venerdì 13 giugno 2025

Craig Strete: Madre di stoffa, cuore di orologio



La mia intenzione era di ucciderlo, ma non avevo idea che l’avrei fatto veramente.
Mi sono meravigliato di me stesso. Ma a volte perdo il controllo, credo. Ammattisco,
spacco le cose, rompo le finestre, getto escrementi d’animale contro la gente della
domenica. Matto, ecco cosa pensano che sia. Ma non m’importa cosa pensano, m’importa
solo che mi uccideranno. Di questo m’importa.
M’importa questo fatto, che mi uccideranno. Non importerebbe a tutti? Provate a
chiedere a chiunque stia in queste gabbie: tutti vi diranno la stessa cosa. A nessuno
piace essere ucciso. Tranne forse ai serpenti. A volte mi chiedo se i serpenti sappiano
quando sono vivi e quando no. I serpenti sono creature indifferenti.
Forse sarebbe meglio che mi uccidessero. E questa volta spero che facciano le cose
per bene. Non ho più voglia di sopportare ancora tutto. Sono stanco di stare qui su
questa paglia sporca alla mercé della gastrite del guardiano. Pasti regolari? Direi di
no. Una volta era Braddock il mio guardiano, e allora la gente mi voleva bene. Mi
davano da mangiare al minuto spaccato, e io ero tutto lustro e coccolato. La gente
veniva per me, allora. Ero un figurino, allora. Sissignore, proprio così.
Ma adesso, da quando hanno trovato il corpo di Braddock parzialmente divorato,
con gli intestini di fuori, come segatura uscita da una bambola di pezza, noi animali
dobbiamo accontentarci di quello che ci danno, che non è molto. Il nuovo guardiano
dev’essere un demente, da come beve e tutto il resto, e quando ha lo stomaco in
subbuglio credete che ci dia da mangiare? Neanche per sogno.
Le cose hanno preso una brutta piega da quando ho ucciso quell’uomo. Una volta
stavo nella stessa gabbia di Flippy e Jumpo, ma adesso sono solo. Forse sono soltanto
troppo vecchio. Ecco una delle cose cui andiamo soggetti: diventare troppo vecchi. I
muscoli s’induriscono e perdiamo la memoria. Capita che una settimana ascoltiamo
gli «oh!» e gli «ah!» dei bambini che ci guardano, e che la settimana dopo non si riesca
nemmeno a ricordare una sola delle acrobazie, e il pelo comincia a cadere. Così
vanno le cose.
Quando ero giovane, invece, mi volevano bene. Non ricordo mia madre. Loro la
portarono via e mi diedero questa cosa di stoffa con un orologio dentro. Naturalmente
non era lo stesso che avere una madre, però serviva allo scopo. Era meglio che non
avere alcun tipo di madre, così la pensavo io. La stoffa era tanto soffice, quasi come il
pelo di mia madre, e il ticchettìo dell’orologio era regolare come quello di un cuore.
L’orologio andava avanti di un minuto ogni ora, e forse è questa la ragione per cui io
sono diventato così bislacco. Sono cose che capitano, sapete.
C’è ancora del sangue sulla paglia, e vorrei proprio che qualcuno venisse a
cambiarmela, anche se credo che non verrà nessuno. Da quando ho ucciso, nessuno
mi è più venuto vicino, tranne che per buttarmi il cibo attraverso le sbarre. Poco, tra
l’altro. Sento la mancanza di Braddock. Vorrei che non l’avessero trovato ridotto in
quel modo. Mi dava da mangiare e da mangiare bene, questo lo ricorderò sempre.
Morendo, sanguinava in modo orribile. Anche questo lo ricorderò sempre. Quante
cose ci sono da ricordare.
Mi dispiace che non mi coccolino più. Nessuno viene più a spazzolarmi. Sono tutto
in disordine. Forse morire non è una cattiva idea. Non mi vogliono più bene, e credo
che non me ne vorranno più. Perché vivere allora? Che senso avrebbe? Comunque,
sono troppo vecchio per fare scherzi. E sono tanto solo.
Riesco ancora a vedere fuori dalla finestra, là in alto. Riesco ancora ad arrampicarmi
un po’, anche se non so a cosa serva. Sento la gente, fuori, che ride e si diverte.
Vivono come se non fosse successo niente, e forse non è davvero successo niente, per
loro. Perché invece per me è cambiato tutto?
Che sia quello che chiamano “crescere”? Se è così, non mi piace e vorrei che la
smettesse. Nessuno viene più a vedermi. Niente da guardare e niente da aspettare con
gioia, un solo triste pasto al giorno, che non basta nemmeno a mantenermi in forma.
Se mi uccidono, almeno uscirò da questa gabbia. Dovranno tirarmi fuori per
seppellirmi. Noi animali veniamo sempre seppelliti nella terra. Sono proprio strani.
Seppellirci è uno spreco di carne. Forse non gli viene in mente che siamo
commestibili.
Non so perché non ci mangino quando moriamo. Non li capisco. Una volta mi avevano
messo in una gabbia con Nappi. Nappi era uguale a me, solo che lei aveva il
pelo forse un po’ più lungo e gli occhi più vivaci. Dormivamo sugli alberi abbracciati
uno all’altra. Eravamo molto felici. Ma un giorno portarono Nappi nel grande palazzo
bianco dove portano tutti gli animali quando muoiono.
La riportarono indietro una notte, con strane cose di vetro e metallo conficcate
nella testa. Le avevano raccolto il pelo ai due lati della testa, e in mezzo avevano
piantato quelle cose. Non so se credessero che sarebbero cresciute, o no. A me non
piacevano. E nemmeno a Nappi.
Dopo quel fatto Nappi non mi volle più bene. Non si arrampicava più sugli alberi
con me, e quando cercavo di abbracciarla, mi affondava nel braccio i denti bianchi e
aguzzi. Non potevo andarle vicino che mi mordeva. In seguito la portarono via perché
tentò di mordere Braddock quando ci portò da mangiare. Non era da Nappi fare così:
Nappi era sempre stata dolce e gentile, sempre la prima ad affacciarsi alle sbarre per
farsi coccolare. Era stata una beniamina di Braddock, che aveva sempre una parola
buona per lei. Ma non era più la Nappi di prima.
Ringhiava e girava furiosa per la gabbia. Spaventava i visitatori, e così un giorno
vennero a prenderla e non la vidi mai più. Immagino che l’abbiano distrutta perché le
cose piantate nella sua testa non crescevano. Non capisco perché facciano così. Nappi
era buona e cara. Aveva avuto una madre vera ed era piena di vita.
Dormo molto perché mi aiuta a passare il tempo. Non ho più molta fame, adesso, e
il pelo mi cade. Quando mi portano da mangiare mangio, ma senza voglia. A volte, di
notte, chiamo gli altri animali, e loro mi rispondono, ma non mi è di grande aiuto.
Non riesco a vederli e i versi amichevoli che mi fanno mi fanno solo star peggio.
Non avevo intenzione di uccidere quell’uomo. Non sapevo che era lui. Non
avrebbe dovuto trovarsi lì. O forse avevo intenzione di ucciderlo. Mi spaventava. Sì,
e credo sia per questo che l’ho ucciso. Quella notte che entrò nella mia gabbia c’era
qualcosa che non andava. Anche tutti gli altri animali se n’erano accorti. Andavano
su e giù nelle gabbie, ringhiando. Alcuni dei grossi felini si erano persino buttati
ruggendo contro le sbarre.
L’uomo aveva un odore strano. Aveva l’odore degli animali che sono malati e
vengono portati nel palazzo bianco quando non si muovono più. Qualche volta
restano così tutta la notte, malati e immobili, prima che li trovino, e il loro odore
diventa sempre più forte. Proprio l’odore che aveva lui.
Era buio, io ero sveglio sul mio albero, stretto al tronco perché sentivo la mancanza
di Nappi e del suo tepore. Lui rotolò giù dal muro malamente, e cadde come se non
avesse ossa. Mi spaventò.
Mi nascosi nell’albero. Non volevo che mi vedesse. Camminava tutto rigido. A
ogni passo pareva sul punto di cadere. Teneva gli occhi chiusi, lo vedevo alla luce
della luna, e mi ricordava quegli animali che nel sonno muovono le gambe e fanno
rumori di gola.
Mi nascosi dietro il tronco, pensando che non mi avrebbe trovato. Ma mi
sbagliavo. Veniva proprio da me. Arrivò alla porta della mia gabbia, e le mani
armeggiarono con la serratura. Gli animali delle gabbie accanto erano furiosi. Le urla
e i sibili riempivano l’aria. L’uomo non ne era affatto disturbato.
Ero spaventatissimo. Mi arrabbio quando sono spaventato, e faccio certe cose. Non
mi piace fare quelle cose, ma quando sono spaventato perdo il controllo. L’uomo
stava scardinando la porta della mia gabbia. Io non volevo che entrasse. Il suo odore
mi spaventava.
Spalancò la porta ed entrò. Io gli mostrai i denti e ringhiai. Non lo volevo nella mia
gabbia. Non mi piace che la gente entri nella mia gabbia. Lui aprì gli occhi, ma gli
occhi erano vitrei. Non credo che mi vedesse.
Ringhiai.
Contorse la bocca e mosse le labbra. Allungò la mano fra i rami e mi toccò una
zampa. La mano era fredda e umida, e io non potevo sopportarne l’odore. Gli balzai
addosso. Gli morsi la faccia, gli artigliai gli occhi, e quando cadde gli saltai sul petto.
Su e giù, su e giù. Cadde subito, senza rumori e senza lottare. Io impazzii ancora di
più per questo, e lo straziai con i miei denti bianchi e aguzzi. Lo feci a pezzi.
Gli altri animali nelle gabbie accanto alla mia ruggivano e si lanciavano contro le
sbarre in un parossismo di rabbia. Anch’io era furioso. Ero spaventato e avevo perso
il controllo. Staccai la testa a quella cosa che aveva cattivo odore. Affondai i denti più
volte in quel tenero collo bianco e la testa si staccò. Trascinai qua e là quella cosa
sanguinante. Artigliai i vestiti impregnati di odore che faceva impazzire, li stracciai, e
calpestai furiosamente quel tenero corpo bianco. Ero terrorizzato, ero arrabbiato.
Poi corsi sull’albero e mi strinsi ai rami finché le braccia non mi fecero male.
Cercai di riposarmi e di calmarmi. Ero stanco, ero spaventato, volevo andarmene
lontano da lì e non vedere mai più quell’uomo. Guardai in basso: l’uomo non si era
mosso. Mi strinsi ancora di più ai rami.
L’uomo non aveva più né braccia né gambe, e sulla mia paglia c’era tanto sangue.
Questo non mi andava. Non mi piace il sangue. Mi fa venire il mal di testa, e allora
mi arrabbio e mi spavento. Rimasi sull’albero per tutta la notte.
Quando il nuovo guardiano, quel disgraziato che beve sempre, venne la mattina
dopo a cambiarmi la paglia, trovò l’uomo morto. Pensai che mi avrebbe picchiato col
bastone. Ma non lo fece. Scappò via, invece, e loro vennero con una rete e mi
tirarono giù dall’albero e mi avvolsero nella rete. E non mi ascoltarono per quanto
urlassi a più non posso. Avrei voluto essere libero, ma loro non mi ascoltavano.
Ecco perché mi hanno messo in questa gabbia, nel grande palazzo bianco ed ecco
perché gli uomini vestiti di bianco hanno deciso di uccidermi. Continuano a dirmi che
mi uccideranno ma non m’importa. Il mio pelo cade e loro non mi danno abbastanza
da mangiare, e nessuno mi coccola più. Non m’importa. Dormirò, e così mi aiuterà a
passare il tempo. Non mi vogliono più bene. Non m’importa. Dormirò molto e farò
un bel sogno e sarò molto, molto arrabbiato quando mi sveglieranno perché il mio
sogno sarà tanto bello e io non avrò voglia di staccarmene.
Sognerò di essere morto.
 


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