tirasse granate contro i carrarmati. E adesso stava lanciando palle da baseball che ci passavano sotto il naso, come fulmini.
«Dobbiamo vincere questa partita» insistette Nixon con voce tremante. «Dobbiamo.»
Era sembrata una buona idea, quella di usare il baseball per ristabilire le relazioni amichevoli con Cuba, proprio come avevamo usato il pingpong per fare amicizia con la Cina Rossa. E così il Commissario aveva scelto di persona una squadra di campioni e Washington aveva scelto Nixon perché ci dirigesse. Avevamo pensato tutti che sarebbe stato uno scherzo. Voglio dire, ai Cubani piace il baseball, ma non potevano assolutamente essere alla nostra altezza.
Ebbene, il lancio può costituire l'ottanta per cento del gioco, ma la ricognizione è il duecento per cento. Arrivammo tranquilli all'Avana e ci ritrovammo a giocare contro dei tipi che erano bravi quasi quanto noi. Stando ai rapporti della CIA, quei giocatori erano imbottiti di steroidi e di acceleratori di riflessi e Dio sa di che altro. Non avrebbero mai superato un esame della saliva ai Giochi Olimpici, ma nessuno dei nostri aveva pensato d'includere un test antidoping fra le regole di base.
Oh, d'accordo, vincemmo le prime due partite, ma non fu facile.
E allora i Comunisti usarono la loro prima arma segreta contro di noi: le donne. Fu come se il nostro albergo ne fosse stato di colpo invaso. Tipi alti del genere fotomodella, piccole señoritas, rosse, bionde, occhi scuri e lampeggianti e splendide labbra che sorridevano e ridevano. E la carrozzeria. Non ho mai visto tanti corpetti scollati, tintinnanti e dondolanti in vita mia.
Cosa potevamo fare? Il nostro giocatore guardia terza base si fece male alla schiena mentre dondolava, appeso per le ginocchia al lampadario della sua camera, con una ragazza in un braccio ed una bottiglia di champagne nell'altro. Due dei nostri migliori lanciatori si ubriacarono al punto che la mattina dopo non riuscivano neanche a vedere i loro ricevitori. E il nostro esterno centro, che di solito batteva alla perfezione, venne trovato sotto il suo letto in uno stato di coma che si protrasse per tre giorni; per tutto quel tempo sulla sua faccia rimase comunque stampato un grande sorriso.
A quel punto, i Cubani erano passati in vantaggio, con tre partite contro due. Nixon indisse una riunione di squadra e ci strigliò per bene.
«Questo deve finire» dichiarò, passeggiando avanti e indietro per lo spogliatoio, le mani serrate dietro la schiena curva, le mascelle tremanti d'ira.
«Quelle donne sono agenti comunisti addestrati» ci avvertì. «Ho ricevuto una serie di rapporti del servizio informazioni da Washington. Castro non ha alcuna intenzione di stabilire relazioni amichevoli con noi...»
Qualcuno ridacchiò alle parole relazioni amichevoli, ma s'interruppe in fretta quando Nixon ruotò su se stesso, cercando il colpevole come un insegnante di scuola che abbia a che fare con un gruppo di ragazzi indisciplinati.
«Non è una cosa buffa! Se vincono questa serie, i Comunisti andranno in giro per tutta l'America Latina gracchiando maldicenze sulla debolezza degli Stati Uniti. Perderemo tutte le isole dei Caraibi, l'America Centrale, Panama... tutto!»
Promettemmo di comportarci bene. Diavolo, lui era preoccupato per l'America Latina, ma la maggior parte di noi aveva problemi più importanti. Io m'immaginavo la mia prossima contrattazione salariale. "Ma se non è riuscito neppure a battere un gruppo di Cubani di terza categoria!" avrebbe detto il direttore generale al mio agente.
Cosa ancora più importante, mi sembrava di vedere la faccia di mio padre. Lui aveva impiegato parecchi anni ad insegnarmi come giocare a baseball, e mi aveva sempre detto che potevo diventare un professionista. E non mi aveva mai chiesto nulla, tranne che dare il meglio di me stesso sul campo. Non sarei più stato capace di guardarlo in faccia, sapendo che avevamo perso contro Castro perché ci eravamo dati alla bella vita.
Quel pomeriggio scendemmo in campo e li facemmo a pezzi, 11 a 2; questo risultato ci portò al pareggio. La settima partita, quella finale, avrebbe deciso tutto.
Fu a quel punto che ricorsero alla loro seconda arma segreta: Raoul il Robot, il mostro meccanico, il lanciatore cecoslovacco, la macchina che tirava palle supersoniche.
Credetti che a Nixon sarebbe venuto un colpo apoplettico quando il piccolo robot rotolò sulla pedana del lanciatore per avviare il gioco. Somigliava ad una specie di refrigeratore per acqua, un tozzo cilindro di metallo sormontato da una cupola di vetro, ed aveva due "braccia": curvi tubi di metallo che ruotavano parecchie volte e poi ti tiravano contro la palla. In fretta. Molto in fretta.
Nixon si precipitò urlando in campo prima che il nostro capo battitore arrivasse al piatto... Castro si avvicinò, sorridendo e aspirando il sigaro. La folla immensa... lo stadio dell'Avana era assolutamente gremito... gli dedicò quel tipo di ruggito che gli spettatori americani riservano ai lanciatori che tirano palle imprendibili nella settima partita del Campionato Mondiale. Lui si voltò, si tolse il cappello proprio come avrebbe fatto qualsiasi giocatore professionista, poi andò a prendere parte alla discussione che infuriava sulla pedana.
Nixon ci fece sentire orgogliosi di lui. Saltò su e giù, gettò il cappello nella polvere e lo prese a calci, divenne rosso in faccia. Infuriò e gridò contro gli arbitri, due dei quali erano Americani e due Cubani.
La folla ne fu entusiasta e cominciò a gridare "Olé!" ogni volta che lui sollevava a calci un po' di terra.
Gli arbitri consultarono il regolamento: non c'era nessuna regola che stabilisse che tutti i giocatori dovessero essere umani, quindi Raoul il Robot rimase sulla pedana.
Eliminò la nostra ala nel primo inning. Il secondo venne iniziato dal nostro miglior battitore, ben riposato dopo i tre giorni di coma, che riuscì a piazzare un tiro veloce nel centro esterno. Ma i due giocatori successivi furono eliminati.
E andò avanti così. Raoul aveva tre tiri base: veloce, più veloce e velocissimo. Nessuna curva, nessuna scivolata, nessun cambiamento. Le sue palle rapide erano anche piuttosto diritte, senza molto effetto o picchiata. Si limitavano a passarti davanti fulminee, prima che tu avessi il tempo di muovere la mazza. Poteva tirare tanto con la destra quanto con la sinistra, a seconda del battitore.
Non era però assolutamente in grado di prendere la palla. Dopo ogni lancio, il ricevitore tirava la palla all'interbase, che saliva sulla pedana e infilava la palla in un'apertura rotonda sulla cima della testa di vetro del robot. Allora la macchina era pronta per ruotare e tirare.
«Colpitelo alla testa» ci consigliò Nixon. «Rompete il vetro e scaraventatelo via, all'inferno.»
Facile a dirsi. Durante i primi quattro inning piazzammo esattamente un solo uomo sulla base, una passeggiata. Il loro ricevitore regolò un piccolo congegno che aveva attaccato alla protezione per il torace, e il mostro meccanico ricominciò a tirare una successione di strikes.
Quando si arrivò al nono inning, avevamo collezionato due centri, in entrambi i casi due deboli colpi verso l'alto che per puro caso erano andati a cadere fra gli esterni. Raoul aveva eliminato quattordici dei nostri.
Nixon lanciava occhiate roventi di puro odio verso l'altra parte del campo, mentre Castro rideva e distribuiva sigari sulla panchina cubana.
Il nostro lanciatore si era comportato quasi altrettanto bene quanto il robot. Ma un errore della nostra riserva in terza base, un tiro rapido sacrificato e un arresto stretto con la mazza avevano dato ai Cubani un vantaggio di 1 a 0. Quell'unica corsa parve lunga quanto un milione.
Il nostro interbase riuscì a concludere il nono inning e a piazzare la sua mazza sulla palla. Nella corsa alla base, rimase fuori di mezzo passo.
Si fece avanti l'uomo successivo, niente male, dopo tre eliminazioni.
Esalai un sospiro di sollievo. Il prossimo giocatore, Harry Bates, avrebbe concluso la partita e quella sarebbe stata la fine. Io venivo subito dopo di lui, e di certo non volevo essere l'ultimo eliminato. Mi portai sul cerchio del campo, mi piegai con un ginocchio a terra e osservai la fase finale del gioco.
"Falla finita, Harry" dissi dentro di me. "Non mi mettere nei guai." Mi vergognavo un po' per quei sentimenti, ma era ciò che provavo.
Raoul piegò il suo braccio metallico a fionda una volta, due, quindi lanciò la palla, che passò in un lampo davanti al battitore. Primo strike. La folla gridò: «Olé!» Il ricevitore tirò la palla all'interbase, che trottò in cima alla pedana e la infilò nella fessura del robot come se avesse messo una moneta in un videogame.
Il braccio curvo di metallo ruotò ancora e la palla arrivò sibilando sul piatto. Secondo strike. «Olé!» Più forte, questa volta. Castro si appoggiò all'indietro contro lo schienale della panchina e intrecciò le mani dietro la testa: il suo sorriso era largo quanto una superstrada.
Ma al terzo lancio Harry riuscì a muovere la mazza e a battere un solido singolo, sopra la testa dell'interbase. Quello era per noi il primo vero colpo della giornata.
Sulla folla scese un silenzio totale.
Castro guardò a destra e a sinistra, poi scrollò palesemente le spalle. Non era preoccupato.
Io lo ero. Era il mio turno alla mazza. Tutto quello che avevo da mostrare, per i miei precedenti tre viaggi al piatto, era un'eliminazione e due tiri veloci.
Automaticamente, guardai verso il nostro suggeritore di terza base. Lui aveva gli occhi fissi sulla panchina. Nixon si grattò il naso, tirò la tesa del cappello e passò la mano sulle lettere scritte sulla camicia. Gli occhi del suggeritore sporsero dalle orbite, poi a sua volta si grattò il naso, tirò la tesa del cappello e passò la mano sulla scritta, sul petto.
Colpisci e corri.
Dannazione! Si aspettano che piazzi il primo lancio nell'esterno destro, mentre Harry corre verso la seconda base non appena il lanciatore comincia il suo tiro.
Davvero una strategia meravigliosa se si considera che c'è la dannata probabilità che la palla sia già nel guantone del ricevitore, prima che io abbia sollevato la mazza dalla spalla. Nixon sta cercando di fare il genio. Bene, per lo meno quando butteranno fuori Harry alla seconda base la partita sarà finita e non dovrò essere io a fare l'out finale.
Il mostro meccanico comincia a ruotare il braccio. Harry scatta dalla prima base e wham! La palla mi oltrepassa. Agito la mazza in modo un po' debole, giusto per rendere un po' più difficile il lavoro del ricevitore.
Ma il suo tiro è in ritardo. Raoul ci ha messo così tanto a ruotare il braccio che Harry è arrivato in seconda base con facilità.
Guardo di nuovo il suggeritore di terza base.
Lo stesso segnale. Colpisci e corri! Dolce Gesù! Adesso vuole che Harry punti alla terza. Serro i denti e batto la mazza sul piatto. Rubare la seconda base è molto più facile che rubare la terza.
Raoul gira il braccio meccanico, Harry scatta verso la terza, e la palla arriva sibilando verso di me. Sferro un colpo, ma la palla è già nel guantone del ricevitore che la sta tirando in terza. Harry si tuffa a testa in avanti e l'arbitro lo dichiara salvo. Per un'unghia.
Adesso la folla sta borbottando e rombando come una nuvola nera di temporale. Dalla terza dipende la corsa al pareggio.
E io ho addosso due strikes.
Nixon si affloscia sempre più sulla panchina, la faccia nascosta nell'ombra. Tanto Harry quanto il nostro suggeritore di terza base lo stanno fissando. Lui si contorce e si agita e allora il suggeritore si volta verso di me e si massaggia la mascella.
Devo colpire. Sono abbandonato a me stesso.
No, tutta la mia vita non mi era passata davanti agli occhi in un lampo, ma era come se fosse successo. Raoul, piazzato lassù sulla pedana, non aveva tirato altro che strikes fin dal quarto inning. Ancora uno strike ed io sarei stato fuori e la partita persa. L'unica volta che ero riuscito a colpire la palla avevo ottenuto un debole tiro volante. Riuscivo a pensare a una sola cosa che avesse qualche probabilità di successo.
Sai tirare, dannata lattina comunista, dissi mentalmente al robot, ma sei capace di prendere e rilanciare?
Raoul ruotò ancora il suo braccio metallico ed io raddrizzai le spalle e feci risalire la mano lungo la mazza. Con la coda dell'occhio vedevo i giocatori cubani che reagivano all'improvviso all'idea che io intendessi fermare la palla con la mazza. La prima e la terza guardia base accennarono a precipitarsi verso di me, ma era troppo tardi: il tiro era già avviato.
Anche Harry se ne accorse, e cominciò a correre verso la base.
Piazzai semplicemente la mazza davanti alla palla, tenendola floscia per attutire l'impatto. Ero sempre stato bravo nel fermare la palla, e questa volta mi doveva riuscire alla perfezione.
E ci andai dannatamente vicino. Rispedii la palla dritta verso la pedana, ed essa saltellò sull'erba mentre io scattavo verso la prima base, pensando: "Vediamo come te la cavi adesso, Raoul".
E quel dannato mostro meccanico figlio di puttana rotolò giù dalla pedana e raccolse la palla con la stessa precisione di un'aspirapolvere che prendesse un batuffolo di lana. Ero a meno di metà strada dalla prima e capii che avevo preso un granchio. Ero fregato.
Raoul il Robot risucchiò la palla, ruotò su se stesso in modo da fronteggiare la prima base e sparò la palla come fosse stata un proiettile contro il tizio che copriva la prima base. La palla vi arrivò con dieci passi di vantaggio su di me, strappò il guanto dalla mano del giocatore e continuò il viaggio nell'esterno destro, oltre la linea di fallo.
Il cuore mi balzò dalla gola allo stomaco e viceversa. Raoul aveva solo tre tipi di lancio: veloce, più veloce e velocissimo. Il poveretto che copriva la prima base non era mai stato colpito con tanta violenza e non aveva avuto la minima possibilità di trattenere la palla.
Harry segnò il punto, ovviamente, ed io dovetti battere il record per il trasferimento dalla prima alla terza base. Vi giunsi con uno scivolone che sollevò una tempesta di sabbia e polvere, precedendo il tiro di un battito di ciglia.
La partita era in parità. La corsa vincente... io!... era in terza base, a ventisette metri dalla meta.
E sullo stadio era sceso di nuovo un silenzio di tomba. Castro raggiunse la pedana e questa volta non ottenne neppure un applauso. Il ricevitore e tutti gli interni si raggrupparono intorno a lui e al robot. Castro, che era più alto di tutti i suoi giocatori, si voltò ed indicò qualcuno che era in panchina.
«Sta chiamando un lanciatore per la sostituzione!» commentò il nostro suggeritore di terza base.
Ma non eravamo tanto fortunati. Un uomo tozzo, di costituzione simile a quella del robot stesso, grossa e solida, come una bocca da incendio, lasciò con riluttanza la panchina tenendo in mano qualcosa che somigliava a una cassetta per gli attrezzi. Indossava una tuta da meccanico, non una divisa da baseball.
Armeggiarono intorno a Raoul per una decina di minuti, mentre la folla diventava irrequieta e Nixon lasciava la nostra panchina per dire agli arbitri che i Cubani avrebbero dovuto essere penalizzati perché stavano ritardando il gioco.
«Questo non è football, Signor Presidente» gli ricordò il capo degli arbitri.
Nixon brontolò e borbottò e ritornò alla panchina.
Finalmente, i lavori di riparazione sulla pedana si conclusero, i giocatori si dispersero e il meccanico lasciò il campo di corsa. Castro rimase sulla pedana mentre Raoul eseguiva qualche lancio di prova.
Cristo! Adesso non ruotava più il braccio, si limitava a girarlo una volta e scagliava la palla al ricevitore. Più veloce che mai.
E il nostro battitore, Pedro Valencia, aveva già mancato la palla tre volte di fila. Non era riuscito a mandarla in fallo neppure una volta, neppure una. Nove lanci, nove strikes, tre fuori campo.
Guardai verso il suggeritore, a mezzo metro circa da me, ma non ricevetti alcun segno. Nessuna strategia. Ero lasciato a me stesso.
Pedro entrò nel recinto del battitore e Raoul si piazzò sulla pedana. Il suo braccio meccanico girò e qualcosa che somigliava ad una pastiglia di aspirina ronzò nel guantone del ricevitore. «Olé!» Primo strike.
Lasciai la terza base con un buon vantaggio. La meta distava solo una dozzina di passi. L'interbase prese la palla tirata dal ricevitore e l'insinuò nella fessura del robot.
Se avessi rubato la corsa fino alla meta avremmo vinto, mentre se fossi stato eliminato avremmo perso di sicuro. Raoul poteva continuare a tirare in quel modo per tutto il giorno, tutta la notte, tutta la settimana. Presto o tardi ci saremmo stancati e ci avrebbero battuti. Non avremmo mai più avuto un altro corridore in terza base. Dipendeva da me. Adesso.
Non attesi che quel dannato robot cominciasse a tirare. Lui aveva la palla ed era sulla pedana, e nessuno aveva chiesto il time out. Scattai verso il piatto.
Sembrò che tutto accadesse al rallentatore. Potevo vedere l'espressione sorpresa sul volto di Pedro, ma lui era un professionista e tenne duro al suo posto, rispondendo al lancio. Mancò il colpo. Il ricevitore aveva la palla nel guantone ed io ero ancora di tre passi sopra la linea. Iniziai a scivolare lontano da lui, verso il lato del piatto dalla parte del lanciatore. Lui scattò verso di me, la palla nella mano nuda.
Lo sentii aggrapparsi alla mia gamba e udii l'arbitro gridare «Fuori... no, salvo!»
Ero seduto per terra e il ricevitore mi era addosso, cercando di afferrare la palla che rotolava lontano da entrambi. L'avevo lasciata cadere.
Prima che mi potessi riprendere dallo shock, lui mi sussurrò da dietro la maschera. «Vincete voi. Ora dobbiamo giocare un'altra serie. Negli Stati Uniti, no?»
Sputai la polvere di bocca e lui si alzò in piedi. «Ci vediamo a Pittsburg,
no?»
Aveva lasciato cadere di proposito quella dannata palla, perché voleva venire negli Stati Uniti e giocare per la mia squadra, i Pirates.
A quel punto, tutta la squadra americana mi stava afferrando ed issando sulle spalle. Nixon era già vicino a noi, le braccia sollevate nel familiare gesto di vittoria. Gli spettatori ci stavano concedendo una serie di riluttanti applausi. Avevamo vinto... anche se avevamo avuto bisogno di un errore deliberato da parte di un aspirante disertore.
Negli spogliatoi, ci piombarono addosso i corrispondenti di tutte le nazioni dell'America Latina. Per fortuna, il mio spagnolo era all'altezza della situazione. Si affollarono intorno a me e io dissi loro come fosse la vita a Miami e cosa significasse avere la possibilità di giocare il baseball da professionista. Parlai di mio padre e di come lui fosse fuggito da Cuba portando con sé solo la moglie e il figlio piccolo... me... ventitré anni fa. Sapevo che avevamo vinto con l'imbroglio, ma la vittoria mi faceva sentire lo stesso dannatamente bene.
Finalmente, i giornalisti e i fotografi furono obbligati ad uscire dallo spogliatoio, e Nixon salì in piedi su una delle panche, un telegramma in mano e le lacrime agli occhi.
«Uomini» ci disse «ho buone notizie e cattive notizie.»
Ci raggruppammo intorno a lui.
«Le buone notizie sono che il Presidente degli Stati Uniti» la voce gli tremò un po' «ci ha invitati tutti alla Casa Bianca. Riceverete una medaglia dal Presidente in persona.»
Tutt'intorno apparvero dei sorrisi.
«E ora le cattive notizie» proseguì lui. «Il Presidente ha accettato di farci giocare una serie di partite contro una squadra giapponese... i Mitsubishi Marvels. Sono tutti robot. Dal primo all'ultimo.»

 

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