venerdì 1 agosto 2025

William Bankier: L’empio ibrido



Con un terreno come questo, si disse Sutter Clay, è un miracolo che le pietre non mettano radici e crescano. Affondando nel suolo le lunghe dita bianche, raccolse due manciate di terra umida e la sbriciolò, lasciandola ricadere nel nero solco.
Che diamine, se ce le tenessi abbastanza a lungo, continuò a pensare Sutter Clay, le mie mani stesse metterebbero radici. Un leggero sorriso incurvò l’angolo delle sue pallide labbra, mentre immaginava di affondare le dita nella grassa terra e una chiara filigrana di radici che sgusciava da sotto le unghie, alla ricerca di nutrimento e di umidità.
La terra buona aveva contribuito al successo di Sutter Clay come agricoltore. Su questo non c’erano dubbi. Ma la qualità dei suoi prodotti era dovuta più a Clay stesso che alla fortuna o alla natura, e se i pollici potessero davvero essere verdi, quello sparuto giovanotto ne avrebbe avuto uno di smeraldo e l’altro di giada.
Le poche persone che lo conoscevano, poiché Sutter Clay era un solitario che viveva al limite della città, sostenevano che avrebbe potuto far crescere querce nel deserto del Sahara. Alla Mostra della contea, ogni autunno, quando tutti si spingevano fino al Campo della fiera per la corsa dei carri, i giochi e le lotterie, quelli che sapevano riconoscere una vera meraviglia puntavano diritti verso il padiglione dell’agricoltura per vedere cosa Sutter Clay aveva portato quell’anno. E Clay non li deludeva mai.
Là, come traboccanti da una cornucopia, c’erano tutta la maturità e l’abbondanza, tutti i marroni e i verdi e i rossi e i gialli della festa del raccolto. Zucche grandi come ruote di carro stavano sotto il tavolo, per non spaccare i robusti cavalletti che sostenevano il piano di legno grezzo.
Melanzane, quasi oscene nella loro rigonfia opulenza violacea; meloni in un tumulto di polpe e forme bizzarre; dorate pannocchie di granturco, con il cartoccio abbassato in un’impudica esposizione di grani giganteschi che si sforzavano di non schizzar via da gambi a stento abbastanza grossi per reggerli tutti; e perfino l’umile rapa, gonfiata alle dimensioni di un pallone da football e striata come Saturno d’alterne sfumature di lilla e di avorio.
E gli ibridi! Clay li disponeva su un tavolo a parte, ogni strano esemplare accuratamente etichettato con il suo nome e i particolari della sua bizzarra ascendenza. Qui c’era un grappolo di mele selvatiche dalla buccia traslucida, pendente da un ramo come uva regina. Accanto, un mazzo di carote... carote per il nome, la forma e la dimensione, ma con il cupo color porpora delle barbabietole. Poi, allineate su più file, straordinarie pannocchie di granturco dai chicchi multicolori, alcune rade come tessere di domino, altre picchiettate come pavimenti alla palladiana, un mosaico di granturco simile all’arcobaleno.
E dietro a tutto ciò, gelosamente attento a che nessuno toccasse nulla, la sparuta figura di Sutter Clay, con i polsi che sbucavano dalle maniche troppo corte del lustro completo blu, i capelli d’un biondo pallido, lunghi e sottili, che ricadevano dalla sommità della testa, del tutto simili alle barbe d’una delle sue preziose pannocchie di granturco.
Sì, Sutter Clay sapeva far crescere le cose. Sapeva farle crescere più grosse e diverse da come erano sempre cresciute prima. Ma non si poteva negare che quella densa schiuma nera dall’odore dolce vi avesse molta parte. Mentre Clay sbriciolava una zolla, un grasso lombrico – il corpo simile a tanti anelli color rame – si contorse tra le sue dita. Sutter Clay lo lasciò scivolare gentilmente al suolo e lo guardò infilarsi nel terreno.
— Va’, mio piccolo coltivatore, — disse a voce alta. Mentre parlava, una frizzante brezza d’aprile soffiò sul campo, pungendolo attraverso la sottile camicia. Il pomeriggio primaverile calava nei boschi dietro casa e il silenzio blu pallido della fine del giorno riempiva il cielo.
Sutter Clay si alzò, prese zappa, trapiantatoio e forcone in una mano, il giubbetto nell’altra e si avviò verso casa. Dal camino usciva del fumo. Chissà cosa gli aveva preparato Bonina per cena?
Bonina era arrivata dalla strada maestra una sera di gennaio in cui la neve sferzava obliquamente la finestra della cucina di Clay. L’auto di cui aveva accettato l’ospitalità aveva voltato nella Brightsville Road, lasciandola a un centinaio di metri della piccola casa colonica bianca e blu. In una notte simile la ragazza aveva raggiunto a stento la porta di Clay. Nessuno avrebbe potuto chiederle di andare oltre.
Bonina Ames veniva da una città del nord. Era rimasta senza famiglia, e, avendo sentito parlare di certi amici di Lauderdale, si era messa in viaggio attraverso le montagne per cercare di trovarli. A meno che qualcosa di buono non le capitasse lungo la strada. Sorrideva a Sutter, guardandolo coi suoi tondi occhi umidi, mentre gli diceva questo; e non aggiunse altro. Quindi egli non seppe mai nient’altro su Bonina Ames, né da dove venisse.
Comunque, guardandola, decise che era una delle ragazze meno attraenti che avesse mai visto. La sua testa aveva la forma di una cucurbitacea; piccola alla sommità, dove pochi capelli cercavano di coprire una fronte stretta e ossuta, veniva poi gonfiandosi e dilatandosi in una mascella rigonfia, con guance sboffanti e una bocca larga che si raggrinziva quando parlava e si afflosciava in un grasso broncio quando taceva. Gli occhi erano di un verde sbiadito e costantemente umidi come chicchi d’uva tagliati. Però, quando la ragazza si alzò in piedi, Clay vide che aveva un corpo passabile, anche se poco curato, e le offrì ospitalità per la notte.
La bufera durò altre ventiquattr’ore e così il soggiorno di Bonina Ames a casa di Clay. Ormai la ragazza preparava i pasti e sapeva dove si trovava il detersivo per i piatti. Quando il tempo si schiarì, Sutter non le chiese di andarsene e Bonina non radunò i suoi miseri averi nella borsa per la spesa che era tutto il suo bagaglio. Dunque rimase, cucinando, facendo le pulizie e dormendo in una stanza inutilizzata su una branda che Clay fabbricò con due travicelli e un pezzo di rete metallica.
E fu là che Sutter Clay trovò Bonina in quel freddo crepuscolo d’aprile. C’era fuoco nella stufa e la cucina era calda, ma non si vedevano tegami in giro, né alcun segno di attività sul piano d’appoggio accanto al lavello. Poi Clay sentì un singhiozzo provenire dalla camera da letto. Entrò nella stanza e rimase ritto di fianco alla branda.
— Sei malata? — chiese.
— Non proprio.
— Allora che succede? Dov’è la cena?
— Non avevo la testa a cucinare. Sono così preoccupata.
— Dunque c’è qualcosa che non va. Di che si tratta?
La ragazza si girò supina, mostrando il viso gonfio e lacrimoso. Clay notò che le colava il moccio.
— Soffiati il naso, — disse.
— Oh, Sutter. Sono preoccupata a morte. Continuavo a sperare che succedesse qualcosa, ma non è stato così. Ormai sono sicura di essere incinta.
Clay intrecciò le mani e fece schioccare le nocche, succhiandosi il pallido labbro inferiore. — È stato alla fine di gennaio, vero? — disse.
— Sì.
— Allora, perché non hai parlato prima? Tre mesi. Adesso è difficile risolvere la faccenda.
— Lo so. — La ragazza si mise a sedere e affondò la faccia nelle mani. — Cosa possiamo fare?
Sutter Clay la guardò per un momento. Poi disse: — Non preoccuparti, andrà tutto bene.
Senza alzare il viso, Bonina gemette: — Com’è possibile, a meno che non ci sposiamo? — Ma Sutter non la sentì. Stava uscendo verso il portico. Qui passò le dita sui lucidi manici degli attrezzi, scegliendo, alla fine, la vanga. Poi tornò dentro.
Trovò Bonina Ames come l’aveva lasciata, seduta sul bordo della branda, la faccia tra le mani, piegata quasi sulle ginocchia. Senza una parola, Clay brandì la zappa e abbassò con tutta la forza che poteva il bordo tagliente sul collo proteso della ragazza. Il colpo quasi la decapitò. Rimase sospesa, le natiche sollevate d’una decina di centimetri dal materasso, per tutto un secondo, quindi si rovesciò in avanti, contro la parete e si afflosciò sul pavimento.
Quella fu una notte molto operosa per Sutter Clay. Prima andò nel campo più lontano, piantato a granturco, e con la stessa zappa scavò una fossa nella ricca, morbida terra. L’attrezzo vi affondava facilmente, il che era un bene dovendo lavorare al buio. Poi tornò in casa, raccolse tutto quello che apparteneva a Bonina e lo mise insieme al corpo nella fossa. Quando l’ebbe ricoperta, sparse intorno la terra in eccesso e tracciò alcuni solchi. L’indomani avrebbe seminato e tutto sarebbe finito lì. La prima volta che si fosse recato all’emporio, avrebbe detto che la sua domestica aveva fatto fagotto e se n’era andata, all’improvviso com’era venuta. Certo aspettava soltanto che passasse l’inverno. Niente famiglia. Niente amici che conoscessero i suoi movimenti. Una faccenda chiusa.
Le cose andarono proprio come Clay aveva previsto.
Nessuno gli pose domande, non fu fatta alcuna indagine.
E l’estate arrivò, donando sole e pioggia ai buoni semi che Clay aveva piantato. Nel campo più lontano il granturco cresceva alto, più alto che mai, pensò Sutter con un sorriso torvo. Allora, col suo innato senso d’economia della terra, piantò zucche ai piedi del granturco.
A luglio seguì agosto, e non ci fu siccità quell’anno. Sutter Clay sorrideva al cielo benevolo e il sole ricambiava il sorriso, cedendo il posto alla giusta quantità di pioggia proprio nel momento opportuno. Poi venne settembre, dai lunghi giorni che maturano i frutti dei campi, ora nel pieno della loro dovizia. Clay non aveva molto da fare. L’uomo aveva fatto il suo lavoro. Ora stava alla buona terra fare la sua parte.
Quando arrivò ottobre fu evidente che quello era un anno eccezionale, anche per Sutter Clay. Un giorno dopo l’altro, con ammirevole efficienza, cominciò a raccogliere i suoi prodotti.
«Tutte le cose splendenti e belle. Tutte le creature grandi e piccole», cantava, piegandosi sui cesti e portando una carrettata dopo l’altra di ortaggi nello scantinato o in cucina.
Era la fine di ottobre, mancavano pochi giorni ad Halloween, quando Sutter arrivò al campo più lontano. Il granturco era superbo ed egli lo raccolse alla svelta, scegliendo le pannocchie più belle per esporle alla Mostra.
Fu allora che vide la zucca. Non era grossa, all’incirca come una testa umana, poggiata sulla terra nera proprio nel punto in cui Bonina Ames era stata sepolta. Ma fu la forma oscena di quella cucurbitacea a immobilizzare Clay sui due piedi. Sembrava un cetriolo; piccola alla sommità, si dilatava alla base come una grossa mascella deforme. Sopra, due aree rigonfie sporgevano come guance, e in cima c’era una pallida barba di granturco che pendeva in una lucida frangia tutt’intorno al cocuzzolo bitorzoluto.
Clay non credeva ai suoi occhi. Quella roba era cresciuta davvero dove si trovava? Oppure era caduta da una pianta di granturco durante il raccolto, assumendo quella bizzarra posizione per farsi beffe di lui? Sutter si mise in ginocchio e afferrò i filamenti gialli. Ritrasse la mano con orrore: sembrava più un ciuffo di capelli che una barba di granturco, ed era calda al tatto. Che ibrido infernale era mai quello?
Più tardi, la sera, Clay si disse che era calda soltanto per i raggi del sole. Quanto al fatto che cresceva su una zucca... be’, in un orto poteva succedere qualsiasi cosa. Egli stesso l’aveva verificato una quantità di volte. Un incrocio casuale, dovuto al vento. Sì, era andata così. Naturalmente, la sua immaginazione era stata pronta a giocargli un brutto tiro appena aveva rimesso piede su quel campo. Bene, l’indomani vi sarebbe tornato e avrebbe sradicato quell’ibrido orrendo.
Sutter Clay non tornò il giorno dopo nel campo di granturco. Completò invece il raccolto in altre parti della fattoria. Poi, l’indomani, andò in città, dove fece sapere che c’era un’eccedenza di zucche sulla sua terra e chiunque poteva andare a prendersele.
La reazione fu straordinaria. Arrivarono macchine stracariche di persone, tutte impazienti di raccogliere una zucca o due, tanto più che mancava soltanto un giorno ad Halloween. Sutter Clay si chiuse in casa e non si mosse finché non sentì partire l’ultima auto.
Quando uscì sotto il portico, quasi inciampò nella zucca. L’orribile cucurbitacea era posata all’indietro, così che pareva fissarlo al di sopra delle guance rigonfie, e la frangia di capelli gialli luccicava lievemente agli ultimi raggi del sole. C’era un biglietto che spuntava da sotto un lato della mascella prominente. Sutter si chinò a raccoglierlo, provando un brivido di disgusto quando la sua mano sfiorò la buccia della “cosa”.
«Signor Clay, — lesse, — questo sembra essere una specie di ibrido. Abbiamo pensato che probabilmente vorrà tenerlo per la Mostra».
Clay accartocciò il foglietto e lo buttò in terra. Il suo primo impulso fu quello di allontanare da sé la cosa fin dove poteva scagliarla con la punta del suo stivale. Ma, per qualche ragione, l’impulso morì. Invece di sferrarle un calcio, si chinò a raccogliere la zucca e la portò in cucina. Era stranamente pesante, per essere soltanto di media grandezza. La posò sul tavolo e andò a prendere il whisky.
Con la bottiglia in grembo e un bicchiere in mano, Sutter Clay si sedette vicino alla finestra, nella penombra, e fissò la zucca sul tavolo. Mentre beveva, la stanza diventava più buia e, ad ogni strato di grigio che si aggiungeva alla scena, la malevola creatura sul tavolo prendeva una nuova dimensione. Sopra le guance rigonfie c’era adesso un paio di occhietti; la mascella prominente aveva labbra imbronciate; e l’intera orrida faccia sembrava cambiare espressione, accigliarsi, lanciare a Clay occhiate dolenti.
Verso mezzanotte la bottiglia era vuota e Clay dormiva di un sonno leggero. Ad un tratto si svegliò con un sussulto. Il tavolo era davvero più vicino a lui, oppure era un inganno del buio? Ora l’oscurità era attraversata soltanto da un liquido raggio di luna.
Clay guardò il suo orologio da polso: mezzanotte e un quarto. Dunque, ormai era il trentun ottobre. Halloween. Giorno di malvagità e tormento, se mai ce n’è stato uno. Sutter Clay si alzò e mosse tre passi incerti verso il tavolo. L’ultimo gli fece sbattere una coscia contro il tavolo, che traballò. La zucca dondolò e si spostò di due o tre centimetri più vicino a Clay. Grugnando di paura e di rabbia, l’uomo la colpì con un pugno. Lo stava di nuovo ingannando l’immaginazione, o la zucca era tenera, cedevole sotto le sue nocche? L’avevano appena raccolta. Avrebbe dovuto essere dura, compatta.
Improvvisamente Clay seppe cosa doveva fare. Raggiunse vacillando l’armadietto accanto al lavello e frugò finché trovò una candela e una scatola di fiammiferi. Acceso lo stoppino, fece sgocciolare la cera su un piatto e vi attaccò la candela. Poi aprì un cassetto e scelse un coltello ben affilato.
Tornato al tavolo, posò la candela accanto alla zucca e tirò a sé con un piede la sedia su cui si era appisolato. Poi si sedette. Ah, che smorfie orribili faceva adesso la cosa, contorcendo i suoi lineamenti rigonfi nella luce danzante della candela.
— Dunque è una faccia che vuoi? — disse Clay a voce alta. — Ti daremo quella che meriti! — E, impugnato il coltello, lo affondò nella zucca fino al manico.
Quando ritirò la lama si udì un suono sibilante, simile al sospiro d’un bimbo, e la stanza si riempì improvvisamente d’un odore fetido di tomba. Clay però era al di là del terrore, ormai. Soffiando dalle narici per liberarle dal gas, praticò altre incisioni, finché ebbe staccato la parte superiore della zucca con il suo ciuffo giallastro.
Tenendo qui cocuzzolo a mezz’aria, infilato nel coltello, cominciò a estrarre la polpa, senza curarsi che gli cadesse, fredda e viscosa, sui pantaloni e scivolasse giù per le gambe della sedia. Quando l’ebbe tolta tutta, incise due grossi occhi triangolari, un piccolo naso rotondo e un’enorme bocca ghignante con un dente appuntito che pendeva dal labbro superiore, secondo la tradizione di Halloween. Nessun mascherone aveva mai avuto un’espressione così malvagia.
«Or dunque, fa’ che la tua luce splenda davanti agli uomini — intonò Clay, ricordando un servizio religioso cui aveva assistito tanto tempo prima, — affinché essi vedano le tue buone opere!» Quindi prese la candela, la fece sgocciolare dentro la zucca vuota e ve l’attaccò. Con il frangiato cocuzzolo rimesso a posto, il lavoro era fatto.
Clay spostò indietro la sedia d’una trentina di centimetri e contemplò la sua opera. Il mascherone trasudava e ammiccava, mentre un sibilo acuto usciva dalla bocca ghignante. Clay si batté le mani sulle ginocchia, scoppiando in una risata isterica. La violenza della sua ilarità esplose contro la zucca e la fiammella si mise a danzare selvaggiamente.
Poi Sutter Clay fece silenzio. Perché, sotto il suo sguardo, la bocca dell’orrenda creatura, che prima sorrideva malignamente, abbassò gli angoli in una smorfia dolorosa, e due gocce di cera uscirono dagli occhi, scivolando giù per le guance arancioni.
Le labbra dell’uomo erano secche. Egli se le leccò con una lingua che non aveva più saliva. Poi, mentre Clay guardava come impietrito, una fiammella lunga e sottile guizzò da un angolo della bocca e attraversò velocemente il tavolo. Clay poté soltanto sgranare gli occhi mentre il fuoco liquido colava in una cascatella oltre il bordo, formando una pozza di scintille sul pavimento. Alimentata dall’alto, la pozza crebbe. Poi dilagò e si mosse verso la punta d’uno stivale di Clay.
Affascinato, Sutter guardava il fuoco sgorgare dalla bocca livida. Sentiva l’odore del cuoio che bruciava, ma non poteva muoversi. Poi, quando le fiamme attecchirono e circondarono la sedia, padre e figlio rimasero immobili nella cucina ormai preda del fuoco, guardandosi morire l’un l’altro.
Giù in città qualcuno scrutò il cielo a nord e disse: — Ehi, la fattoria di Sutter Clay brucia! — Furono avvertiti i vigili del fuoco, ma quando l’autopompa arrivò sul posto era troppo tardi per salvare qualcosa.
L’indomani, cercando tra le rovine, un pompiere trovò la scorza carbonizzata della zucca, con dentro il mozzicone di candela.
— Uno scherzo di Halloween, ecco cos’è stato, — borbottò. — Dico io, che razza di bambini tiriamo su oggigiorno?


 

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