venerdì 18 luglio 2025

Vittorio Catani: Storia di Nino



Le mie prime indagini sul caso di Nino riguardarono l’insolita circostanza dell’incidente
automobilistico. Solo in un secondo momento, dai colloqui con i genitori,
seppi che i signori Ernesto e Magda Rosati avevano adottato il bambino. Nino era
stato prelevato a quattro anni e meno da un orfanotrofio nell’entroterra di Barcellona,
in Spagna, ma delle sue origini i Rosati non possedevano notizie certe.
Nella mia qualità di comandante della vicina stazione di polizia di Foligno ero
stato chiamato ad occuparmi dei limitati eventi connessi con l’incidente, e nulla mi
avrebbe obbligato ad estendere le mie investigazioni indietro nel tempo; tuttavia mi
risolsi di farlo a titolo – lo dico subito puramente personale. Intuivo che il caso di
Nino nascondeva qualcosa di inconsueto, e non avrei avuto pace finché non ne fossi
venuto a capo.
Fu così che poche settimane dopo l’inizio di questa storia – era una bigia mattina
di settembre – mi ritrovai a circa duemila chilometri di distanza a salire faticosamente
una scalinata intagliata in un paesaggio brullo e pietroso che portava su un’alta
collina, all’Orfanado “Sinite parvulos”. Balbettando uno spagnolo approssimativo
esibii le mie credenziali. Poco dopo venni ricevuto dal direttore, padre Jorge.
L’Orfanado era di solida pietra scura, spoglio, arredato con essenziale mobilio
spagnolo di pregio. Padre Jorge mi aspettava. — Señor Comandante...
— Ermanno Dorigo, padre — lo interruppi io. — La prego, la circostanza m’impone
di chiederle di abbandonare i formalismi.
Fortunatamente il mio interlocutore si esprimeva in un accettabile italiano.
Rispose: — Certo, señor Dorigo. La notizia che lei ha fatto precedere alla sua visita
mi provoca grande costernazione. Ricordo benissimo “el niño"... Una creatura particolarmente
sensibile, sa. Oh, scusi, penso ancora a lui come a “el niño” (voi direste
“il bambino”), come lo chiamavamo qui. Devo ritenere che “Nino” derivi da questo
nostro vezzo? Bene, comunque lui venne subito battezzato, qui dentro. Rammento
bene quel mattino. Lo chiamammo Benjamin Ireneo, un nome che però rimase solo in
queste vecchie pratiche — e padre Jorge batté una mano su una cartella.
— Padre, forse lei ha già intuito il motivo della mia visita. Le mie incombenze di
lavoro non c’entrano, ma io devo sapere tutto su “el niño”.
Padre Jorge sorrise appena, il che bastò a creare sul suo volto una ragnatela di
rughe. — Capisco il suo sentimento, questa... accorata empatia, direi, che prendeva
anche noi, e chiunque qui fosse a contatto col bimbo. Ma devo anticiparle che la
deluderò.
In circa un’ora di monologo, che ascoltai in attento silenzio, padre Jorge ricapitolò
alcuni dati salienti. Ed era una cronaca davvero particolare. Quando era entrato al
“Sinite parvulos”, Nino non aveva neanche due mesi (l’Orfanado possedeva un
piccolo reparto per i neonati). Era cresciuto normalmente benché tendesse ad isolarsi
in un suo mondo privato, fantastico, che si rifletteva nel suo linguaggio: essenziale, ai
limiti di una infantile poesia. Ma ecco che intorno ai due anni e mezzo aveva
contratto una forma degenerativa di congiuntivite.
— Lo curammo amorevolmente — disse padre Jorge — ed infatti un paio di settimane
dopo appariva ristabilito. Invece... ancora adesso mi sembra impossibile.
Nessuno di noi si accorse che “el niño” stava perdendo rapidamente la vista. Il male,
señor Dorigo, gli aveva stravolto le funzioni visive e nei suoi piccoli occhi entrava
troppa luce. Tanta di quella luce che in pochi giorni ne rimase accecato.
Ovviamente sapevo già della sua cecità, ma osservai meravigliato: — Non avrei
mai potuto immaginarne la causa. Non credo neanche che lo sappiano i signori
Rosati.
— Cosa vuole spiegare, l’inspiegabile? — Padre Jorge batté nuovamente sullo
scartafaccio. — Comunque qui c’è tutto di lui. Tutto — concluse amaramente —
tranne l’essenziale.
Prima di congedarmi chiesi a padre Jorge ciò che più mi stava a cuore, cioè se
avesse notizia dei veri genitori di Nino. Mi rispose:
— Señor, è questa la delusione che le avevo preannunciato. Mi creda, abbiamo
sempre saputo ben poco. Le dico solo in confidenza che la madre era una giovanissima
ragazza di Alicante, una certa Nélida Sara. Secondo le mie incerte fonti Nélida
era stata in contatto con gente residente in Italia. Non so altro, né me ne interessai. Il
mio racconto si ferma qui.
Come ho già avuto modo di riferire, “el niño” aveva lasciato definitivamente
l’Orfanado e la Spagna intorno ai quattro anni e mezzo. I signori Rosati, assegnatari
dell’adozione, abitavano in un piacevole paesino a pochi chilometri da Foligno. Per
quanto ne sappia oggi, dopo la conclusione dell’intera storia, i Rosati si trasferirono
altrove. Sono trascorsi molti anni, ma il ricordo è molto vivo: gente di media estrazione,
piuttosto semplice, dedita al lavoro e alla famiglia. Ovviamente dopo il viaggio
in Spagna non interruppi i contatti con padre Jorge. Era evidente che anche lui era
rimasto molto interessato ad ogni novità sulla vicenda, e di fatto la nostra divenne
subito una mutua collaborazione.
Infatti una sera, pochi giorni dopo il mio ritorno dall’Orfanado, padre Jorge mi
telefonò e mi disse: — Señor, grazie al rinnovato stimolo della sua perseveranza sono
sulle tracce delle persone che si interessarono per far adottare Nino e spero che presto
potrò comunicarle buone notizie.
Di certo, comunque, si capiva che i misteriosi registi della vicenda avevano voluto
che il bimbo finisse in un ambiente tradizionale e tranquillo, evitando gente ricca od
individui eccentrici. Infatti Ermanno Rosati era titolare di una piccola azienda manifatturiera
alla periferia del paese; la signora Magda aveva insegnato alle elementari
anni prima, poi si era ritirata per accudire una famiglia numerosa. Dopo la morte del
sesto figlio i coniugi avevano fatto il voto di accogliere in casa un orfanello: in questo
modo Nino era entrato nella loro casa.
Dai Rosati seppi che Nino riusciva a condurre una vita relativamente normale
nonostante la cecità. Giunto in età scolare, fu scelto un insegnante privato che avviò il
piccolo a studi che si protrassero in modo abbastanza anonimo per poco più di un
anno e mezzo. Dopodiché Nino, improvvisamente, non volle più saperne in alcun
modo di libri. Scendeva in strada e si intratteneva tutto il giorno nel giardinetto
prospiciente la villetta dei genitori, giungendo a volte ad inoltrarsi nei vicoli
retrostanti. Aveva socializzato con alcuni ragazzini che gli si erano affezionati molto
e sui quali pare avesse un certo ascendente. Possedeva anche una certa abilità
manuale. Con pochi modesti oggetti (pezzi di legno, cubetti, cordicelle, chiodi) si
costruiva semplici giochi di destrezza sfidando e meravigliando i suoi amichetti. In
seno a quel minuscolo consesso acquistò carisma, tanto che – tutto questo lo appresi
dai familiari e da vicini di casa – i ragazzi lo interpellavano per dirimere i litigi.
Quando il padre lo seppe si incuriosì, e gli chiese come riuscisse a trovare sempre un
giudizio equo. Nino rispose nel suo tipico gergo: — Se non fanno pace poi si danno
bumbum, piangono, poi il mio cuoricino fa bumbum a me.
Oltre ai “suoi” giocattoli aveva anche quelli che gli comperavano i genitori. La
madre tenne a precisarmi che mai lui ne aveva distrutto alcuno e mi chiamò in casa
per vedere: erano tutti nella sua semplice stanzetta, lucidi e in bell’ordine. Aggiunse:
— Comandante Dorigo, vuole sapere una stranezza? Ogni tanto Nino qualche giocattolo
lo rompeva; vede quella grande trottola? Una mattina lui era giù a giocare
proprio sotto il bordo di un marciapiede, e un furgone la schiacciò facendo
retromarcia. Non vedemmo più la trottola, poi una settimana dopo gliela ritrovammo
tra le mani perfettamente lucida e funzionante. — Secondo la signora Magda, Nino
sapeva riparare i giocattoli ed era convinto che questi in qualche modo lo
“difendessero”. Aveva raccontato che la trottola gli aveva salvato la vita evitando che
fosse lui a rimanere schiacciato.
L’abbandono degli studi segnò per Nino una nuova svolta. Lui giustificò la sua
irremovibilità spiegando che ora doveva cercare di capire “la voce”. Non aveva
tempo per nient’altro. Venne così fuori che da qualche tempo il bambino ascoltava
qualcosa che nessun altro percepiva. Un controllo medico appurò che soffriva di un
disturbo congenito al nervo acustico; secondo gli specialisti consultati il processo era
irreversibile, anzi pareva inverosimile che Nino conservasse ancora l’udito. Lui
intanto continuava ad ascoltare cose sulle quali restava reticente. — Comunque
capimmo che doveva essere una “voce” maschile — mi disse il signor Rosati. —
Maschile e da padre autoritario. Sì, era come se lo chiamasse per impartirgli
istruzioni urgenti. Ma era evidente che lui udiva solo una specie di cantilena confusa.
Una volta scoppiò a piangere e gridò disperato che c’erano cose importanti da fare
ma che non riusciva a capirle.
Questi avvenimenti lo lasciarono solo e stordito. Allontanò gli amici dei vicoli.
Con i fratellastri non legava particolarmente, con gli animali invece aveva un
rapporto privilegiato. Nel giardinetto c’era un cucciolo tigrato, Trillo, che seguiva
Nino passo passo. Lui gli si affezionò quasi morbosamente. Proprio in quel periodo
nel quartiere si verificò una misteriosa moria di piccole bestie: cani, gatti, uccelli,
lucertole. La gente del paese pensò ad avvelenamenti, all’inquinamento. Le bestiole
non mostravano traumi fisici, semplicemente giacevano morte per strada.
Il dottor Bartolo Amaldi, il genetista, entrò in scena parecchio dopo, e del suo
rintraccio devo ringraziare gli indizi fornitimi da padre Jorge in una lunga lettera.
Finalmente qualcosa di concreto! Gli risposi con un telegramma che diceva semplicemente:
«Mi inchino ai rari dilettanti migliori dei professionisti. Riconoscente,
Dorigo». Adesso toccava a me. Così scoprii che le ricerche dovevano spostarsi a
Torino.
Amaldi, al quale mi presentai esibendo le mie credenziali e manifestando subito il
motivo della mia visita, mostrò una controllata sorpresa. Non fu mai reticente: la sua
arma, all’inizio almeno, fu semplicemente quella di rimandarmi ad un suo amico, tale
Adalberto Borri, che però nel frattempo era morto.
Adalberto non era stato un collega di lavoro di Amaldi, bensì un biologo
interessato al mondo vegetale. Nel corso di alcuni incontri, Amaldi mi confidò che
anni prima Adalberto aveva chiesto alle autorità competenti – ed ottenuto – di
esaminare la sacra Sindone, il controverso telo che secondo la tradizione avrebbe
avvolto Gesù dopo la morte. Decenni di studi su quel lenzuolo hanno portato alla
luce, fra l’altro, microscopici reperti botanici. Adalberto ne era incuriosito. Andò a
Torino, osservò al microscopio alcune zone della Sindone ed individuò sulla fronte
dell’immagine alcuni grani di polline, che asportò. Amaldi disse: — Credo che non
fosse autorizzato a toccare nulla, comunque venne da me, in quanto genetista, perché
voleva tentare degli esperimenti di ricostruzione genetica di antichi vegetali. Come
lei sa il mio laboratorio è sempre stato all’avanguardia, sin dal 1998 aveva ottenuto
uno stanziamento dal Governo, per la ricerca genetica. Ma a un più attento esame del
materiale portatomi da Adalberto, ci accorgemmo che il polline era in realtà un
grumo di cellule umane mummificate.
In quel momento, ascoltando Amaldi, non capii dove sarebbe andata a parare
questa storia. Ma forse voi che mi leggete sarete in una condizione di maggiore
obiettività. Il passo logico era breve e temerario, gli eventi successivi forse
inevitabili. Adalberto chiese a Bartolo Amaldi di analizzare il DNA di quelle cellule,
ed i due ipotizzarono la possibilità di ricostruire la serie cromosomica completa, sia
pure integrando con materiale esterno alcuni anelli della catena distrutti.
Amaldi raccontò: — Adalberto era fuori di sé. Voleva... clonare Gesù.
Comandante Dorigo, capisce l’enormità della cosa? L’idea prese ad incalzano giorno
e notte. Si sentiva chiamato a qualcosa di eccezionale, ma al contempo era
terrorizzato e non sapeva decidersi. Come cattolico osservante forse non si sarebbe
mai risolto a farne nulla, per lui la faccenda aveva implicazioni morali e teologiche da
schiacciarlo. Ma... c’ero anch’io. Un agnostico completo. Mi creda, dovetti riflettere
molto, ma poi pensai di dargli una bella spinta. Gli ricordai che la Sindone poteva
essere un’impostura, e questo è notorio. Gli espressi la mia certezza che clonare quel
DNA vecchio di venti secoli sarebbe stato impossibile. Tra l’altro non va
sottovalutato che Adalberto sapeva di avere un male incurabile che non gli avrebbe
concesso molto tempo: questo giocò certamente, in qualche modo, a favore
dell’esperimento.
Amaldi mi illustrò, in altre conversazioni, alcuni dilemmi di Adalberto. Vidi che
per lui stesso svelare finalmente i fatti a qualcuno che appariva fidato e partecipe era
fortemente liberatorio.
— Vuole un’idea dei problemi che lo occupavano in quel periodo? Cercava di
capire se un clone di Gesù si sarebbe identificato con Lui. Si rispose di no, ma che
Gli sarebbe stato vicino più di qualunque altra cosa, certo più dei vari presunti messia
succedutisi nei secoli. Secondo la teologia Gesù nacque anzitutto uomo. Un Suo
clone, comandante Dorigo, sarebbe stato divino? Avrebbe avuto in sé la Grazia?
Sarebbe stolto negarlo, nelle nostre decisioni giocò anche una sconfinata superbia.
Ricordo come fosse ieri. Una sera andai dal mio amico e gli annunciai che avevo
deciso anche per lui. Avremmo clonato il DNA e saremmo rimasti a vedere. Perché
pretendeva di dare risposte a domande più grandi di lui? Le risposte le avremmo
ottenute dai fatti! Rassicurai Adalberto che, considerata la mia lunga attività di
genetista, non avrei avuto difficoltà a reperire e affittare un utero. Comunque la
gestante non avrebbe mai saputo nulla dell’antefatto.
La scelta della “madre” avvenne tramite canali riservati e cadde su un’adolescente
spagnola; era di Alicante e si chiamava Nélida Sara Huesca. Ovviamente io lo sapevo
già, grazie a padre Jorge. — Nélida era affetta da una forma di vaginismo e sosteneva
di non aver mai avuto rapporti sessuali e forse era vero — mi disse Amaldi. — Ma a
noi la cosa interessava perché comportava un minor rischio di contrarre malattie;
volevamo prendere ogni precauzione possibile. Alla ragazza fu prelevato un ovulo
che le venne reimpiantato dopo aver provveduto a svuotarlo del suo patrimonio
genetico ed a fecondarlo con quel DNA. Lei si impegnò solennemente a continuare a
non aver rapporti per tutta la gestazione: le fu dato un buon anticipo per consentirle di
svolgere decorosamente il suo compito... e alla fine, sa cosa? — Amaldi mi guardò e
sorrise. — Avemmo la dimostrazione che mi sbagliavo! Perché il DNA era valido ed
il bimbo nacque. — E concluse ironico: — Secondo me in questa storia si è verificato
un unico vero miracolo, ed è stato proprio questo.
I due scienziati si erano attivati per far sistemare in tutta fretta il neonato in un
orfanotrofio di comprovata validità, in attesa di cercare un adeguato affidamento.
Amaldi non me lo dichiarò apertamente, ma mi parve chiaro che entrambi avessero
paura di quel bambino. Che comunque, almeno in apparenza, era nato normalissimo.
Ed eccoci tornati all’inizio della mia storia. Non ho molte cose da aggiungere,
purtroppo, se non che la crescente sordità di Nino e “la voce” lo portarono ad
estraniarsi, a farsi quasi muto. Si trascinò così per molti mesi. Trascorreva la maggior
parte del suo tempo nel vicoletto dietro casa, addossato al muricciolo, bisbigliando tra
sé e sé. Poi, come sapete, ci fu l’incidente.
I Rosati chiamarono immediatamente il 113; qualcosa nella dinamica del fatto
lasciò tutti perplessi. La tragedia avvenne nel periodo in cui il sindaco del paese
aveva disposto per le autopsie di alcuni animali morti inspiegabilmente, ma questo
genere di investigazione non aveva dato risultati. Io fui chiamato per approfondire le
indagini; l’automobilista che svoltò nel vicolo, tale Fournien, dichiarò di essere un
turista di passaggio. Secondo la sua versione, vide improvvisamente un ragazzetto
buttargli un gattino fra le note anteriori. Il piccolo era corso con passi incerti verso il
centro strada, qualcosa lo aveva fatto incespicare e cadere. Si era ritrovato anche lui
sotto la vettura. Nino e Trillo morirono col cranio spiaccicato, sangue e visceri
dell’uomo e dell’animale mescolati.
Da allora sono trascorsi molti anni. Mi decido a parlare solo adesso, lontano finalmente
da un impatto emotivo che per me è durato a lungo. Ma nonostante ciò che
scoprii, e nonostante abbia rimuginato a lungo i fatti, non ho alcun titolo per sapere
chi fosse veramente Nino. Né, credo, ne ebbe padre Jorge, che messo a parte d’ogni
cosa preferì ritirarsi in eremitaggio vari anni addietro. Di lui non ho più alcuna
notizia. Circa Amaldi, l’ultima volta che lo vidi – anche questo incontro avvenne
parecchio tempo fa – mi raccontò che Adalberto era morto due mesi dopo che Nino
era entrato nell’orfanotrofio. — Meglio così, Dorigo — mi disse. — Non so come
avrebbe reagito al seguito. Pensi che, già allora, una notte mi telefonò per dirmi che
secondo lui la scienza aveva avuto l’ardine di trafficare col corpo umano, ed era
inconcepibile che ora volesse manipolare anche il divino; come risultato avrebbe
prodotto solo un riflesso opaco del divino.
Personalmente, penso che i duri eventi della breve vita di Nino alla fine dovevano
averlo incattivito. Solo in questa luce ritengo si chiarisca l’atto altrimenti ingiustificabile
contro il suo gattino. Volutamente il mio ragionamento si arresta dinanzi
alle altre piccole, inspiegabili morti. Quando la madre mi mostrò alcune sue foto,
chiesi di poterne conservare una. L’ho sempre qui, sulla mia scrivania. Non aveva
ancora otto anni e... Sì, per ciò che può dirci la foto di un bambino, esiste secondo me
una somiglianza col volto adulto della Sindone. Ma questo credete che dimostri qualcosa?
Solo che Nino poteva davvero essere il clone di un individuo – chiunque costui
fosse – morto secoli fa.
Perché invece se realmente di Lui si trattò... Be’, rifiuto anzitutto di pormi il
labirintico problema del perché Egli abbia accondisceso agli avvenimenti che ho
raccontato. Solo di una cosa, nel mio piccolo, sono sicuro. Se Nino fu davvero ciò
che altri pretesero fosse, questa è una storia esemplificativa dell’oggi. La storia,
oserei dire, di un mondo che non riconobbe il suo dio, e di un dio che non seppe
ritrovare il suo mondo.

 

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