Il dottor Milo Cade non aveva mai voluto divorziare da Millicent, e non perché lei
l’avesse mantenuto agli studi, e nemmeno perché avesse potuto fondare la Clinica
CadeGrabow solo grazie alla posizione della famiglia di lei, e neanche perché fosse
la madre dei suoi figli.
Era troppo prudente, in senso finanziario, e questa era una delle ragioni per cui
non avrebbe mai divorziato: ne sarebbero seguite spartizioni di proprietà, pagamenti,
parcelle agli avvocati. Aveva ugualmente le sue avventurette occasionali, discrete ed
economiche, che non lo responsabilizzavano. Più soldi faceva, e ne faceva tanti,
meno gli piaceva spendere.
E poi, fino dai primi anni appassionati del loro matrimonio e del suo successo, si
erano andati allontanando sempre più uno dall’altra, e più diventavano estranei, più
aveva bisogno di lei.
Aveva bisogno di lei, come certi uomini hanno bisogno di un pallone da prendere
a calci, o come certe donne di un puntaspilli psicologico. Una volta se n’era venuta
nel suo studio, passando davanti alla gente triste ed ansiosa che aspettava, speranzosa
ed impaurita, piena di disperazione e di dolore, con gli occhi stupidamente fissi alle
stampe di cattivo gusto appese alle pareti, o sfogliando senza vederle le pagine di
riviste monotone e noiose, tutta gente che aspettava pazientemente (ecco perché si
chiamano pazienti!), e l’aveva trovato che giocava a ramino con il rappresentante di
una casa farmaceutica. Più tardi, a casa, l’aveva rimproverato per questo, e lui, con
brutalità, le aveva detto di tenere il suo dannato naso fuori dai suoi affari. Un medico,
e specialmente un chirurgo affermato, deve far riconoscere la sua autorità, la sua
supremazia: non c’è posto per stupide debolezze nell’immagine che dà al mondo di
sé.
— Lascia che aspettino! Gli fa bene — le disse. — È come addestrare i cani. Se li
batti si metteranno su due zampe a guaire per te. Carezza le loro testoline e ti morsicheranno
una gamba. Non ho avuto alcuna denuncia per negligenza, io, no?
Ed era vero: non ne aveva mai avute. Un po’ alla volta lei comprese chi avesse
sposato: non un uomo con una vocazione, ma un eccellente tecnico, un meccanico
specializzato senza amore per le macchine su cui lavorava.
I bambini crebbero. Andarono all’università, poi si sposarono, ma anche allora lei
non fu capace di lasciarlo. Si dedicò a diverse cause: salvare questo, salvare quello,
salvare balene e testuggini e inutili uccelli. Queste cose lo mandavano su tutte le furie
e derideva in pubblico gli interessi di lei, mentre in privato le teneva lezioni sulla
sopravvivenza del più forte. Lei allora tentò con la religione, col risultato di renderlo
ancor più furioso, suscitandogli un disprezzo freddo e feroce, che non riusciva a
combattere: era sempre stata una donna tenera, dolce, devota e remissiva.
la verità, nemmeno allora lui si addolcì. Una volta la sorprese a leggere un tascabile
della dottoressa Elisabeth KüblerRoss, che parlava di persone, clinicamente morte,
che erano rivissute per raccontare, una dopo l’altra, della separazione dal corpo, di
essere state consce di ciò che accadesse attorno ai loro letti di morte od in sala
operatoria, dell’estremo saluto di parenti ed amici. La guardò dall’alto in basso, gli
occhi spietati sotto le spaventose sopracciglia. Senza una parola le prese il libro e lo
strappò in due.
— Cretina! — le disse. — Ne ho visti morire a mucchi. So benissimo cosa
succeda quando il motore si ferma. Perché ti vuoi ingannare?
Senza lamentarsi, lei affrontò l’inutile trafila di operazioni e terapie dolorose, ed
ogni volta che doveva aspettare per un’ora o due che qualche collega di suo marito la
visitasse, guardava gli esseri umani che aveva attorno e pensava a lui. Poi, quando
ormai era ridotta all’ombra di se stessa, lesse un articolo sulle tecniche criogeniche, e
glielo fece vedere.
— Sarebbe come... come nascere di nuovo — gli bisbigliò titubante.
— Be’ — grugni lui — una cosa già più sensata, anche se non di molto. — Ma le
promise che avrebbe fatto tutti i passi necessari: sarebbe stata ibernata nel momento
esatto della sua morte, e l’avrebbero risvegliata, resuscitata, cinquanta, settanta, cento
anni dopo, quando si fosse trovata una cura per il suo male. Così lei morì, in silenzio
e senza un lamento, credendogli.
Ma la criogenica era costosa, e lui non ne aveva fiducia, per cui non ne fece nulla.
Tornando a casa dal funerale, calcolava l’ammontare dell’assicurazione di lei, o preparava
piani per il proprio futuro.
Tre mesi più tardi, dopo una vacanza di sei settimane in Messico ed in Guatemala
con una paziente il cui marito era opportunamente impegnato in lunghi viaggi di
lavoro in Europa ed in Estremo Oriente, riprese il tran tran della sua professione. E di
li a tre giorni, dopo un’operazione insolitamente lunga e difficile su un soggetto
peraltro già condannato, crollò di colpo in ascensore. Non perse coscienza, semplicemente
le gambe non lo ressero più. Poi ogni nervo si irrigidì; sudava, a goccioloni.
Era scosso da brividi improvvisi. Quando l’ascensore si fermò e fu portata una lettiga,
aveva le mascelle così serrate che a fatica riuscì a rispondere alle domande del suo
assistente.
Lo misero nella più bella camera della clinica, quella che le infermiere chiamavano
l’Appartamento Presidenziale. Per la prima volta si sentì privato del suo potere:
tentava di dare ordini, ma Alex Grabow restava al suo capezzale, col giovane Vagnes,
che era stato appena assunto. Gli presero la temperatura: 41° e 3. Non volevano che
lo sapesse, ma naturalmente lui l’aveva già letta. Passò la notte: esami su esami,
brividi, febbri spaventose, sudori, incubi. I sonniferi non erano di alcun aiuto.
Il giorno successivo arrivarono gli specialisti locali, come Goldman, Aberswith,
l’epidemiologo, che detestava, e Kuroda, con le sue strane idee sull’ereditarietà ed il
DNA. Vennero, fecero domande su domande e se ne andarono scuotendo la testa. Il
giorno dopo cominciarono a venire da fuori: dall’Istituto Nazionale della Sanità, da
istituti di medicina tropicale di Dio sa dove... Fondazioni di ricerca che nessuno
aveva mai sentito nominare... Anche loro facevano domande. Dov’era stato? In Messico.
In Guatemala. Dove in Messico? Yucatan. Nella giungla? Certo, nella giungla,
che cavolo vuol dire? Ed in Guatemala? Sempre lo stesso: giungla, rovine. Era stato
punto da qualcosa? Certo. Zanzare, bestiacce, anche qualcosa che non era riuscito ad
identificare, e che lasciava due segni invece di uno.
Anche loro se ne andarono scuotendo la testa. Passarono giorni e notti. La febbre
saliva vertiginosamente e calava di colpo. Era preso da spasmi nervosi e da irrigidimenti
improvvisi, che gli davano la nausea. Gli impedivano di dormire, lasciandolo in
preda alle convulsioni per un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora, e sparivano per ritornare
poco dopo. In undici giorni perse quasi quaranta chili.
Siccome insisteva, gli mostrarono la sua cartella clinica. Era priva di senso. Non
era stata tentata alcuna diagnosi. L’aveva colpito un male sconosciuto, e non si riusciva
a scoprirlo. I mezzi per tenerlo in vita non riuscirono a rallentare il suo inarrestabile
logoramento. Giaceva nel suo letto, lottando in silenzio, e pensava ai progetti
che aveva fatto, a cosa ne sarebbe stato di tutto ciò che aveva accumulato. Decise che
non l’avrebbe abbandonato facilmente.
Fece venire il suo legale. Fra spasmi terribili riuscì a dettare le sue volontà. Ai
figli lasciò quanto bastasse ad assicurarlo che non avrebbero impugnato il testamento.
Dispose che la sua partecipazione nella clinica fosse messa in vendita, con
un’opzione per Grabow, e stabilì un prezzo elevato, però equo, in modo da essere
sicuro che la vendita si effettuasse. Dopodiché istituì un’amministrazione fiduciaria
perpetua dei suoi beni e prese accordi per farsi ibernare, quegli accordi che aveva
negato a Millicent.
Se avesse funzionato sarebbe proprio stato come nascere di nuovo. Sogghignò fra
sé e sé: criogenesi? Perché no?
Due giorni dopo li fece venire e, con Grabow al suo fianco, staccò con le sue mani
tutti gli apparecchi che lo mantenevano in vita. Grabow non cercò di interferire, ed il
dottor Cade, morendo, si chiese se era per gentilezza, per cortesia professionale o per
avidità.
Si ricordava di essere morto, dell’estremo dolore, del momento esatto. Ora il suo
primo pensiero era rivolto al tempo. Quanto ne era passato? Quanti anni, quanti
decenni, quanti secoli? Era sveglio. Riusciva a vedere. Gli pareva di galleggiare sopra
un corpo a cui della gente stesse facendo delle cose.
Gli sembrava che il tempo non fosse passato affatto. Poi si ricordò che lì non poteva
esserci tempo, né coscienza del tempo, nel nulla senza tempo della morte. Quella
gente, lì, gli era sconosciuta, ma non era quello che si aspettava? La sua attenzione si
spostò, e di colpo si trovò all’aperto, in piedi.
Adesso era sicuro di sognare. Mi stanno scongelando, pensava. Dev’essere
quando ci tirano fuori dalle camere criogeniche, quando ritorna il calore, quando
siamo riportati in vita... dev’essere così!
Sentì un senso di trionfo gonfiarsi dentro di sé. Lui, Milo Cade, aveva imbrogliato
la morte.
Si trovava ancora in un sogno, chiaro e vivido. C’era un sentiero di ghiaia davanti
a lui, e ci camminava sopra. Si accorse che ai lati c’erano diverse persone, che gironzolavano
o sedevano sull’erba, in silenzio. Gli parve di riconoscere un volto o due: il
vecchio Henderson, che era morto improvvisamente poco dopo Millicent, ed un altro,
poi ancora un altro. Per un istante la cosa lo preoccupò, poi gli venne in mente che ci
si sogna spesso dei morti come dei vivi.
Allora, verso di lui, tra le aiuole di fiori, venne una donna. Era alta, coi capelli
grigi, vestita in bianco e celeste, ed era bella, con un volto dolce, triste, infinitamente
compassionevole. Accanto a lei c’era un uomo più giovane, alto e robusto.
— Sei qui, Mio Cade — gli disse con voce bassa e soave. — Sei qui, e lui ti vedrà
subito.
Che razza di sogno è questo? si chiese il dottor Cade, ma si lasciò prendere gentilmente
il braccio da lei.
Fu allora che si accorse che davanti a loro ci fosse un edificio, grande e lucente.
Basso ed aggraziato, seguiva il dolce profilo del terreno. Entrarono per un alto portale
aperto, camminando lentamente in un salone con il soffitto a volta.
— Chi mi deve vedere? — chiese alla donna.
Lei sorrise. — Lo chiamiamo dottor Charon — rispose.
Camminavano senza rumore, incontrando persone che li salutavano con un cenno
della testa, sorridendo. Attraversarono un enorme salone, pieno di sedie, poltrone e
tavolini su cui erano ammucchiati libri e riviste. C’era poca gente, qui, e a malapena
lo degnarono di un’occhiata. Lui sogghignò. Apparentemente la cortesia professionale
si estendeva anche ai suoi sogni; sicché il tipo l’avrebbe visitato subito. E la
donna, non aveva detto che fosse un medico? E quanto ci avrebbero messo a
scongelarlo ed a riportarlo in vita? Davanti a loro c’era una porta aperta. Entrarono.
C’era un uomo, seduto in una grande poltrona, vestito di bianco, con un tavolino a
fianco. Era impressionante, alto e diritto e vigoroso, ed i suoi occhi scrutavano dritti
dentro Milo Cade. E il dottor Cade rabbrividì, sapendo che non avrebbe potuto
nascondere nulla a quegli occhi, nulla, nulla, nulla.
— Sei qui, Milo Cade — disse, e la sua voce riempì la sala. — Sei qui, dove vengono
tutti gli uomini. Ma tu ci sei arrivato in modo diverso dagli altri.
Il dottor Cade si strinse nelle spalle: certi sogni erano proprio curiosi. Si chiedeva
ancora quanto tempo fosse passato da che era morto.
Imponente, l’uomo gli sorrise. — Tu credi che questo sia un sogno, vero? —
C’era una punta di pietà nella sua voce. — Ma non è così. Sono passati solo pochi
minuti da che sei morto. Non li hai visti che lavoravano intorno al tuo corpo, prima
che ti portassimo qui? Proprio in questo momento lo stanno preparando per congelarlo.
Lascia che ti spieghi. Molti di quelli che muoiono sono contenti di spezzare il
filo che li unisce ai loro corpi. Vengono qui, e noi li prepariamo a continuare, ad
imparare, a trasformarsi, ed a vivere di nuovo. Ma tu hai preferito non rompere quel
filo.
Il dottor Cade ascoltava. Stava cominciando a spaventarsi. Tentò di svegliarsi, come
si fa durante un incubo. Ma senza riuscirci. Ed all’improvviso ebbe la certezza, la
terribile certezza, che non si trattasse di un sogno.
— S... senta — balbettò — la... la signora, qui, ha detto che siate una specie di
medico...
— Lo sono stato — disse lui.
— Ecco. Allora, per l’amor del Cielo, volete dirmi cosa succede? Non mi stanno
scongelando? Non ditemi che non avete trovato una cura.
L’uomo sospirò. — Milo Cade, non ti stanno scongelando. Stanno congelando il
tuo corpo adesso, proprio come hai voluto tu. Ma tu sei ancora legato al tuo corpo. A
meno che non venga distrutto, vi sarai legato fino a che non sarà scongelato e rianimato,
allora tornerai a lui. Riguardo a ciò c’è proprio niente che possiamo fare, né tu
né io. La malattia di cui sei morto è particolarmente rara. Non sarà isolata ancora
per... — diede un’occhiata alle carte che aveva sul tavolo — ... per centosettantaquattro
anni. E la cura sarà trovata trentadue anni dopo.
Fissò il dottor Cade, calmo, pietoso. Fece un cenno alla donna.
— Infermiera, — disse, — accompagnate il dottor Cade in sala d’aspetto.
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