Olin Mearns sedeva da solo nell’aula improvvisata sopra il ristorante “El Greco” e si teneva il volto tra le mani. Sapeva che non avrebbe mai dimenticato quella giornata, ma ciò non era insolito. La sua professione era quella di ricordare le cose e di addestrare gli altri in questa pratica. Era un insegnante di Memoria. E ai bei tempi la sua classe, nel Britt Buildings nella Quarantaduesima strada, contava dai venti ai trenta studenti al semestre. Dopo dieci minuti dall’inizio del corso era in grado di dare un nome a ogni volto, impresa che non finiva mai di colpire i suoi allievi.
Naturalmente la cosa gli riusciva molto più facile ora, dato che in classe non aveva mai più di cinque o sei studenti, una triste realtà che l’aveva costretto a lasciare l’indirizzo sulla Quarantaduesima strada per un alloggio più piccolo sopra il ristorante “El Greco”, in centro dove la cosa più notevole del suo corso era l’odore di olio di oliva bollente. Uno dei suoi pochi studenti era stata Penelope Walz, che era la causa della sua attuale infelicità. Aveva compiuto proprio quel giorno 24 anni, e aveva un volto che Olin non riusciva a dimenticare, anche se ci si provava a una bella figura, anche se un tantino rigogliosa. Inoltre aveva un cervello simile a un colino.
Era stata quell’ultima caratteristica a interessare Penelope al piccolo annuncio pubblicitario che Olin faceva uscire regolarmente sul Daily News:
Non dimenticate mai un volto! Non dimenticate mai un nome! Non dimenticate mai un fatto che potrebbe essere essenziale per il vostro lavoro e per il vostro successo! In solo quattro brevi settimane Olin Mearns, laureato in filosofia, vi aiuterà a sviluppare una memoria perfetta.
Proprio quella mattina a Penelope la memoria imperfetta era costata per la quarta volta in quell’anno l’impiego di segretaria. Lavorava per un avvocato di nome Nerdlinger, ma raramente ricordava il suo nome. Quel giorno il signor Nerdlinger in persona era entrato in ufficio e Penelope aveva detto: — In che cosa posso esservi utile? — Era in quell’ufficio da quattro mesi. Quando se n’era andata si era persino scordata di prendere lo stipendio.
La verità è che Olin era riuscito a fare ben poco per le capacità mnemoniche di Penelope. Il loro incontro era memorabile per una ragione diversa: Olin si era innamorato appassionatamente e senza speranza per la prima volta nei suoi quarantanove anni di vita. Penelope ne era stata piuttosto compiaciuta da
corrispondergli nonostante la differenza di età, la modestia del fisico di Olin e il fatto che i suoi capelli fossero solo un ricordo. Era il cervello che l’aveva colpito, quel vasto magazzino di fatti, situato sotto la sua calvizie.
Ma quel pomeriggio, quando era arrivato con il regalo di compleanno per lei, nell’atteggiamento di Penelope c’era qualcosa di assai diverso dal solito.
— Che cos’hai tesoro? — le aveva chiesto Olin. — Non ti piacciono le rose?
— Mezza dozzina — aveva detto Penelope in tono acido. — Pensa, portare a qualcuno una mezza dozzina di rose!
— Tesoro, ti ho detto che devo tagliare le spese.
— Tu devi tagliare le spese! — aveva esclamato Penelope. — E io? Sai che mi aumentano l’affitto di questo appartamento di trenta dollari al mese? Sai quanto denaro devo al droghiere? E il prestito che dovevi farmi?
Olin aveva deglutito faticosamente rimpiangendo che vi fossero cose che Penelope non dimenticava.
— Tesoro, sai come sono andati male gli affari in questi ultimi tempi. Questo trimestre non ho ancora fatto alcuna nuova iscrizione...
— E l’anello che dovevi comperarmi? — lo aveva accusato lei. — Che cosa ne è stato di quello? Davvero, Olin, per essere un insegnante di memoria a volte tu di memoria ne hai molto poca!
— Tesoro, sto aspettando che le cose si mettano meglio. È un problema economico, la gente crede che di questi tempi studiare sia un lusso...
— Non me ne importa dei lussi — aveva risposto gelidamente Penelope. — Io so solo che non sto diventando più giovane, perciò ho deciso di accettare l’impiego che non so chi mi ha offerto presso non so quale società.
Olin era sobbalzato. — Non intenderai quel lavoro in Alaska? Perché vuoi andare laggiù a gelare?
— Quel tale mi ha detto che non fa davvero freddo, non a...
— Juneau — aveva detto Olin. Poi aveva tentato di cingerle la vita col braccio ed era sussultato quando si era visto respinto.
— Mi dispiace — aveva detto con fermezza Penelope. — Una ragazza deve pensare al proprio futuro, Olin, e non sembra che tu ne abbia uno.
Ora, solo nell’aula vuota, Olin sentiva l’eco di quelle parole nella testa. Diventarono parte della sua banca della memoria insieme con le capitali del mondo, i record sportivi e tutti gli altri fatti che ora gli sembravano inutili e di nessun rilievo.
Quando suonò il campanello riuscì a muoversi solo al terzo squillo. Ma l’abitudine era più forte del dispiacere e quando aprì la porta e vide il volto dell’uomo sulla soglia scattò mentalmente una fotografia dei suoi lineamenti: le sopracciglia folte e sporgenti, il mento quadrato in cui una cicatrice provocava una fossetta innaturale, le labbra sottili, gli occhi giallastri sfuggenti e sospettosi. E, con lo stesso senso di trionfo che riusciva sempre a provare in quelle occasioni, Olin Mearns si rese conto di poter effettivamente dare un nome al volto di quello sconosciuto. Non era sicuro del perché, ma sapeva che si chiamava Morgan Krebs.
— Mike Kingston — disse l’uomo lasciando stupito Olin. — Vi ho chiamato stamattina, signor Mearns, ricordate?
— Oh — rispose Olin. — Certo signor... Kingston, prego, entrate.
L’altro entrò e parve sollevato di vedere la porta chiudersi alle proprie spalle.
— Ho letto il vostro annuncio. Riguardo al corso di Memoria.
— Ah — rispose sbadatamente Olin, ancora perplesso per quel mistero. Non dimenticava mai un volto, o il nome cui esso apparteneva. Stava forse perdendo le sue capacità, oltre alla ragazza e alla carriera? Ma subito dopo, quando Kingston rifiutò la sedia che lui gli offriva e si diresse alla finestra, Olin ebbe la risposta. Kingston usava un nome falso e non c’era da stupirsene. Il nome “Morgan Krebs” era comparso sotto una foto del suo volto di profilo e di faccia, sui manifesti dei ricercati e sulle pagine dei giornali.
— Il fatto è — stava dicendogli Kingston — che io non voglio fare tutto il corso. Non ne ho il tempo, capite?
— Be’... e che cosa avreste in mente allora? — chiese Olin.
— Quello che veramente ho bisogno di ricordare è una sola cosa — rispose Kingston. Guardò di lato fuori dalla finestra in direzione della strada. Olin non capì se lo facesse perché pensava di essere pedinato solo per forza di abitudine.
— Una sola cosa — ripeté Olin. — Temo di non capire.
— Ho dimenticato una cosa e non riesco più a ricordarmela e questo mi preoccupa. Voglio dire, mi preoccupa molto. Ho pensato che un tizio che sa tutto sulla Memoria dovrebbe sapere come riuscire a far sì che mi ricordi. Mi sbaglio o no?
Quell’uomo rendeva Olin nervoso, ma era l’unica cosa più vicina a un allievo in carne e ossa che lui vedesse da settimane.
— Be’ — gli rispose cautamente — non sono sicuro che voi capiate com’è il mio corso, signor Krebston.
— Kingston.
— Kingston, sì. Vedete, io insegno alla gente come sviluppare la memoria. Come usare i processi di associazione, di correlazione e di assimilazione. — Il volto dell’altro era come un lenzuolo bianco e vuoto. Imbarazzato Olin concluse: — Forse se voi mi parlaste di quello che....
— D’accordo — rispose Krebs. — Vedete, un paio di giorni fa ho depositato alcuni... oggetti personali in uno di quei nuovi armadietti della stazione ferroviaria. Sapete, uno di quegli armadietti che funzionano senza chiave. Si tratta di quegli armadietti con serratura a combinazione. Li conoscete?
Olin annuì, affascinato dai modi scattanti e dagli occhi sfuggenti di quell’uomo.
— Be’, è stata una cosa stupida, sapete, perché io me ne sono andato e ho dimenticato il numero. Voglio dire, avevo un biglietto col numero e la combinazione dell’armadietto ma l’ho perso quando si è fatto troppo caldo... voglio dire... il clima — si affrettò ad aggiungere: — Cioè ho cambiato abito, capite? — Olin continuò ad annuire. — Continuo a cercare di ricordare quei numeri, voglio dire, sto diventando pazzo per cercare di ricordarmeli. È importante, capite?
— Be’, forse se parlaste con qualcuno, un funzionario delle ferrovie o la ditta che fabbrica gli armadietti... — propose Olin.
— Scordatevene — rispose seccamente Kingston ignorando la professione di Olin. — Questa è una cosa che non posso fare, non vi preoccupate del perché. Devo ricordare quei numeri e devo prendere quegli... ehm... oggetti personali dall’armadietto. Quindi, quello che io voglio da voi, professore, è che mi aiutiate a ricordare, capite?
Olin capiva fin troppo bene. Ovviamente Morgan Krebs attribuiva molto valore a quegli “oggetti personali”.
— Be’, è piuttosto insolito — disse. — Cioè, non sono sicuro che i miei metodi particolari possano “pungolare” la memoria oltre che migliorarla.
Krebs, che teneva la mano sulla tapparella della finestra, la picchiettò con gesto spazientito.
— Potete aiutarmi o no?
— Può darsi, può darsi — si affrettò a rispondere Olin. — I princìpi basilari potrebbero essere gli stessi ma non sono sicuro di riuscire.
— Vi pagherò, sia che funzioni sia che non funzioni — disse Krebs. — In ogni caso pagherò la tariffa piena del vostro corso. Centocinquanta dollari, esatto?
— Sì.
— D’accordo. Vi pagherò un centone e mezzo solo perché vi ci proviate. E se riuscirete a farmi ricordare quei numeri, professore, ci sarà anche un premio per voi, intendo un bel premio grosso.
Olin parve riflettere sulla proposta anche se in effetti aveva già deciso di accettare.
— Sì — disse alla fine. — Posso provarci.
Disse a Krebs di tornare il mattino seguente, quando avrebbero avuto inizio le lezioni private.
Nell’attimo in cui il suo nuovo allievo se ne andò Olin si precipitò al telefono.
— Penelope? — disse. — Devo vederti, devo dirti una cosa.
— I nomi di tutti i presidenti e vicepresidenti? Non mi interessano, grazie.
— Non capisci, è successo qualcosa che potrebbe essere molto importante.
— Sto andando a letto — gli rispose Penelope. — Devo alzarmi presto. Ho appuntamento con quel... come si chiama... per quel, come si chiama, per il lavoro, in Alaska.
— Dammi solo un po’ di tempo — la supplicò.
— Dimenticati di me — gli rispose. — Io mi sono già dimenticata di te, Harlan.
— Olin — la corresse lui con voce infelice e udì lo scatto all’altro capo del filo.
Quando il mattino seguente Krebs arrivò puntualissimo non parve rendersi conto del fatto che il suo insegnante la notte prima aveva dormito solo due ore e aveva trascorso il resto del tempo dedicato solitamente al sonno a sfogliare libri, la maggior parte dei quali aveva già bene impressi nella memoria. Ma Olin non aveva trovato alcun sistema infallibile per scovare dalla memoria fatti già dimenticati. Avrebbe dovuto barcamenarsi.
— Proveremo con la tecnica chiamata di associazione — disse al suo allievo. — Ogni ricordo è associato ad altri ricordi e se riusciamo ad unirne uno all’altro...
— Come volete, professore.
— Ditemi cosa facevate il giorno in cui avete messo quegli... ehm... oggetti personali nell’armadietto.
— Non ricordo.
— Ricordate quello che stavate pensando quando avete messo via quegli oggetti?
— Lasciate stare quello che stavo pensando — rispose con freddezza Krebs. — Voi ditemi soltanto come ricordare quei numeri.
— D’accordo. Chiudete gli occhi e cercate di vedervi mentre mettete gli oggetti nell’armadietto. — Kingston chiuse gli occhi. — Che cosa vedete?
— Niente, è troppo buio.
— Vedete la forma della cosa che state mettendo nell’armadietto?
— Sì, ricordo la forma. È una valigetta nera... — spalancò gli occhi. — Non preoccupatevi della forma, professore, la forma so quale è. Quello che voglio sapere è dove è.
—Riuscite a ricordare almeno una delle cifre?
— Che cos’è una cifra?
— Riuscite a ricordare almeno uno dei numeri? 0, 1, 2, 3 o 4?
— Sì — rispose Kingston.
— Quale, quale? — chiese agitato Olin. — Riuscite a ricordare quale era di questi numeri?
— Era o uno 0 o un 1 o un 2 o un 3 o un 4, solo che non ricordo se veniva primo, secondo, terzo o ultimo.
Olin si appoggiò alla sedia con un sospiro.
Quella sera ritelefonò a Penelope.
— Chi avete detto che parla? — chiese lei.
Il giorno successivo Olin disse al suo alunno: — Oggi proveremo a fare un test di associazione di parole, anche se penso sia più corretto dire un test di associazione di numeri.
Senza molta speranza di successo prese a leggere un lungo elenco di combinazioni di quattro cifre. Dopo ciascuna di esse Kingston o borbottava un no o si limitava a scrollare le spalle. Alla fine, dopo due ore, lo studente era talmente stanco che si stese sul divano di Olin e chiuse gli occhi.
— Novemilanovecentodiciotto — disse Olin con voce ormai roca.
Kingston non rispose. Dormiva.
Quella sera, invece di telefonare a Penelope andò al suo appartamento e la trovò intenta a fare le valigie.
— Vattene, Nolan — disse. — Parto questo fine settimana, il signor Hammerschmidt viene a prendermi sabato mattina.
— Chi? — chiese Olin con una fitta di gelosia nell’udire per la prima volta il nome del nuovo datore di lavoro di Penelope.
— Il signor Hammerschmidt — disse di nuovo Penelope. — È nel campo dei farmaceutici.
— È un rappresentante?
— No, deve aprire un’intera catena di drugstore in Alaska e io vado con lui come sua segretaria personale. — Si addolcì quando vide la mesta reazione di Olin. — Mi dispiace, mi dispiace davvero. Ma ti avevo detto che dovevo pensare al mio futuro, ricordi?
— Ricordo — rispose Olin senza orgoglio.
Il giorno seguente portò Krebs sul posto. Si recarono insieme al terminal della stazione ferroviaria e cercarono di ricreare le circostanze. Krebs avvertì subito Olin
che aveva già provato a fare la stessa cosa per conto proprio passando per ore e ore davanti alle file di armadietti, ma senza alcun risultato.
L’incoraggiamento di Olin non servì a nulla. Krebs non riusciva semplicemente a ricordare.
La situazione cominciò ad apparire senza speranza.
Quella notte, sfogliando trattati sulla memoria che in precedenza aveva considerato poco pratici e privi di valore, Olin provò un senso di scoraggiamento che non aveva mai sperimentato fino ad allora.
Poi l’aiuto gli venne da Sigmund Freud.
Non aveva mai tentato di analizzare le ragioni che stavano dietro la dimenticanza di Krebs. Ma rileggendo Freud e le sue opere sulla teoria dell’inconscio si rese improvvisamente conto che Morgan Krebs si sentiva colpevole per quella qualunque cosa che aveva nascosto. Proprio così! Lui non voleva ricordare quel numero.
Ma come sarebbe riuscito ad abbattere la barriera eretta da Krebs? Olin non era un analista, né poteva ipnotizzare Krebs per scoprire la verità. Che cosa sarebbe riuscito a farlo collaborare?
Poi ebbe l’idea geniale.
Medicine!
Quando Penelope udì quello che lui aveva in testa sussultò.
— Olin, non posso fare una cosa simile!
— Potresti fare qualunque cosa se ti ci provassi — le rispose Olin carezzandole un braccio. — Devi ricordare il nome: Pentatol di sodio (1). Non devi nemmeno cercare di ricordartelo, te lo scriverò, amore mio, e devi dire al tuo gentile amico, il signor Hammerschmidt, che deve assolutamente dartene un po’ altrimenti non potrai andare in Alaska con lui.
— Ma che cosa intendi fartene?
— Intendo aiutare il signor Krebs, amore. Aiuterò il mio paziente, voglio dire, il mio allievo, a ricordare una cosa molto, molto importante. E quando se la sarà ricordata tutto cambierà per me e per te.
— Non vedo come — disse Penelope. Ma lui capiva che stava già vacillando.
Stranamente Penelope ebbe pochissima difficoltà nell’ottenere la medicina dal signor Hammerschmidt. Chiaramente la minaccia di dover andare nella fredda Alaska senza di lei fu sufficiente a indurlo a dargliela senza porre troppe domande.
Venerdì mattina, il giorno prima del volo per Juneau, Olin le telefonò e le disse di aspettare sviluppi molto interessanti.
Quando Krebs entrò e seppe quello che aveva in mente il professore sbiancò in volto.
— Non mi piacciono gli aghi — disse seccamente.
— Non dovete preoccuparvi — rispose Olin. — Nell’esercito ho fatto l’infermiere. Ho fatto migliaia di iniezioni e non ho mai perso una paziente. — E fece a Krebs un sorriso tutto denti che voleva essere rassicurante.
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(1) In realtà l’autore si riferisce al Pentotal (ha invertito la a con la o per evitare i diritti d’autore). Derivato dall’acido tiobarbiturico, il Pentotal ha proprietà narcotiche e, in dosi notevoli, viene usato come “siero della verità” nelle procedure giudiziarie di alcuni paesi. (N.d.R.)
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Krebs resistette per altri quindici minuti poi, spronato dalle promesse di risultati immediati, cedette.
Olin gli fece l’iniezione.
Non aveva mai sperimentato prima di allora un siero della verità ma aveva visto un numero sufficiente di film per sapere che doveva cominciare col chiedere al soggetto di contare da cento indietro. Krebs fece una smorfia e si addormentò di colpo.
Per un attimo Olin pensò che il suo piano fosse fallito, poi Krebs si agitò e disse: — Non sono stato io, agente.
Olin si chinò sul divano. — Signor Kingston, ascoltatemi. — Per tutta risposta l’altro cominciò a russare. — Morgan — disse ad alta voce. — Morgan Krebs, ascoltatemi!
— Sì, che cosa c’è? — disse il suo allievo in tono stizzito. — Che cosa volete?
— Voglio che ricordiate qualcosa, Morgan Krebs. Voglio che ricordiate il giorno in cui siete entrato nella stazione ferroviaria con una valigetta nera! Ricordate?
— E con questo? — chiese Krebs in tono ostile, gli occhi ancora chiusi.
— Ricordate, vero Morgan?
— Sì, ricordo.
— Sapevate che dovevate liberarvi di quella valigetta, vero Morgan? Sapevate che la polizia incalzava?
— Sporchi piedipiatti spioni! — gridò Morgan agitando le gambe sul bracciolo del divano.
— Siete andato agli armadietti, vero Morgan? Ne avete scelto uno, avete messo la moneta nella fessura e avete posto la valigetta all’interno. È così?
— Sì, dovevo liberarmene, mi stavano inseguendo!
— Avete preso il biglietto, vero Morgan? Che cosa ne avete fatto del biglietto? L’avete buttato via affinché i poliziotti non riuscissero a trovarlo?
— Sì.
— Il che vuol dire che avete affidato i numeri del biglietto alla vostra memoria, vero? Pensavate di poterveli ricordare senza nessuna fatica, vero?
— Sì, chiunque può ricordare pochi numeri.
— Certo che potete, Morgan, anzi, potete ricordarli subito.
— No, non posso!
— Sì, che potete! — disse Olin umettandosi le labbra aride. — Basta che guardiate il biglietto, guardatelo nella vostra mente... e vedrete i numeri molto chiaramente. Ce la fate, Morgan? Molto chiaramente!
Il volto di Krebs era sudato, alcune gocce di sudore si erano fermate nella cicatrice sul mento.
— Sì — disse. — Sì, molto chiaramente.
Olin cominciò a sua volta a sudare.
— Li vedete Morgan? Vedete i numeri?
— Sì, li vedo.
— Quali sono? Quali sono i numeri?
Un sorriso stava addolcendo le labbra sottili di Krebs.
— Cinque, zero, uno, uno — rispose in tono sognante. Il suo corpo parve rilassarsi di colpo. — Armadietto numero cinque, zero, uno, uno combinazione numero due, due, cinque.
Un gran senso di pace parve scendere sull’uomo disteso sul divano. Era così contento che si addormentò di nuovo. Ma quella contentezza non poteva essere pari al senso di trionfo che provava Olin Mearns. In effetti Olin era così eccitato che decise di telefonare lì per lì a Penelope mentre Kingston russava sorridente sul divano.
— Non andrai in Alaska, tesoro mio — le disse. — Andrai a Palm Beach, Florida, dove fa caldo ed è bello. Starai al sole col tuo Olin e diventerai nera come il carbone.
— Florida! — esclamò Penelope. — Oh Marlon, sarebbe meraviglioso, ma come puoi permetterlo?
— Rifai le valigie — le disse ridacchiando. — Solo, questa volta, mettici roba per i climi caldi, tesoro.
Un’ora dopo Krebs si svegliò e si mise seduto. — Che cosa è successo? — disse con voce impastata. — Che cosa è successo, professore?
Olin lo guardò mestamente e scosse la testa.
— Mi dispiace, signor Kingston, il siero della verità era la mia ultima risorsa e temo sia fallita.
— Non siete riuscito a farmi ricordare i numeri?
— No, non ha funzionato, ma ho una buona notizia per voi.
— E cioè?
— Mi pagherete solo metà tariffa — disse con tono soddisfatto Olin. — Lo trovo giusto.
Le spalle robuste di Krebs si abbassarono facendolo quasi apparire sparuto.
Olin attese un’ora dopo che Krebs se ne fu andato. Non aveva fretta. Non si preoccupò nemmeno di trascrivere i numeri, sapeva di potersi fidare della propria memoria. Lo aveva sempre fatto e ancora una volta provò orgoglio per le proprie capacità e fiducia nel futuro.
La polizia trovò il nome e l’indirizzo di Penelope nell’agenda da tasca di Olin Mearns, il che spiegò perché andarono da lei quella notte.
— Ma non capisco — piagnucolò lei. — Come può essere successa una cosa simile ad Olin?
— Pensavamo che poteste spiegarcelo voi, signorina Walz. Che cosa lo ha spinto ad aprire quell’armadietto? E quando l’ha fatto perché ha tirato fuori quella valigetta? Lo sapete?
— Non era il suo armadietto — singhiozzò Penelope. — Apparteneva a un suo allievo, un uomo di nome Tibbs, no, sembrava più Crads.
— Krebs? Morgan Krebs?
— Sì, questo era il nome. Che cosa c’era in quella valigetta?
— Qualcosa che Krebs non voleva fosse trovata da qualche ispettore di polizia quando l’armadietto fosse stato aperto. Di solito lasciava quelle cosucce negli uffici delle società telefoniche. Dopo le ore di ufficio. Odia le società telefoniche ma non ha mai voluto uccidere nessuno.
— Uccidere nessuno? Volete dire che è un killer?
— Un vero peccato che il vostro amico non si sia ricordato chi fosse realmente Krebs. Se se lo fosse ricordato ora il suo corpo non sarebbe spiaccicato per tutto il terminal della stazione. Avrebbe dovuto ricordarsi come i giornalisti chiamavano Morgan Krebs.
— Come lo chiamavano?
— “Il bombarolo pazzo del Bronx”.
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