È autunno e abitiamo in una casa di campagna, la casa di mia madre, la casa in cui sono cresciuto. Sono stato al villaggio e mi ha colpito il modo in cui niente sia cambiato, eppure è cambiato tutto, perché ora sono più vecchio e vedo le cose diversamente. È come se fossi qui, contemporaneamente, ora e allora, a un tempo con la mente di un ragazzo e con quella di un uomo. È uno sdoppiamento così strano, così intenso, così sconcertante, che mi sento indotto di nuovo a lavorare, a cercare di dipingere.
Così, studio il negozio di articoli casalinghi, i barili di granaglie, i pilastri gemelli che reggono il terrazzo dell’albergo soprastante, sul quale uomini e donne dal volto di cera vengono a sedersi, a dondolarsi e ad osservare. Sembrano quelle stesse persone d’età che vedevo da ragazzo, il legno dei pilastri e la terrazza sembrano altrettanto scheggiati.
Dimentico del tempo che passa, mentre lavoro, mi rimetto in cammino verso casa solo al tramonto. La giornata è stata calda ma ora, in camiciola, ho freddo, e dopo circa un chilometro vengo colto da un acquazzone improvviso e costretto a lasciare la strada sassosa per rifugiarmi sotto un albero, dalle foglie già scure e ingiallite. La pioggia diventa torrenziale, m’investe diagonalmente, inzuppandomi; stringo il collo della mia sacca di tela per proteggere il quadretto e i colori, e decido di mettermi a correre; ho i calzini spugnosi dentro le scarpe, quando finalmente imbocco il sentiero che porta alla casa e al granaio.
La casa e il granaio. Quelli e mia madre, loro soltanto sono cambiati, come se fossero una cosa sola; deformati, soggetti all’usura delle intemperie, scricchiolanti e contorti nelle giunture, sono di un grigio così diverso dal bianco di cui mi sovvengo come ragazzo. Questo posto sta indebolendo mia madre, che sembra in sintonia con esso e ne accompagni la decadenza. Ecco perché siamo venuti ad abitare qui. Per farla rivivere. Speravo, un tempo, di convincerla a venir via. Ma dei suoi sessantacinque anni lei ne ha passati qui quaranta, e insiste nel volervi passare gli altri, quelli che le restano.
La pioggia cade più forte che mai mentre mi affretto oltre il lato della casa; la luce in cucina è accesa, è ora di cena e sono in ritardo. La casa si collega al granaio così come la base di una L si congiunge al gambo. L’entrata che uso sempre si apre direttamente nel punto di congiunzione, e quando entra in casa ansante, con i panni che mi si appiccicano addosso freddi e bagnati – la porta che dà in granaio è alla mia sinistra, la porta della cucina proprio di fronte – sento uno sgocciolio giù in cantina, in fondo alle scale alla mia, destra.
— Meg! Scusa, ho fatto tardi, — grido a mia moglie, posando la sacca di tela imperlata di pioggia, aprendo la porta di cucina. Non c’è nessuno. La tavola non è apparecchiata. Non c’è niente sul fornello. Soltanto la luce giallognola della lampadina da sessanta Watt che pende nuda dal soffitto. Le lampadine che mia madre preferisce a quelle bianche da cento Watt. Le ricordano il lume, di candela, dice.
— Meg, — torno a chiamare, e ancora nessuna risposta. Dormono tutte, penso. La penombra del crepuscolo, le nuvole nere della tempesta le avranno insonnolite; si saranno buttate sul letto per schiacciare un sonnellino, convinte di svegliarsi prima del mio ritorno.
Ancora lo sgocciolio. Sebbene la casa sia molto vecchia, il granaio da tempo in disuso, i tetti malconci, non avrei mai creduto le cose in un tale stato d’abbandono, la tempesta così forte, che l’acqua potesse entrare dalle finestre della cantina, formando un rivolo e battendo sul vecchio pavimento di pietra. Accendo la luce della cantina, scendo la scala di legno alla mia destra, consunta e scricchiolante, arrivo nel punto dove la scala fa una svolta a sinistra e prosegue poi fino al pavimento e vedo che non è acqua, quella che sgocciola. È latte. C’è latte dappertutto. Sulle travi, sulle pareti. Sgocciola sul velo di latte che già si è formato sulle pietre, che si raccoglie, macchiettato di sudiciume, nei solchi tra una pietra e l’altra. Latte da parte a parte e dappertutto.
Sarah, la mia bambina, ha fatto questo, penso. È rimasta affascinata dalla grande casa delle bambole di legno, che mio padre fece per me quand’ero piccolissimo, e la cui vernice azzurra ora si stacca e si scrosta. Dall’angolo estremo, l’ha tirata fino nel mezzo dell’impiantito. Ci sono giochi, soldatini e altre carabattole che sono stati tolti dal cesto di vimini dov’erano riposti e usati lì sul pavimento; e tutto è coperto di latte, la casetta delle bambole, il cestone, i giocattoli sparpagliati, e il latte ci gocciola sopra dalle travi, ci piove sopra in rivoli.
Perché avrà fatto questo? penso. Dove si sarà procurata tutto quel latte? Cosa aveva in mente, per fare una cosa simile?
— Sarah, — chiamo. — Meg. — Furente, ora, risalgo nella cucina silenziosa. — Sarah, — urlo. Dovrà ripulire per benino e rimarrà chiusa in casa per tutto il resto della settimana.
Attraverso la cucina, poi il salotto, passando oltre il divano e le poltrone imbottiti, ricoperti di stoffa a fiori che si è sbiadita da quando la vedevo io da ragazzo, oltre diversi miei quadri che mia madre ha appeso alle pareti: vecchi quadretti a colori vivaci, di pascoli e boschi, dei tempi in cui andavo a scuola; quadretti nuovi della città, dalle tinte rossicce e smorzate, sfumate come quelle delle vecchie fotografie. Facendo gli scalini a due a due salgo fino alle camere da letto, le scarpe bagnate sul soffice e liso tappeto della scala, la mano che lascia ditate d’umidità sul legno lucido e levigato della ringhiera d’acero.
In cima, svolto nel corridoio. La porta della stanza di Sarah è aperta, dentro c’è buio. Accendo la luce. Lei non è sul letto, né c’è stata; il copriletto di raso è intatto, la pioggia penetra dalla finestra aperta insieme al vendo freddo e rabbiosa. Ho un presentimento, allora, e passo, inquieto, nella nostra camera; è buia anche quella, e deserta. Uno strano vuoto mi si è formato nello stomaco. Ma dove sono? Tutte nella stanza di mia madre?
No. Quando mi fermo sulla soglia della stanza di mia madre vedo, alla luce giallastra che penetra dal corridoio, che là dentro c’è soltanto lei, il torso gracile steso attraverso il letto.
— Mamma, — dico, con l’intenzione di aggiungere: — Dove sono Meg e Sarah? — Ma mi trattengo. Una delle scarpe di mia madre è sfilata dal piede, l’altra è infilata solo in parte. C’è del fango sulle suole. C’è del sangue sull’abito di cotone. La veste è lacera, i capelli sono scarmigliati, il volto è insanguinato, le labbra sono ferite e gonfie.
Per alcuni istanti rimango ammutolito dallo choc. — Mio Dio, mamma, — riesco a dire alla fine; e, come se le parole fossero una molla che scatta per mettermi in azione, la tocco, per svegliarla. Ma vedo che i suoi occhi sono aperti, che fissano il soffitto, vivi ma privi di sguardo, e che ogni respiro è come un singhiozzo improvviso, seguito da un lento espirare.
— Mamma, cos’è stato? Chi ti ha fatto questo? E Meg? E Sarah?
Ma lei non mi guarda, fissa costantemente il soffitto.
— Per amor di Dio, mamma, rispondimi! Guardami! Cos’è successo?
Niente. Occhi senza sguardo. Tra un singulto e l’altro, è come una statua.
Quello che penso è isterico. Sconnesso, contraddittorio. Devo trovare Meg e Sarah. Devono pur essere da qualche parte, battute e malconce come mia madre. O peggio. Devo trovarle. Dove? Ma non posso lasciare mia madre. Quando ritornerà in sé, anche lei sarà isterica, dolorante. Come sarà finita lì sul letto? Nella sua stanza, non v’è traccia della lotta che deve avere ingaggiato contro il suo aggressore. Dev’essersi svolto tutto altrove e lei dopo è riuscita a trascinarsi fin qui. Poi, vedo il sangue sul pavimento, una striscia di sangue fino in fondo al corridoio, che proviene dalle scale. Chi ha fatto questo? Chi può mai essere? Chi avrebbe percosso una danna anziana, grigia, rugosa, artritica? Perché, in nome di Dio, l’avrebbe fatto? Rabbrividisco. Penso alle giunture artritiche di mia madre, doloranti durante la lotta.
Forse, l’aggressore è ancora in casa, in attesa di me.
Al senso di vuoto e di malessere che mi attanaglia lo stomaco si aggiunge ora la paura, una paura bruciante, pulsante, e sono già fuori di me quando mi accorgo di quello che sto facendo: ho afferrato il bastone che mia madre tiene sempre presso il suo letto, ho acceso la luce nella camera, ho spalancato la portiera dell’armadio e giù colpi, con il bastone. Suoni rabbiosi e feroci mi sfuggono dalla gola, il bastone mena colpi tra i vecchi abiti stinti.
Nessuno. Sotto il letto. Nessuno. Dietro la porta. Nessuno.
Frugo in quel modo tutte le stanze del piano di sopra, terrorizzato, voltandomi di continuo a guardare dietro di me, brandendo il bastone e vibrando colpi dentro gli armadi, sotto i letti, dietro gli usci, con una forza che senza dubbio fracasserebbe un cranio. Nessuno.
— Meg! Sarah!
Nessuna risposta, neppure un’eco in quella casa che assorbe i rumori.
Non c’è soffitta, soltanto un’entrata, in alto, per accedere a un’intercapedine sotto le tegole, e quell’apertura è stata sprangata da un pezzo. Non c’è segno di manomissione. Nessuno è andato lassù.
Mi precipito giù per le scale, vedendo ora la traccia di sangue che mia madre ha lasciato sul tappeto, immaginando la sofferenza di quella poveretta nel salire, e frugo le stanze al piano di sotto con lo stesso disperato accanimento. Nell’armadio a muro. Dietro il divano e le poltrone. Dietro le tende.
Nessuno.
Chiudo a chiave la porta d’ingresso, nel timore che lo sconosciuto sia fuori, nella tempesta, in attesa di entrare dopo di me. Mi ricordo di tirare ogni tendaggio, di chiudere ogni imposta, nel timore che lui, da fuori, mi stia osservando. La pioggia batte con insistenza contro le vetrate.
Grido ripetute volte, chiamando Meg e Sarah. La polizia. Mia madre. Un dottore. Agguanto il telefono sulla parete vicino alla scala, timoroso di accostarmelo all’orecchio, timoroso che la linea sia stata tagliata. Ma funziona. Funziona. Chiamo il centralino perché avverta la polizia, girando la manovella di fianco all’apparecchio disperatamente, come un pazzo.
Vengono subito, hanno promesso. E porteranno un dottore. Di restare dove sono, hanno detto. Ma non posso. Meg e Sarah, devo trovarle. So che non sono in cantina, dove il latte sta sgocciolando: la cantina è tutta ben visibile dalla scaletta di legno. Salvo i giocattoli della mia infanzia, il sabato precedente l’abbiamo sgomberata di tutti gli scatoloni, i barili, i vecchi vasi.
Ma... sotto la scala? Ho dimenticato di guardare sotto la scala e ora corro giù e mi fermo là nel latte, sgomento; ma ci sono soltanto le ragnatele, là sotto, già riformatesi dal sabato, quando avevamo fatto pulizia. Alzo gli occhi verso la porta secondaria dalla quale sono entrato in casa e il mio sguardo, istintivamente, si fissa sulla maniglia. Ho l’impressione che si muova. Ho la paurosa visione dell’intruso che irrompe in casa, e mi precipito su a chiudere a chiave, e a chiudere la porta che dà in granaio.
E poi penso: se Meg e Sarah non sono in casa, è probabile che siano nel granaio. Ma non trovo il coraggio di riaprire la porta ed entrare là dentro. Anche lui dev’essere là. Non fuori, sotto la pioggia, ma nel granaio, e in granaio non ci sono luci da accendere.
E perché il latte? È stato lui? e dove l’ha preso? E perché? Oppure era stata Sarah, prima? No, il latte sgocciola dì fresco, è stato gettato là troppo di recente. Da lui. Ma perché? E chi è lui? Un vagabondo? Un individuo fuggito di galera? O da un manicomio? No, il manicomio più vicino dista centinaia di chilometri. Dalla città, allora. Oppure da una fattoria dei pressi.
So che i miei interrogativi sono un pretesto per indugiare, per evitare di entrare nel granaio. Ma devo. Prendo la lampadina tascabile dal cassetto di cucina, apro la porta del granaio, impongo a me stesso di entrare, bastone alla mano e facendo luce con la lampadina. Le stalle sono ancora là, come un tempo; e anche parte delle attrezzature. Scrematrici, zangole, tutto opaco e arrugginito, sudicio e coperto di ragnatele. Il tanfo del legno marcito e del fieno sbriciolato, l’odore fresco e umido della pioggia che penetra attraverso le fessure del tetto. Un tempo quella era una latteria, come lo sono le altre fattorie del circondario.
Indirizzando la luce negli angoli, avanzando piano piano verso le stalle, sento le tavole cigolare, echeggiare. Cerco di dominare il terrore, cerco di ricordare quando, da ragazzo, le mucche aspettavano nelle stalle che mio padre andasse a mungerle; quando il granaio era solido e ben costruito, ben caldo, quando non c’era porta di comunicazione dalla casa al granaio, perché mio padre non voleva che mia madre, stando in cucina, dovesse respirare l’odore di stalla.
Faccio scorrere il raggio della torcia lungo le pareti, lo sposto ad arco attraverso le tenebre davanti a me, a mano a mano che mi avvicino alle stalle; e, mio malgrado, ricordo quell’altro autunno, quando la neve era caduta malto presto, il mattino dopo superava già il metro e continuava a venire giù fitta, e mio padre la sera era andato in granaio a mungere e non era più rientrato, né per colazione né per cena. Non c’era telefono, allora, nessun modo di invocare aiuto, e mia madre e io avevamo aspettato tutta la notte, incapaci di trovare la strada in quella terribile tormenta, l’orecchio teso ad ascoltare il vento che, lentamente, calava; e il mattino dopo tutto era limpido e sereno, e la luce era accecante, mentre spalavamo il sentiero per trovare le mucche in agonia nelle loro stalle, non essendo state munte, e mio padre morto stecchito nella neve, nel bel mezzo del campo vicino, dove doveva essersi avventurato quando, nella tempesta, aveva perso l’orientamento.
C’era una volpe, che si era alzata più presto di noi, e che lo stava annusando sotto la neve, e mio padre aveva dovuto essere rinchiuso nella cassa prima ancora d’essere esposto, con i ceri. Pochi giorni dopo, la neve sciolta, scomparsa, il granaio un mare di fango, era di nuovo autunno, e mia madre aveva fatto mettere quella porta di comunicazione. Mio padre avrebbe dovuta legarsi una corda alla vita, nell’uscire di casa, per ritrovare la strada nel caso che si fosse smarrito. Senza dubbio, era un uomo di buon senso. Ma purtroppo era fatto così, faceva tutto in premura. Quando io avevo dieci anni.
Tutto questo, penso, mentre illumino gli angoli bui vicino alle stalle, atterrito al pensiero di ciò che potrei trovare in una di esse, Meg e Sarah, oppure l’aggressore; penso a quando mia madre e io cercavamo mio padre, proprio come io, ora, cerco mia moglie e la mia bambina; mi sforzo di pensare al calduccio gradevole che c’era qui dentro, un tempo, quando chiacchieravo con mio padre, aiutandolo a mungere, all’odore dolce del fieno nuovo e del grano, all’odore diversamente dolciastro del letame, che a me era sempre piaciuto, cosa che né mio padre né mia madre riuscivano a capire. So che, se non pensassi a queste cose, impazzirei di certo nell’orribile previsione di ciò che potrei trovare. Dio voglia che non siano morte!
Che cosa avrà fatto, l’intruso? Possibile che abbia violentato una bambina di cinque anni?
Poi, perfino lì nel granaio, mi arriva il grido di mia madre, che mi chiama. Il sollievo che provo ad uscire di là per correre da lei mi snerva. Voglio trovare Meg e Sarah, cercare di salvarle. Eppure, provo sollievo ad andare. Penso che mia madre mi dirà quello che è successo, mi dirà dove posso trovarle. Così giustifico il fatto di uscire di là, sempre proiettando cerchi di luce intorno a me, sempre guardandomi le spalle, indietreggiando attraverso la soglia e richiudendo a chiave.
Di sopra, lei siede irrigidita sul letto. Vorrei indurla a rispondere alle mie domande, scuoterla, costringerla ad aiutarmi; ma so che riuscirei solo a impaurirla di più, forse spingerei la realtà in fondo alla sua mente, dove non potrei più raggiungerla.
— Mamma, — le dico sottovoce, toccandola leggermente. — Cos’è successo? — La mia impazienza si contiene a stento. — Chi è stato? Dove sono Meg e Sarah?
Mi sorride, rassicurata dalla mia presenza. Ancora non può rispondermi.
— Mamma. Ti prego, — dico, — So che dev’essere stato terribile. Ma devi sforzarti di aiutarmi. Devo sapere dove sono, per poterle soccorrere.
Lei dice: — Bambole.
Quella parola mi agghiaccia. — Quali bambole, mamma? È stato qui qualcuno con delle bambole? Che cosa voleva? Vuoi dire che sembrava una bambola? Forse portava una maschera?
Troppe domande. Lei non riesce a fare altro che sbattere le palpebre.
— Ti prego, mamma. Devi fare il possibile per aiutarmi. Dove sono Meg e Sarah?
— Bambole, — dice lei.
Come, in un primo momento, avevo avuto il presentimento di una catastrofe alla vista del copriletto di raso di Sarah, ora comincio a capire, respingendo l’idea, lottando per allontanarla.
— Sì, mamma, le bambole, — dico, rifiutandomi di ammettere quello che ormai so. — Ti prego, mamma. Dove sono Meg e Sarah?
— Sei un ragazzo grande, ora. Devi smetterla di giocare come un bambino. Tuo padre. Senza di lui dovrai essere tu l’uomo di casa. Devi essere coraggioso.
— No, mamma. — Sento la verità che mi si gonfia nel petto.
— Ci sarà tanto lavoro da fare, ora, più di quanto dovrebbe farne un bambino. Ma non abbiamo scelta. Devi adattarti alla volontà di Dio che ha voluto privarci di lui, devi adattarti ad essere il solo uomo che mi sia rimasto per aiutarmi.
— No, mamma!
— Ora sei un uomo e devi mettere da parte le cose di quand’eri bambino.
Con le lagrime che sgorgano, sono appena in grado di rialzarmi, di appoggiarmi esausto contro lo stipite dell’uscio, mentre il pianto mi sgocciola dal volto sulla camicia, bagnandola dove aveva appena cominciato ad asciugarsi. Mi frego gli occhi e vedo che lei si protende verso di me, sorridendo; indietreggio lungo tutto il corridoio, barcollando giù per le scale, incespicando attraverso il salotto, la cucina, e giù giù, nel latte, diguazzando nel latte fino ella casetta delle bambole, e là dentro, pigiata e piegata su se stessa, c’è Sarah, E nel cestone di vimini, Meg. I giocattoli sparsi sul pavimento non perché Sarah ci giocasse, ma tirati fuori per poter mettere nel cesto Meg. E tutt’e due hanno la stomaco sventrato; imbottito di segatura, e i loro occhi sono arrovesciati all’indietro, come quelli delle bambole.
La polizia sta bussando alla porta laterale, picchiando, chiamando per annunciarsi, ma io non ho la forza di andare ad aprire. Sfondano la porta, irrompono, e i loro impermeabili di gomma sgocciolano acqua, mentre restano là immobili, a fissarmi.
— Il latte, — dico.
Non capiscono. Nemmeno mentre aspetto, fermo là nel latte, ascoltando la pioggia che batte sulle finestre mentre loro si avvicinano per vedere cosa c’è nel cesto e nella casa delle bambole; nemmeno mentre vanno su da mia madre e poi ritornano, non capiscono. Così ripeto: — Il latte. — Ma continuano a non capire.
— Le ha uccise la vecchia, naturalmente, — dice uno di loro. — Ma il latte... non vedo perché.
Soltanto quando parlano con i vicini, in fondo alla strada, e sentono che lei è andata da loro, a chiedere quei bidoni di latte, a insistere per trasportarli lei stessa fino alla macchina, soltanto quando, in una delle stalle del granaio, trovano i bidoni vuoti e il coltellaccio, riesco a spiegare: — Il latte. Il sangue. C’era tanto sangue, capite? Aveva bisogno di ignorarlo, di negarlo, così l’ha lavato via con il latte, l’ha purificato, ha rimesso in funzione la latteria. C’era troppo sangue, capite?
È autunno e abitiamo in una casa di campagna, la casa di mia madre, la casa in cui sono cresciuto. Sono stato al villaggio e mi ha colpito il modo come niente sia cambiato; eppure è cambiato tutto, perché ora sono più vecchio e vedo le cose diversamente. È come se fossi qui, contemporaneamente, ora e allora, a un tempo con la mente di un ragazzo e quella di un uomo...
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