lunedì 9 giugno 2025

W.W. Jacobs: Il custode di suo fratello



Anthony Keller, pallido e sconvolto, raggiunse barcollando la piccola anticamera e chiuse silenziosamente dietro di sé la porta dello studio. Solo mezz’ora prima era entrato in quella stanza con Henry Martie, e Martie non ne sarebbe uscito mai più, almeno finché non lo avessero portato fuori.
Tolse l’orologio dal taschino e ve lo rimise, senza guardarlo. Si lasciò cadere su una sedia, cercando di controllare il tremito delle gambe, e si sforzò di pensare. L’orologio oltre la porta chiusa batté nove colpi. Gli restavano dieci ore: dieci ore prima che la donna che si occupava della sua casa venisse al lavoro.
Dieci ore! Sembrava che il cervello si rifiutasse di funzionare. C’erano tante cose da fare, tante cose cui pensare. Dio! Se avesse potuto rivivere gli ultimi dieci minuti... Se solo Martie non avesse detto che la sua visita era improvvisa e che nessuno ne sapeva niente...
Andò nella stanza sul retro, aprì l’armadietto e trangugiò un mezzo bicchiere di whisky liscio. Gli sembrava assurdo che la stanza avesse esattamente lo stesso aspetto di prima. Era sempre la stessa bella stanza, con le acqueforti alle pareti, e il libro che stava leggendo, aperto sul tavolo come lo aveva lasciato quando Martie aveva bussato alla porta. Poteva quasi sentirli adesso, quei colpi...
Trattenne il fiato, con un gemito. Il bicchiere vuoto gli si ruppe in mano. Qualcuno stava bussando alla porta. Per un momento restò immobile, tremando, poi, leccandosi il sangue sulla mano, tolse di mezzo con il piede i frammenti di vetro e si fermò, senza sapere bene che fare. I colpì alla porta si ripeterono, così forti e insistenti che, per un attimo, temette che potessero svegliare quell’orribile cosa, nella stanza accanto. Poi, andò alla porta e l’aprì. Un uomo basso e robusto, salutandolo rumorosamente, entrò in anticamera.
— Pensavo che fosse morto — disse cordialmente. — Salve!
— Mi sono tagliato con un bicchiere rotto — rispose Keller, cercando di controllare la voce.
— Bisogna fermare il sangue. Ha un fazzoletto pulito?
Si diresse alla porta e stava già per girare la maniglia quando Keller lo raggiunse in fretta e lo trattenne. — Non qui — disse in tono affannoso. — Non qui.
— Che diavolo succede? — chiese il visitatore, stupito. Le labbra di Keller si mossero quasi da sole. — C’è qualcuno dentro — mormorò. — Qualcuno. Per di qui, prego.
Lo spinse nella stanza sul retro e nervosamente gli offrì una sedia.
— No, grazie — disse l’altro, offeso. — Sono venuto solo per una pipatina. Non sapevo che avesse visite. Comunque, non avrei mangiato i suoi ospiti. Buona notte.
Keller lo fissava, in piedi, con gli occhi sbarrati. Anche l’amico lo fissò. Poi, d’un tratto, ammiccò divertito e sorrise in modo malizioso.
— Che cosa c’è, lì dentro? — chiese, accennando con il pollice allo studio.
Keller immobile lo fissava. — Niente — rispose. — Niente. Nnn...
— Ah, ah! — ribatté l’altro. — Tutto bene. Non si preoccupi: sarò una tomba. Voi, acque chete, siete sempre i peggiori, vero? Mi stia bene.
Gli affibbiò un colpo scherzoso nelle costole e se ne andò ridacchiando. Keller, respirando appena lo accompagnò con gli occhi fino al cancello, chiuse silenziosamente la porta, mise la spranga e tornò nella stanza sul retro.
Calmò i nervi con un altro po’ di whisky e cercò di farsi forza per il compito che lo attendeva. Doveva calmare la paura e il rimorso, doveva superare l’orrore che gli faceva la cosa nell’altra stanza e sistemarla da qualche parte dove nessuno l’avrebbe mai vista. Lui, proprio lui, Anthony Keller, un tranquillo e pacifico cittadino, doveva fare una cosa del genere.
Il piccolo orologio nella stanza accanto batté le dieci. Gli restavano soltanto nove ore. A passo leggero, uscì sul retro, aprì la rimessa delle biciclette e diede una buona occhiata. C’era spazio in abbondanza.
Lasciò la porta chiusa e, rientrando in casa, raggiunse lo studio. Per due volte girò la maniglia, senza riuscire ad aprire l’uscio. E se quando avesse guardato Martie, Martie si fosse girato e, a sua volta, l’avesse fissato? Di colpo, girò la maniglia con decisione e aprì.
Martie era abbastanza tranquillo. Tranquillo e in pace: faceva persino un poco pietà. La paura di Keller svanì, ma fu sostituita dall’invidia. Dopo tutto, Martie aveva avuto la sorte migliore. Non gli sarebbe toccata una vita d’angoscia e d’orrore, l’inutile disperazione, la paura dell’ignoto. Keller, guardando il volto pallido e la testa massacrata, pensò agli anni che lo aspettavano. Gli anni? O non sarebbero state piuttosto settimane? Con un gemito, si mise al lavoro e afferrando Martie per le spalle lo trascinò, con i talloni che strisciavano per terra, alla rimessa.
Chiuse la porta e si mise la chiave in tasca. Poi riempì un secchio d’acqua in cucina e prese dei tovaglioli. Il dito ferito sanguinava ancora, ma si limitò a guardarlo con una specie d’astuta soddisfazione. Sarebbe stato utile.
Fu un lavoro lungo, ma riuscì a finirlo. Si sedette, riflettendo, e poi controllò accuratamente la stanza, in cerca di quel nonnulla che avrebbe potuto rappresentare la sua rovina.
Era quasi mezzanotte e, a meno che non volesse attirare l’attenzione di tutti i poliziotti di passaggio, doveva spegnere, o abbassare, le luci confortanti. Lo fece in fretta e, a passi esitanti, salì al piano di sopra, in camera sua.
Il letto era fuori questione. Abbassò il gas, si accomodò su una sedia e si mise ad aspettare il mattino. Con la schiena rigida, le mani aggrappate ai braccioli, sedeva
nervoso, in attesa. La casa tranquilla era piena di strani rumori, di fruscii, di crepitii. E se lo spirito di Martie stesse vagando attorno all’edificio?
Si alzò e cominciò a camminare su e giù per la stanza, fermandosi ogni poco per ascoltare. Avrebbe giurato che qualcosa annaspava dall’altra parte della porta e una volta, girandosi all’improvviso, credette di vedere la maniglia che si muoveva. Un po’ seduto e un po’ camminando, trascorse tutta la notte, finché in lontananza un gallo non salutò l’alba e, un po’ più tardi, il canto occasionale di un uccello non annunciò l’alba vicina.

La luce del giorno gli portò un po’ di coraggio. Eliminando ogni altro pensiero dalla mente, si concentrò sul come sfuggire alle conseguenze del suo delitto. Esaminò la stanza e l’anticamera, a palmo a palmo. Uscì in giardino, fece il giro della rimessa, si sincerò che non ci fossero buchi o fessure che potessero rivelare il suo segreto. Percorse il giardino in tutta la lunghezza e si guardò intorno. La casa più vicina era a un centinaio di metri e la vista era bloccata dagli alberi. Vicino all’angolo della staccionata avrebbe potuto scavare una specie di trincea, sulla quale poi ammucchiare mattoni, pietre, terriccio. Una volta cominciato, avrebbe dedicato al lavoro tutto il tempo che voleva, e ogni giorno sarebbe stato sempre più sicuro. L’idea di un giardino roccioso gli dava una sensazione di stabilità e permanenza più di qualsiasi altra.
Era appena tornato in casa, quando arrivò la domestica. In poche parole, le raccontò dell’incidente della sera prima. — Ho ripulito tutto quel... disastro, come meglio ho potuto.
La signora Howe fece un cenno d’assenso. — Me ne occuperò io, mentre lei fa colazione. Per fortuna, signore, che lei non è uno di quelli che svengono alla vista del sangue...
Portò caffè e pancetta nella piccola sala da pranzo sul retro, e Keller, mentre sorseggiava il caffè e si sforzava di mangiare qualcosa, la sentì darsi da fare nello studio. Alla fine, spinse il piatto di lato e, dopo aver riempito una pipa il cui aroma andò del tutto perduto, rimase a fumare e a pensare.
Fu interrotto dalla signora Howe. La donna, in piedi in corridoio, gli pose una domanda che gli annubilò il cervello e, per un momento, gli impedì di proferire parola.
— Eh? — riuscì a dire, alla fine.
— La chiave della rimessa — ripeté la donna, fissandolo. — Si ricorda che aveva preso due strofinacci per pulire la bicicletta?
Keller si frugò nelle tasche, pensando, pensando. — Uhmm... temo di averla lasciata da qualche parte. Darò un’occhiata — disse alla fine.
La signora Howe annuì. — Ha un brutto aspetto — disse poi. — Forse si è fatto più male di quanto non pensa...
Keller si costrinse a sorridere e scosse il capo, lasciandosi ricadere sulla sedia, mentre lei si allontanava. Cercava di controllare il tremito delle membra.
Sedette a lungo senza far nulla, ascoltando ottusamente i rumori prodotti dalla signora Howe che andava di qua e di là. Sentiva che stava lavando i gradini della
porta sul retro. Poi gli giunse un rumore cui dapprima non prestò attenzione. Era una specie di tintinnio musicale, come di chiavi che battessero l’una sull’altra. Chiavi.
Balzò in piedi di furia e si precipitò alla porta. La signora Howe, che aveva in mano un grosso mazzo di chiavi, ne aveva inserita una nella serratura della rimessa e stava cercando di girarla.
— Ferma! — gridò Keller con Voce angosciata. — FERMA!
Le strappò le chiavi di mano e le gettò lontano. Poi restò ansimando a guardarla. Un lampo di paura negli occhi di lei lo fece tornare in sé.
— Serratura rotta — mormorò — Rotta. Mi scusi, non volevo gridare. Non ho dormito tutta la notte. Nevralgia. Temo di essere un po’ nervoso.
La donna si rilassò e lo sguardo le si addolcì. — Ho visto subito che non era tanto normale, quando sono arrivata, stamattina — commentò.
Poi tornò in casa, ma a lui sembrò che, mentre gli passava accanto, gli desse un’occhiata strana. Lei si rimise al lavoro, ma con fare un po’ mogio: quella mattina, quando incontrava lo sguardo di lui, il che avvenne un paio di volte, distoglieva subito il suo. Alla fine, Keller capì che anche lui si comportava in modo strano. Continuava a entrare e a uscire dalla casa, e, in giardino, era sempre dalle parti della rimessa.
All’ora di pranzo riuscì a controllarsi un po’ meglio. Aprì una bottiglia di birra e, congratulandosi con la signora Howe per il grado di cottura delle costolette, le chiese notizie del marito e di come andasse la sua ricerca di un posto di lavoro (era praticamente la sua unica occupazione da quando l’aveva sposata, dieci anni addietro) Un po’ di paura sparì dagli occhi di lei, ma non tutta, e la donna lascio la stanza con manifesto sollievo.
Keller si trattenne in sala un po’ dopo il pranzo e anche questo era inconsueto. Due o tre volte si alzò, deciso a fare una breve passeggiata, per salvare le apparenze, ma l’idea della rimessa lo tratteneva. Non voleva lasciarla incustodita. Con grande sforzo, trovò l’energia sufficiente per arrivare all’estremità del giardino e mettersi al suo lugubre lavoro.
Scavò e scavò, evitando di dare allo scavo una forma che potesse suscitare commenti se mai qualcuno fosse capitato lì per caso. La terra era soffice e, nonostante la mano ferita, fece dei progressi rapidi, anche se si interrompeva spesso per ascoltare, o per spostarsi in modo da tener d’occhio la rimessa.
Dopo una pausa per il tè, si rimise al lavoro, finché, alle sette, non fu convocato per la sua parca cena. Il lavoro manuale gli aveva fatto bene: aveva un aspetto quasi normale. Con la signora Howe buttò lì qualche commento sul lavoro del pomeriggio e si informò dalla donna dove procurarsi le piante migliori per un giardino roccioso.
Quando lei ebbe lavato i piatti e se ne fu andata, la paura tornò a tormentarlo. La casa era diventata un posto spiacevole; la rimessa era un luogo d’indicibile orrore. Se gli fossero saltati i nervi e non avesse trovato il coraggio di entrare... Continuò a camminare su e giù, per un’ora, nel lungo crepuscolo, aspettando il buio.
Il buio, alla fine, venne, e Keller, lottando con la paura e la nausea, portò la carriola del giardiniere fino alla rimessa e si tolse la chiave da tasca. Andò al cancello sul davanti e ispezionò la strada silenziosa. Poi tornò sui suoi passi, infilò la chiave nella serratura, aprì la porta, e alla luce d’una torcia elettrica contemplò ciò che aveva lasciato la notte precedente.
Con le orecchie tese a captare il minimo suono, afferrò per le spalle l’occupante della rimessa, lo trascinò fuori e cercò di sistemarlo sulla carriola. Quando ci fu riuscito, afferrò le stanghe e, tenendo il corpo rigido dell’altro in precario equilibrio, con gli occhi spenti che guardavano dritto nei suoi, accompagnò in silenzio Martie al posto che gli era stato destinato.
Non lo lasciò solo per un bel po’. Non fino a quando la terra non fu ammucchiata su di lui in una specie di cupola circolare e uno strato o due di mattoni indicassero la prima base di un giardino roccioso. Poi riattraversò lentamente il giardino, controllò la rimessa, la chiuse e rientrò in casa.
L’aver sistemato il corpo gli diede un certo sollievo. Sarebbe vissuto. Avrebbe avuto tutto il tempo per deplorare il suo gesto e, forse, per dimenticarlo. Si lavò le mani all’acquaio e, temendo le ombre del piano di sopra, accostò le pesanti tende della sala da pranzo e si sistemò in una poltrona. Bevve fino a che i suoi sensi non si furono assopiti; infine la tensione nervosa si allentò, le membra doloranti si rilassarono, e cadde in un sonno pesante.

Si svegliò alle sei, si alzò barcollando, scostò le tende e spense il gas. Poi salì le scale, scompigliò il letto e andò in bagno. L’acqua fredda, una rasatura, un cambio di biancheria lo fecero star meglio. Aprì le porte e le finestre e lasciò che l’aria fresca invadesse la casa. Quella casa in cui sarebbe stato costretto ad abitare per sempre, perché non avrebbe mai osato abbandonarla. Un altro inquilino avrebbe potuto avere dei gusti diversi in tema di giardini rocciosi.
All’occhio vigile della signora Howe, apparve quasi in sé. La chiave della rimessa era ricomparsa, e lui le porse con un sorriso i “preziosi strofinacci”. Poi uscì in bicicletta per procurarsi roccaglie e piantine al più vicino vivaio.
Si dedicò assiduamente al nuovo lavoro e con il passare del tempo il giardino roccioso si fece sempre più imponente e massiccio. Ogni pietra e ogni pianta che aggiungeva aumentava la sua sicurezza. Mangiava di buon appetito e, con sua sorpresa, dormiva bene; ma ogni mattina l’angoscia apriva gli occhi con lui.
Il giardino non era più un luogo di tranquillo riposo; la casa, che faceva parte dell’eredità di cui si era tanto compiaciuto solo un anno prima, era ormai una prigione dove avrebbe espiato una condanna a vita. Non poteva né venderla né affittarla: un altro avrebbe, forse, modificato il giardino... e scavato. Da quella sera fatale non guardava più i giornali, per paura di leggere della scomparsa di Martie. Da allora non aveva nemmeno parlato con un amico.
Martie era tranquillissimo. Non c’erano, in casa, né ombre né rumori furtivi, né forme vaghe in giardino di notte. Solo il ricordo lo tormentava, ed era più che sufficiente.
E poi venne l’incubo. Un sogno confuso e grottesco, come la maggior parte dei sogni. Era in piedi, in giardino, al crepuscolo e vedeva muoversi una delle rocce. Poi altre la seguivano. Una grande lastra di pietra in cima al cumulo scivolava giù; era ovvio che tutta la massa di terra e di sassi era scossa da qualche forza interna.
Qualcosa cercava di uscire. Poi si ricordava che era lui stesso a essere sepolto in quel luogo: non era il caso di restare fuori. Doveva tornarsene là sotto. Era stato Martie a mettercelo, e per qualche motivo che non riusciva a ricordare, aveva paura di Martie. Prendeva gli attrezzi e si metteva al lavoro. Era un lavoro lungo e noioso, anche perché non poteva fare rumore. Scavava e scavava, ma la tomba non c’era più. Poi, all’improvviso, qualcosa si impossessava di lui e lo teneva giù, giù. Non poteva né muoversi né gridare.
Si svegliò con un urlo e per un minuto o due restò a letto tremante. Grazie a Dio, era stato solo un sogno. La camera era invasa dalla luce del sole e si sentiva la signora Howe muoversi al piano di sotto. La vita era bella e forse aveva ancora qualcosa in serbo per lui.
Rimase a letto a crogiolarsi per qualche minuto, e proprio mentre stava per alzarsi, sentì la signora Howe arrivare di corsa su per le scale.
— Signor Keller! Signor Keller!
— Che c’è? — rispose a fatica.
— Il suo giardino roccioso — gemeva la cameriera. — Il suo bel giardino! È andato!
— Andato? — gridò Keller, balzando dal letto e afferrando la vestaglia.
— In mille pezzi — confermò la signora Howe quando lui aprì la porta. — Non ho mai visto un disastro simile. Tutto sparso di qua e di là, come se fosse stato un pazzo.
Si infilò meccanicamente un paio di pantofole e scese dabbasso. Traversò il giardino di corsa, e, dopo aver rimandato la donna indietro con un cenno, restò a guardare le rovine. Pietre e terra, in effetti, erano sparse un po’ dappertutto, ma il luogo che importava davvero non era stato toccato. Keller era confuso e preoccupato. Chi poteva essere stato? Perché l’avevano fatto?
Pensò all’incubo che aveva avuto e seppe la verità. Non era necessario che la schiena e le braccia doloranti gli ricordassero che cos’era successo. Non era necessario ricordare gli attacchi di sonnambulismo di cui soffriva da giovane. Sapeva chi era stato, adesso.
— Devo chiamare la polizia? — chiese la voce della signora Howe.
Keller la fissò con uno sguardo impietrito. — No — disse lentamente. — Ci... ci penserò io. — Prese la vanga e cominciò l’opera di ricostruzione. Lavorò per un’ora, poi si vestì e fece colazione. Per il resto del giorno lavorò lentamente, ma con determinazione, e a sera gran parte del danno era stato riparato. Poi entrò, per affrontare la lunga notte.
Il sonno, il miglior animo dell’uomo, si era mutato per lui in un nemico spietato. Si fece un caffè sulla stufa a gas e combatté, tazza dopo tazza, contro la stanchezza. Lesse, fumò e camminò per la stanza. Frammenti dimenticati dell’incubo gli tornarono alla mente e continuarono ad assillarlo. E in fondo ai suoi pensieri c’era la certezza di essere ormai spacciato.
Gli restava una sola speranza: andarsene, per un po’. Abbastanza lontano da rendere impossibile un ritorno a casa nel sonno. Forse il cambiamento gli avrebbe fatto bene, gli avrebbe rimesso i nervi a posto. Dopotutto, doveva ben essere possibile affittare la casa per un breve periodo, a condizione di non modificare assolutamente il giardino. Era un rischio da correre.
Uscì in giardino appena si fece chiaro e contemplò la propria opera. Poi rientrò in casa per la colazione, e per annunciare alla signora Howe il suo progetto di partenza immediata. Il viso pallido e teso confermava ampiamente la sua storia di nevralgie e di bisogno di dormire.
— Baderò io a tutto — disse la donna. — Chiederò alla polizia di tener d’occhio la casa di notte. Li ho già avvertiti di quei vandali che hanno rovinato il giardino roccioso. Se ci proveranno di nuovo, avranno una bella sorpresa.
Keller trasalì, ma non disse niente. Salì le scale, fece i bagagli e due ore dopo era già sul treno per Exeter, dove voleva passare la notte. Poi, magari, la Cornovaglia.
Prese una camera all’albergo e uscì a fare due passi prima di cena. Come sembravano allegri tutti, per la strada, anche i più poveri! Tutti liberi e sicuri della propria libertà. Potevano mangiare, dormire e godersi le mille cose senza importanza che rallegrano la vita. Non pensavano a lotte, a omicidi, alla morte improvvisa.
La luce e l’affollamento della sala da pranzo gli diedero qualche sollievo. Dopo le notti solitarie, era un piacere sapere che c’era qualcuno attorno a lui, che la casa sarebbe stata piena di gente, mentre dormiva. Sentì che stava per cominciare una nuova vita. In futuro sarebbe vissuto in mezzo alla folla.
Era tardi quando si ritirò, ma restò sveglio, a letto, per qualche minuto. Dal piano di sotto gli giunse qualche debole rumore e qualcuno che si muoveva nella stanza accanto gli diede un piacevole senso di sicurezza. Con un sospiro di sollievo, si addormentò.
Fu svegliato da qualcuno che bussava: i colpi sembravano partire proprio da sopra la testata del letto, e cessarono prima ancora che il sonno si dissipasse dai suoi occhi. Si guardò intorno, timoroso e poi, dopo aver acceso la candela, restò ad ascoltare. Il rumore non si ripeté. Stava sognando, prima, ma non riusciva a ricordare la sostanza del sogno. Era qualcosa di sgradevole, ma indefinito. Più che sgradevole, terrificante. Qualcuno aveva lanciato degli urli contro di lui. Urli.
Ricadde all’indietro con un grugnito. Le deboli speranze della sera prima morirono in lui. Era stato lui a gridare e il rumore proveniva dall’occupante della camera accanto. Che cosa aveva detto? E che cosa aveva sentito, l’altro?
Non riuscì più a dormire. Da qualche parte sotto di lui sentì un orologio battere le ore: rivoltandosi nel letto, si chiese quante gliene restavano, ormai.
La notte finì, e lui scese per la colazione. Era molto presto e solo due altri tavoli erano occupati, da uno dei quali, tra un boccone e l’altro, un signore anziano dall’aria cordiale lo fissava con curiosità. Quando i loro sguardi si incrociarono, l’uomo gli parlò.
— Sta meglio? — chiese.
Keller cercò di costringere le labbra a un sorriso.
— Ho resistito finché ho potuto — continuò l’altro — poi ho bussato. Ho pensato che lei avesse una specie di delirio. Ripeteva sempre le stesse parole, sempre le stesse: “beffa” e “mortale”, “beffa” e “mortale”. Le avrà ripetute un centinaio di volte.
Keller finì il caffè, accese una sigaretta e andò a sedersi nella sala. Aveva tentato di evadere e gli era andata male. Diede un’occhiata all’orario dei treni e chiese il conto.
Era di nuovo nella casa silenziosa, sulla quale, nella luce della tarda serata estiva, sembrava essere scesa una grande tranquillità. L’atmosfera d’orrore era svanita, lasciando dietro di sé solo un senso di pace. La paura l’aveva lasciato, e con essa erano spariti il dolore e il rimorso. Sereno e tranquillo, andò nella stanza fatale e, aprendo la finestra, vi sedette accanto, pensando a quella successione di oscuri episodi che era stata la sua vita. Alcuni erano stati buoni, altri cattivi, ma per la maggior parte non erano stati né una cosa né l’altra. Una vita banale, finché il destino non l’aveva definitivamente legata a quella di Martie. Era un uomo vivo legato a un cadavere con dei legami che non avrebbe mai potuto recidere.
Si faceva buio. Accese il gas e prese un volume di versi dallo scaffale. Non aveva mai letto niente, prima, con tanto piacere e capacità di comprensione. In qualche strano modo, sembrava che i suoi sensi si fossero affinati.
Lesse per un’ora. Poi rimise il libro al suo posto e salì lentamente al piano di sopra. Giacque a lungo nel letto, pensando e cercando di capire il motivo della calma e dell’indifferenza che l’avevano preso. Poi, senza aver risolto il problema, si addormentò.
Per un po’ sognò, ma sognò cose belle e piacevoli. Gli sembrava di essere colmo di una gioia che non aveva mai provato prima, una gioia che non lasciò nemmeno quando quei sogni piacevoli svanirono ed egli si trovò nuovamente alle prese con il vecchio.
Questa volta, comunque, era diverso. Stava ancora scavando, ma non era in uno stato d’angoscia o di orrore. Scavava perché qualcosa gli diceva che era suo dovere scavare, e solo scavando poteva fare ammenda. E non si sorprese del fatto che Martie era ritto accanto a lui. Non il Martie che aveva conosciuto, non un Martie coperto di sangue, ma un Martie dall’aspetto grave e nobile. E nel suo sguardo c’era una comprensione che quasi lo faceva piangere.
Continuò a scavare, con un sentimento di amicizia che non aveva mai conosciuto prima. Poi, all’improvviso, senza preavviso, il sole sbucò dalle tenebre e gli illuminò il viso. La luce era insopportabile: con un grido egli lasciò cadere la vanga e si coprì gli occhi con le mani. La luce si spense e una voce gli parlò dalle tenebre.
— Spero di non averla spaventata, signore — disse la voce. — L’ho chiamata una volta o due: poi ho capito che lo faceva nel sonno.
— Nel sonno — ripeté Keller. — Sì.
— E ha fatto un bel disastro — disse il poliziotto, con una risatina di simpatia. — Santa Cielo! E pensare che ci lavorava tanto di giorno e poi rovinava tutto ogni notte. Ho gridato, ma non si è svegliato.
Diresse la luce della torcia che aveva abbagliato Keller e ispezionò le rovine. Keller restò fermo, in attesa.
— Sembra un terremoto — mormorò il poliziotto. Fece una pausa e diresse la luce verso un punto. Poi si chinò in avanti, allontanò la terra con le dita e tolse qualcosa. Improvvisamente si rialzò e spense la luce. Parlò con voce fredda e ufficiale.
— Verrà con me senza storie? — chiese.
Keller si mosse verso di lui con le mani protese. — Verrò senza storie — rispose a bassa voce. — Grazie a Dio!


 

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