lunedì 2 giugno 2025

Martin Werner: Ricatto senza fine



Se Jim Markham fosse morto ventiquattr’ore più tardi, questa storia avrebbe avuto una fine diversa. O forse non vi sarebbe stata nemmeno una storia da raccontare. Ma Jim Markham morì: esattamente alle 6,33 pomeridiane del 7 novembre 1989, a San Francisco. Il mattino dopo, faceva notizia sulle prime pagine, con un necrologio che copriva colonne e colonne di spazio.
Sempre il giorno dopo, ma più tardi, ebbe inizio il crollo del Muro di Berlino, così che il mattino appresso il seguito riguardante la morte di Jim Markham sì e no era ridotto a un paragrafo o due sulle ultime pagine. Più avanti nella settimana, quando ormai le notizie dall’Europa divoravano tutto lo spazio, gli articoli su Markham sparirono del tutto.
Del resto non c’era niente di insolito nella morte di Markham. Tutti sapevano che era gravemente ammalato da mesi e che era solo questione di tempo. Come avevano riferito i giornali, era morto serenamente nel sonno in seguito a una lunga malattia. Sua unica superstite vivente era la moglie, Sylvia Markham. Fine della storia.
E fine di un’èra, anche, in un certo senso. Jim Markham era uno di quei grandi, famosissimi avvocati di cui sembra che San Francisco abbia quasi l’esclusiva. Il suo studio “Markham, O’Neill e Lorenzo” accettava soltanto clienti di grandissimo prestigio e ben forniti di quattrini. I suoi casi, sempre ricchi di colore, erano noti in tutta la nazione, non solo a San Francisco. Tutto il suo stile di vita era di quelli ai quali si ispirano i teleromanzi a puntate. Ambiente e personaggi della storia di Markham erano perfetti. La più bella tra le città americane. Un bell’uomo, autentico principe del foro. E una moglie perfetta che lui adorava: saggia, arguta e oltre tutto splendida. Si può mai chiedere di più?
Sebbene i Markham fossero sposati da venticinque anni, in realtà a San Francisco nessuno sapeva molto sul conto di Sylvia. Si sapevano i dati fondamentali, naturalmente: che proveniva dall’Est, nata e cresciuta in una piccola località dei dintorni di Pittsburgh prima di venire all’Ovest e sposarsi: sebbene, un’altra versione la volesse cresciuta in una fattoria dell’Ohio, poi vincitrice di una borsa di studio universitaria, Sylvia si manteneva sempre vaga su quale fosse quella esatta.
Nei primi tempi del matrimonio, quando Jim era solo uno dei tanti giovani procuratori che muovevano i primi passi legali in Market Street, c’erano state brevi visite da parte dei genitori di Sylvia. (Quelli di Jim erano morti entrambi.) Venivano di solito a Natale, si fermavano per alcuni giorni, poi se ne tornavano là da dove erano venuti. Non avevano occasione di conoscere gli amici di Sylvia e di Jim o, se questo avveniva, non rimanevano particolarmente impressi a nessuno. Col passare degli anni, le visite si erano fatte meno frequenti, poi erano cessate del tutto. Forse perché Jim e Sylvia non volevano “interferenze” nel crescente successo di lui.
Ma soltanto dopo che Jim era diventato un nome di spicco negli ambienti legali di San Francisco, quando la brillante coppia “Sylvia e Jimmy Markham” aveva cominciato ad apparire nella rubrica di Herb Caen sul Chronicle e a venire fotografata a questo o a quell’evento riportato dalle pagine mondane, erano nate le prime voci. Una o due persone asserivano di ricordare d’avere visto Sylvia anni prima che sposasse Jim: a Los Angeles? A Las Vegas? A Tahoe? In uno di quei luoghi. Che cosa ci faceva? Qualcuno riteneva che fosse cameriera in uno degli alberghi di Las Vegas. Qualcun altro la voleva modella e attricetta di Hollywood.
Non aveva importanza. La gente parla, si sa, e Jim e Sylvia ignoravano il tutto. Poi, erano diventati i fulgidi protagonisti della nuova San Francisco “bene”. Jim aveva vinto un processo che l’aveva reso una celebrità nazionale e avevano acquistato la dimora più grande e più sontuosa di Russian Hill, spendendo milioni di dollari per ristrutturarla e arredarla. Dopo di che, erano cominciate le collezioni: Impressionisti francesi, pezzi antichi inglesi, moda parigina. automobili d’annata. Niente era troppo importante o troppo costoso. E il denaro affluiva a fiumi.
Il che era esattamente quello che Sylvia voleva. Perché Sylvia aveva un’unica pecca fin qui taciuta: amava Jim, sì... ma c’era una cosa che amava di più. Il denaro.
E non solo lo amava. Lo adorava, ne sognava, lo contava prima di addormentarsi come si fa con le pecore. Era consapevole di tutte le cose meravigliose che si potevano fare con il denaro. Delle cose che si potevano comperare. Delle lunghe vacanze. Dei domestici. Delle grandi feste che si potevano dare nella vasta dimora di Russian Hill.
Jim la lasciava fare. Amava il suo lavoro ed era contento di mantenere quel sontuoso stile di vita. Di tanto in tanto, diceva di desiderare dei figli, ma Sylvia faceva orecchio da mercante e la cosa era stata lasciata cadere.
Via via che il tempo passava, gli amici avevano notato un cambiamento nell’aspetto un tempo così “in forma” di lui. Aveva cominciato ad apparire stanco e ansioso: sembrava che avesse perso lutto il suo sprint. Poi, dopo quello che era parso un banale incidente sciatorio, non aveva reagito bene alle cure ed era parso evidente che Jim era un uomo molto malato.
Sebbene Sylvia fosse sempre sollecita, con la malattia del marito era parso che fiorisse più che mai. Che fosse una moglie perfetta, non vi era alcun dubbio. Ma alcune persone – i domestici, i soci del marito, alcune altre – conoscevano la vera Sylvia Markham. Quella Sylvia era avida e calcolatrice, tutto ciò che la Sylvia “ufficiale” non era. Tuttavia, per loro motivi personali, quelle persone si guardavano bene dal parlare.
Sylvia continuava ad essere generosa nelle sue apparizioni alle varie feste di beneficenza. Ma non c’era pericolo che riempisse un assegno, a nome di entrambi, per più di venticinque dollari. Se a Jim questo dispiaceva, non lo dava a vedere. Il suo intero mondo – a parte Sylvia, si capisce – era costituito dal lavoro. «È così divertente» diceva. Forse lo era, ma alla fine gli costò la vita.
Tenere un segreto in un matrimonio era facile, ma due?
Jim aveva un fratello di cui l’alta società di San Francisco non sapeva niente. Ralph. “Ralphie il Sorcio”, lo chiamavano lui e Sylvia quand’erano a quattr’occhi.
Ralph era di un paio d’anni più giovane di Jim e gli assomigliava un poco, perfino. Ma la somiglianza finiva lì. Fin da quando erano ragazzi, nell’Oakland, era facile capire che Ralph non avrebbe mai concluso niente di buono. Se la faceva con gli elementi peggiori, era stato espulso dalla scuola, si era messo nei guai, rubando macchine. A vent’anni aveva già alle spalle un matrimonio e un divorzio.
Il giorno del suo ventunesimo compleanno, mamma e papà Markham gli avevano fatto un regalo molto insolito: l’avevano messo alla porta. Lui si era allontanato da San Francisco e non vi aveva mai più fatto ritorno. Mentre Jim si arricchiva via via, Ralph vagava per tutta la California, passando da un modesto lavoretto all’altro. Gestiva minigolf, vendeva qualche modesta proprietà immobiliare, cose di questo genere. E quando la situazione si faceva particolarmente dura, non disdegnava di fare qualche lavoretto sporco: niente di grosso, quel tanto che bastava a superare la crisi. Naturalmente, nel corso degli anni aveva seguito i successi di Jim e diverse volte aveva tentato di scroccargli un centinaio di dollari.
Niente da fare. Jim sarebbe stato disposto, ma i libretti degli assegni li teneva Sylvia. Dopo il quinto o il sesto rifiuto, Ralph aveva rinunciato.
Il giorno della morte di Jim, Ralph stava lavorando come barista del turno pomeridiano in un localino dalle parti di Fresno. Un cliente aveva lasciato sul bar un giornale di San Francisco e proprio in prima pagina c’era una foto di Jim e il titolo: MORTO JAMES MARKHAM A 63 ANNI.
Ralph afferrò il giornale e lesse in fretta il necrologio. Conosceva la maggior parte dei particolari. I processi famosi. L’autobiografia, andata a ruba. La collezione d’arte. Poi, studiò la foto di Jim e di Sylvia. La vedova. La donna che era “l’unica erede dei milioni di Markham”.
Ehi, un momento, disse a se stesso Ralph. Io so chi è questa. È Dorothy Swallow. Las Vegas, 1961.
Terminato il suo turno, si licenziò dall’impiego al bar, tornò nella sua stanza d’affitto e fece le valigie. Un’ora più tardi, era sull’autobus della sera in partenza per San Francisco. Il tempo di arrivare a destinazione, e i suoi piani erano fatti.
Per prima cosa, prese alloggio in un alberghetto dalle parti di Union Square e telefonò al socio di Jim, Fred Lorenzo.
Fred sapeva dell’esistenza di Ralph da anni, per cui non gli sembrò strano che ora si trovasse in città. Era venuto per il funerale, probabilmente. Diede a Ralph tutti i particolari e gli disse come mettersi in contatto con Sylvia.
Ora che aveva il numero privato di Sylvia, Ralph non perse tempo e la chiamò. Rispose un compito domestico inglese. — Posso parlare con la signora Markham? — disse Ralph.
— Spiacente, signore — rispose il domestico. — La signora Markham non si sente di venire al telefono, questa sera.
Ralph fu all’altezza della situazione. — Penso che forse con me vorrà parlare. Le dica per favore che sono suo cognato, Ralph Markham.
Dopo pochi minuti, Sylvia era in linea.
— Ralph? Ralph, sei tu? Dove sei?
Sembrava la gentilezza personificata, finché Ralph non disse: — Poco lontano da te, Sylvia. Forse un quarto d’ora. Sono in centro.
La sentì, praticamente, trattenere il respiro. — Bene, Ralph. Tu sai quello che è successo. Questo è un gran brutto momento, per me. — La voce parve mancarle.
— Sì, lo so. Ecco perché vorrei venire a trovarti. Più tardi, s’intende, dopo che i tuoi amici se ne saranno andati.
— A trovarmi perché?
— Preferirei non parlarne al telefono, Sylvia. È una questione di famiglia.
— Di famiglia? Ma...
— Ti prego, Sylvia. È importante.
— Mi spiace, ma...
— Aspetta, Sylvia, aspetta un momento. È che ho qui delle carte di Jim. Me le aveva mandate tanto tempo fa. Diceva che avrei dovuto darle a te nel caso gli fosse accaduto qualcosa. O fosse accaduto a me.
Sapeva che una storia del genere avrebbe fatto presa su lei. E infatti, Sylvia disse: — Be’, in tal caso... Facciamo verso le undici.
Era lo spiraglio in cui Ralph sperava. Sapeva che sua cognata era coriacea. Ma Dorothy Swallow non lo era.
Poco dopo le undici, il taxi di Ralph si fermò davanti alla villa di Russian Hill. Una semplice corona a lutto era appesa al portone. Al piano terreno le luci erano accese, ma tutto era immerso nel silenzio. A quanto sembrava, i visitatori passati di là per dare conforto a Sylvia ormai se n’erano andati.
Ralph, nel premere il campanello, poté sentire il carillon echeggiare all’interno. Dopo un breve intervallo, il domestico venne ad aprire e lo fece accomodare nella biblioteca tutta a pannelli di legno. — Avverto la signora Markham che lei è qui, — disse, e lasciò la stanza.
Ralph rivolse l’attenzione ai Renoir e ai Manet che rivestivano le pareti. I quadri non gli dicevano molto, ma l’elegante stanza sì. Sapeva di quattrini: quattrini dei Markham.
D’improvviso, lei apparve sulla soglia, altera, elegante, la mano tesa. Aveva imparato a comportarsi da gran dama, non c’era che dire.
— Ralph. Mi dispiace che ci si debba incontrare così...
Parole. Parole compite.
E così, eccola, finalmente. Proprio come nella foto sul giornale. Solo che ora era vestita per la parte di vedova in recenti gramaglie: vestito di chiffon grigio e filo di perle. Gli occhi erano appena un po’ arrossati dalle lagrime. Perfetta.
Sedettero e, dopo avere diviso un paio di ricordi di Jim, lei disse: — Quando hai telefonato, mi dicevi qualcosa a proposito di certe carte di Jim. Carte di che genere?
— Be’ — le spiegò lui — tanto tempo fa (prima che si guastassero le cose fra noi) Jim mi fece fare una promessa. Disse che, nel caso fosse morto prima di me, dovevo portarti certa roba, cose che lui aveva messo da parte. Cose del passato. Disse che, se ti avessi portato questa busta, tu mi avresti ricompensato del disturbo.
Il sorriso di lei si gelò. La voce coltivata con cura assunse un che di tagliente. — Un momento, di che si tratta? Un altro dei tuoi sporchi imbrogli?
— Ehi, ehi... non diventiamo drammatici, sorellina. Queste carte in fondo non assommano a molto. Sono solo vecchi articoli di giornale sul mio passato corrotto. Sai: il genere di cose che potrebbero macchiare l’immagine di uno dei cittadini più in vista di San Francisco.
— Forse tu vuoi scherzare, Ralph. Nessuno si cura più di queste cose, al giorno d’oggi.
— Sì, probabilmente hai ragione. Ma c’è una particolare serie di ricordi di famiglia che forse ai tuoi amici di San Francisco farebbe piacere vedere. Alcune foto prese dai giornali di Las Vegas, che risalgono all’inizio degli anni Sessanta.
Sylvia continuava a fissarlo dritto negli occhi.
— Sì, Sylvia. Certe foto di cinque o sei ragazze prese in una retata a Las Vegas. Sembra che la polizia locale avesse ricevuto l’imbeccata sul conto loro. Avevano organizzato un certo movimento: mungere un bel po’ d’individui che sarebbero arrivati in città per i convegni. Sai, no, di che cosa parlo? Uomini ai quali piace fare un po’ di baldoria, giocare e via discorrendo. Da mesi la polizia le teneva d’occhio, quelle bambine.
— Ancora non capisco.
— Una di loro si chiamava Dorothy Swallow.
— E allora?
— Allora io ero barista nel posto dove Dorothy lavorava. Non la conoscevo personalmente, ma un amico mio sì. Anzi, mi disse perfino d’averla presentata a mio fratello una volta che lui si trovava in città per affari. Non aveva finito di dirmelo, e stavano per sposarsi, mio fratello e quella prostituta.
Ralph non si aspettava di vederla andare in briciole così presto, ma lei crollò. Poche lagrime, tutto lì: — D’accordo. Ralph, hai vinto. È chiaro che quelle foto sono mie. Sarei una sciocca a negarlo.
Ha fegato, pensò Ralph.
— Certo, ricordo tutto quello che accadde a quei tempi. Mi pare di ricordare perfino d’averti visto. Ma non lo capisci, tutto questo fa parte della storia, ormai: è acqua passata. Jim mi ha aiutata a rifarmi una vita, qui, e io ora non voglio perderla.
— Né io voglio che tu la perda, cara.
— Sono stata una buona moglie, anche. Più che una moglie: una compagna di vita. Ho aiutato Jim e lui ha aiutato me, insieme ce l’abbiamo fatta. Non vorrai distruggere tutto questo, dopo tanti anni, con quelle stupide fotografie.
— Certo che no. Chi credi che io sia, insomma?
— Magari lo sapessi.
— Sylvia, non sono venuto qui per mandare in pezzi la tua preziosa reputazione... o quella di mio fratello. Tutto quello che voglio è la mia piccola parte dei profitti della famiglia.
— La tua parte?
— Sì. Come se io fossi il tuo agente o qualcosa del genere. Diciamo un dieci per cento?
La vide irrigidirsi. Gli occhi arrossati avevano ora una luce dura. Dalla Dorothy Swallow piuttosto ingenua, si era improvvisamente ritrasformata in Sylvia Markham. la donna fredda, calcolatrice, avida di denaro che c’erano voluti venticinque anni a creare. Quello che Ralph non poteva vedere era ciò che stava passando dietro quegli occhi.
Poi, lei ricominciò a recitare. — Hai vinto, Ralph... hai vinto. Studieremo qualcosa insieme. Ma non questa sera. Dammi un po’ di tempo, ti prego. Almeno fino a domani. Dopo il funerale, sistemeremo tutto: hai la mia parola.
— Mi basta.
— Promettimi solo che non verrai al servizio funebre. Potrebbe sembrare un po’ strano.
— Strano? E perché?
— Sai quello che voglio dire. La pecora nera di famiglia, il fratello rimasto per tanto tempo lontano. Mi pare di sentirli: «Che cosa ci fa qui, dopo tutti questi anni?». Per favore... vattene in albergo e disdici la stanza, poi torna pure qui. Fatti una buona notte di riposo, qui, e domani potrai girare per casa, usare la sauna e la piscina. Scegliti pure qualcuno degli abiti di Jim, se ti fa piacere: sono tuoi. Poi, domani pomeriggio, quando tutto sarà finito, parleremo.
Peccato che Ralph Markham, dopo tutti quegli anni, fosse ancora così ingenuo. O sciocco. O forse era solo così avido che, qualsiasi cosa Sylvia dicesse, gli sembrava plausibile. Ormai era disposto a credere a qualunque cosa, purché il risultato fosse: denaro.
Si disse d’accordo con i piani di lei. Si sarebbe fermato per la notte e si sarebbe comportato da perfetto ospite della casa. Fino alla sera seguente... quando se ne sarebbe andato con un accordo firmato in tasca.
Il giorno seguente fu uno dei più felici che Ralph avesse mai trascorso in vita sua.
Gli amici erano passati piuttosto presto a prendere Sylvia, così Ralph ebbe la possibilità di dormire fino a mezzogiorno in una stanza degli ospiti delle dimensioni di alcuni dei bar in cui lui aveva lavorato. Poi, il domestico, vero maggiordomo all’inglese, gli portò la prima colazione su un vassoio. Dopo qualche minuto, erano perfino diventati amici. Ralph era bravissimo nell’allacciare rapporti cordiali con tutti.
Una volta vestito, Ralph esplorò la casa. Il cervello gli doleva a forza di addizionare quanto tutto quel ben di Dio potesse valere per Sylvia... e per lui. Nella camera del fratello, si provò i vestiti su misura, le camicie finissime, le scarpe fatte a mano. Cassetti e cassetti di biancheria bellissima. Fortuna che siamo sempre stati della stessa taglia, pensava Ralph.
Durante il pomeriggio, volle provare la piscina di dimensioni olimpiche. Sylvia aveva accennato anche a una sauna, così dopo la nuotata Ralph decise di provarla, scoprì che era calda e confortevole e, spogliatosi, vi entrò e chiuse dietro di sé la pesante porta di quercia.
Avvoltosi una spugna intorno ai fianchi, si distese su una delle brandine di legno. Già sentiva il sudore cominciare a formarsi. Finalmente la tensione delle ultime ventiquattr’ore cominciava ad allentarsi.
Finalmente, pensava Sylvia nell’accompagnare alla porta gli ultimi pochi ospiti che si erano ancora attardati.
Il funerale in sé era stato perfetto, proprio come ogni altra riunione da lei organizzata. La chiesa piena di fiori. Il semplice servizio funebre presso la fossa. I pochi amici, scelti con estrema cura, ai quali aveva chiesto di accompagnarla a casa. Era riuscita però a sbarazzarsene il più in fretta possibile, dopo, perché sapeva che Ralph si trovava dentro casa e non voleva doverne spiegare la presenza.
Anche i domestici se n’erano andati. Aveva fatto in modo di lasciarli liberi, per poter essere completamente sola al momento di affrontare il cognato.
Mentre vagava di stanza in stanza, si aspettava di imbattersi prima o poi nel sorridente Ralph. Ma lui non era da nessuna parte. Poi, si ricordò. La piscina. La sauna.
Aveva visto giusto, naturalmente. Lui era là, oltre la porta chiusa della sauna. Come sbirciò attraverso la finestrella nell’uscio, poté vederlo lungo disteso su una delle panche, profondamente addormentato.
Senza un istante di ripensamento, andò alla serie di contatori che servivano a controllare il sistema di riscaldamento all’interno della sauna. Regolò tutto sul massimo, poi, pian pianino, bloccò la porta dall’esterno.
Nello sbirciare di nuovo attraverso la finestrella, poteva seguire la scena.
Ralph, all’improvviso accesso di vapore, si svegliò di soprassalto. Gocciolava sudore e la pelle gli si era fatta pericolosamente rossa. Con un grande sforzo, si tirò su dalla panca dove si era addormentato e si affrettò verso la porta per aprirla. La porta non cedeva. Tentò di nuovo, con più energia, continuando poi a scuotere la maniglia e a dare spuntoni alla porta con la spalla. Si sentiva diventare sempre più debole, sopraffatto dal calore che lo avvolgeva come una seconda pelle. Con le poche forze che ancora gli restavano riuscì ad aprire la bocca per invocare aiuto. Ma naturalmente nessuno lo sentì. Tranne Sylvia.
Lentamente, Sylvia saliva le scale, diretta dalla sauna al piano superiore e al silenzio della sua stanza da letto.
Vi entrò e si tolse il bell’abito nero di Givenchy indossato per il funerale (e ordinato mesi prima per l’occasione). Pace, finalmente, mormorava tra sé.
Niente più Jim. Era morto e sepolto. Niente più Ralph. Era morto anche lui nello sfortunato “incidente” della sauna trasformatasi in un inferno. Avrebbe aspettato ancora qualche minuto, poi sarebbe scesa, avrebbe riportato l’impianto alla normalità, e avrebbe chiamato la polizia. Prima, però, intendeva concedersi un buon whisky liscio.
Mentre infilava una vestaglia, udì il sibilo di una sirena. Andò alla finestra e vide che un’ambulanza stava fermandosi davanti alla porta d’entrata, con i lampeggiatori in funzione. Mentre due uomini balzavano a terra, lei distinse le parole scritte sulla fiancata del veicolo: SAUNE – SQUADRA DI SOCCORSO.
Da basso, intanto, arrivava un tremendo bussare e scampanellare. Sylvia volò giù per le scale, per aprire. Gli uomini si precipitarono dentro e si diressero verso la sauna. — Che c’è? Che cosa succede? — gridò lei.
— Emergenza! Qualcosa non va nel suo impianto di riscaldamento!
Lei allora ricordò, e si arrestò. Ma certo! Come aveva fatto a non pensarci? Anni prima, quando avevano ristrutturato la casa, Jim aveva insistito perché tutto fosse perfetto. Un impianto d’allarme in grado di offrire la massima protezione e un sistema di sicurezza – vera novità, a quell’epoca – per la sauna. Se la temperatura all’interno avesse superato certi limiti, sarebbe scattato un dispositivo che avrebbe avvertito l’apposita squadra di soccorso, con sede a pochi minuti di distanza. Una luce rossa, che da Russian Hill avesse preso a lampeggiare nella loro sede, sarebbe stato l’unico segnale necessario.
E adesso, erano sul posto.
Uno degli uomini aveva spento tutti i comandi del riscaldamento. L’altro stava tirando fuori Ralph dalla stanza arroventata. Entrambi fissarono incuriositi Sylvia.
— È morto? — La voce di lei era così bassa che a stento la udirono.
— Respira ancora. Forse se la caverà. Ma farà meglio a chiamare la polizia e il pronto soccorso e a dire che vengano d’urgenza.
Inutile esitare: come una cieca, lei andò al telefono e formò il 911.
Già lo sentiva che Ralph non sarebbe morto. E l’indomani le avrebbe portato tutta una nuova serie di orrori. Sguardi. Domande. Accuse.
E ricatto. Ralph non era uno stupido. Avrebbe capito che cosa lei aveva tentato di fare, e non le avrebbe mai permesso di dimenticarsene.
Avrebbe preteso denaro per tenere la bocca chiusa. E lei avrebbe pagato.
In seguito, ne avrebbe preteso dell’altro... e di nuovo lei avrebbe pagato. E questo sarebbe continuato per sempre, fino a che non sarebbe rimasto più niente da fare.
Così era fatto il ricatto: non aveva mai fine. Proprio come un matrimonio senza amore.

 

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