mercoledì 6 marzo 2024

Mauro Riccardo Mendolia: L'ospite inatteso, 1984


«E soprattutto, non aprire a nessuno!»
Era il suo modo di concludere il rito del saluto. Lo diceva sempre, dopo averla sfiorata con un bacio, tenendo la mano appoggiata sulla maniglia della sfavillante Maserati. L’ingegner Michele Landi era il tipico rappresentante di una certa fauna. Un uomo fattosi da sé, abile negli affari, spietato con i concorrenti, un’autentica volpe nel fiutare i colpi più vantaggiosi del mercato. Nel secondo dopoguerra, partito da un piccolo laboratorio, si era trovato in pochi anni a capo di un’azienda d’importanza nazionale nel campo dell’elettronica. Si tolse il soprabito di un caldo color marrone e si accomodò nell’accogliente abitacolo.
Laura Landi si strinse nel golf azzurro, ma non perché facesse particolarmente freddo. C’era più che altro un’umidità fastidiosa che saliva dal vicino fiume. Il cielo di novembre era di un grigio cupo che induceva a meditazioni tristi.
«Ciao» disse facendogli un cenno frettoloso di saluto con la mano. Anche quello rientrava nel copione di sempre.
La ghiaia del giardino sfrigolò sotto le ruote e la grossa auto si avviò con un ruggito sommesso. Fu lo stesso ingegner Landi ad azionare direttamente dall’interno della Maserati il comando elettronico. Il pesante cancello si aprì con un sospiro, per poi richiudersi subito dopo che fu uscito.
Laura Landi osservò l’auto correre veloce lungo il filare di pioppi, per poi sparire alla sua vista nella luce soffusa del crepuscolo. Di nuovo quel brivido strano e indecifrabile lungo la schiena, una sensazione di disagio fondamentalmente immotivata. Non era la prima volta che restava sola durante il week-end. Ormai doveva essere vaccinata contro la solitudine della campagna, anche se il villino più vicino distava almeno cinque chilometri. Una distanza irrisoria nella bella stagione, ma lunghissima durante il periodo invernale. Dobs, il grosso pastore tedesco, la seguiva a pochi passi, attento sorvegliante della sua incolumità. Lei gli allungò un paio di carezze, tanto per fargli capire che gradiva la sua presenza.
La villetta ad un piano era una solida costruzione in cemento armato, difesa da segnali di allarme alle finestre del piano terreno che sopperivano in parte ad un muro di cinta non certo irresistibile.
Si chiuse in casa a doppia mandata, soffermandosi poi davanti allo specchio ovale dell’ingresso per un severo esame. Cominciava ad invecchiare, lentamente ma inesorabilmente. Ormai aveva passato da un pezzo la quarantina e provava una certa invidia per le segretarie di suo marito. Non escludeva aprioristicamente che Michele si concedesse divagazioni extraconiugali. Non aveva mai affrontato l’argomento, ma non se ne sarebbe meravigliata. Le occasioni e le conoscenze non gli mancavano di certo; inoltre due fine settimana al mese li trascorreva in giro per l’Italia.
«Al diavolo tutti i pensieri tristi!» esclamò a voce alta. Accese la televisione e si servì un’abbondante dose di cognac. Non che ne fosse una bevitrice accanita, ma voleva tirarsi un po’ su il morale.
Come aveva previsto, con il buio arrivò anche la nebbia. Era una massa biancastra che avvolgeva ogni cosa, inghiottendola e alterandone i contorni. Laura Landi la osservò avanzare ad ondate dal fiume: il cancello era già quasi invisibile. Entro un’ora avrebbe coperto tutta la casa.
Non aveva un grande appetito. Si preparò un paio di panini, che consumò con un bicchiere di latte stando accovacciata sul divano davanti alla televisione. Dobs si era sdraiato ai suoi piedi. Sonnecchiava, ma avrebbe percepito la minima minaccia alla sua incolumità.
Laura Landi evitò programmi impegnati e si sintonizzò su un canale dove trasmettevano una commedia brillante. Aveva solo voglia di distrarsi e non pensare.
Accadde poco dopo le undici. Aveva appena spento la televisione e si preparava ad andare a dormire. Invece di lasciare Dobs in cucina durante la notte, quando era sola preferiva farlo salire con lei in camera da letto al primo piano. Una debolezza che non avrebbe mai confessato a suo marito per tutto l’oro del mondo.
Chi diavolo poteva essere in una serata come quella? Diede un’occhiata dalla finestra, ma la nebbia era così fitta che non ci si vedeva che a pochi passi.
Di nuovo il citofono: questa volta il suono fu più prolungato.
Respirò a fondo e si decise a rispondere. Se qualcuno era venuto con cattive intenzioni non si sarebbe certamente fatto annunciare.
Anche Dobs era agitato. Continuava ad andare avanti e indietro verso la porta. Stranamente non abbaiava, sembrava anche lui indeciso su quale decisione prendere.
«Buono, bello… buono» lei accarezzò il corpo snello e muscoloso dell’animale, provando una sensazione di fiducia.
«Chi è?» domandò all’apparecchio, sforzandosi di mostrarsi spavalda.
Prima ci fu un sospiro rauco, poi una voce affaticata ma giovanile:
«Mi scusi… ho bisogno di aiuto.»
«Sta scherzando! Non crederà che apra a uno sconosciuto in piena notte!»
«La prego, signora» la voce si era fatta supplichevole «credo di avere una caviglia rotta… sono uscito di strada con la macchina…».
Laura Landi si sorprese quasi a sorridere. Come poteva pensare che avrebbe creduto ad una storia del genere?
«Mi stia bene a sentire» cercò di metterci il massimo della decisione. «Ho un cane da guardia e sono armata» l’ultima cosa non era vera, ma il bluff era credibile. «E ho anche sonno. Quindi buonanotte!»
Abbassò il ricevitore con un colpo secco e tornò in salotto.
Non era trascorso un minuto che il lamento del citofono la fece sobbalzare di nuovo.
«Ancora lei! Se non la smette chiamo la polizia!»
«La prego… sono finito con la macchina nel canale e sono bagnato fradicio…»
«Perché non ne inventa una migliore? Se non se ne va chiamo la Polizia…»
Ci fu qualche istante di silenzio, come se l’uomo stesse raccogliendo le forze. «Non servirà a nulla. Nemmeno loro possono viaggiare con questa nebbia.»
Anche quello era vero. E Laura Landi era restìa a prendere una decisione.
Dobs aveva smesso di agitarsi e la osservava con uno sguardo interrogativo.
«Signora… è ancora lì?»
Lei continuava a sentire la voce del marito: “E soprattutto non aprire a nessuno!”.
Che doveva fare? E se qualcuno fosse stato davvero in quelle condizioni?
Con gli abiti bagnati avrebbe preso una polmonite.
Riabbassò nuovamente il citofono, che riprese subito a suonare.
«Le ho detto che non aprirò. Può lamentarsi come vuole ma…»
«Deve fidarsi!»
«Posso solo telefonare ad un vicino.»
«Allora faccia almeno questo!»
«Non verrà nessuno con questa nebbia! Lo ha detto lei, no?»
«Provi, almeno… per favore.»
Laura Landi raggiunse il telefono quasi con sollievo. Forse così avrebbe trovato una soluzione al problema. Ma il suo sorriso si spense nel sollevare la cornetta: il telefono era completamente isolato.
La sensazione di disagio si era trasformata in un brivido che le artigliava la spina dorsale.
“Calmati Laura!” cercò d’imporre ai suoi nervi “Calmati!” Tornò al citofono.
«Mi dispiace, ma ho il telefono isolato» poi, sforzandosi di mostrarsi cinica «dovrà andarci a piedi.»
«Mio Dio… quanto sono distanti?»
«Cinque chilometri. Basta seguire la strada.»
«Deve aiutarmi» la voce si era fatta supplichevole «non posso camminare.»
«Sono spiacente». Laura Landi sentiva una parte di lei che stava cedendo alle preghiere dello sconosciuto. «Come ha fatto a vedere la casa nella nebbia?»
«Non l’ho vista. Ho sbattuto la faccia contro il cancello.»
«Allora faccia finta di non averci sbattuto. Non so nemmeno perché sto qui ad ascoltarla. Buonanotte!»
Staccò il citofono. Dobs continuava ad osservarla, come se avesse capito quello che si erano detti.
Il suo cervello cercava di essere nuovamente freddo e razionale. Perché uno sconosciuto avrebbe dovuto farle del male? D’accordo, con tutto quello che si leggeva sui giornali…
Alla fine prese la decisione che non si sarebbe mai aspettata di prendere. Indossò un impermeabile e prese una grossa torcia elettrica, pur sapendo che nella nebbia le sarebbe servita a ben poco.
Poi aprì la porta.
Fuori era ancora peggio di quanto si aspettava. La visibilità era ridotta a mezzo metro e solo seguendo la ghiaia del vialetto capiva di andare nella direzione giusta.
Dobs era eccitato come se quell’uscita fosse per lui un piacevole diversivo. Con il muso puntato verso terra, tirava il guinzaglio in direzione del cancello.
Laura Landi si voltò istintivamente. Le luci della casa erano già scomparse: il suo sicuro rifugio era ormai lontano. Ma aveva cominciato e doveva arrivare al cancello.
L’uomo era proprio al di là delle sbarre, accovacciato su se stesso e con la schiena appoggiata alla colonna di marmo. Sembrava un burattino cui avessero tagliato i fili.
Dobs non abbaiò allo sconosciuto, ma si era messo in agitazione: cercava di fiutarlo attraverso l’inferriata.
Laura Landi tese il braccio e sentì l’umidità del vestito. L’uomo non si mosse: sembrava svenuto.
Lei parve più sollevata. Chiunque avesse avuto brutte intenzioni, non sarebbe stato così pazzo da girare con i vestiti bagnati in una notte come quella.
Il cancello si aprì silenziosamente sotto l’impulso elettronico e lo sconosciuto, non appena la torcia elettrica ne illuminò bruscamente il viso, diede segni di vita.
«Stia calmo» disse lei, fissando un volto giovane e incorniciato da una folta chioma di capelli biondi. Era poco più di un ragazzo, con gli occhi chiarissimi e alterati dal dolore.
«Qual’è la gamba che fa male?»
«La… destra.»
La caviglia era gonfia in modo impressionante.
«Non posso certo lasciarla qui fuori.»
«Ce ne ha messo a decidersi» fece lui, quasi con un’ombra di umorismo nella voce «mi ero quasi rassegnato.»
«Come si chiama?»
«Alberto.»
«Bene, Alberto. Diamoci da fare, perché comincio ad avere un po’ freddo.»
Ci impiegarono una decina di minuti. La parte più difficile fu per il ragazzo rimettersi in piedi. Poi, appoggiandosi a lei, guadagnò lentamente l’ingresso.
L’orologio a pendolo scandì l’una.
Alberto era seduto sul letto, nella camera per gli ospiti al primo piano, avvolto in un accappatoio e con una pesante coperta di lana sulle gambe.
Nella destra aveva un bicchiere di punch bollente.
Laura Landi, seduta su una poltroncina, aveva ascoltato attentamente la sua storia. Era quella di un rappresentante finito fuori del percorso abituale; ingannato dalla nebbia aveva perduto il controllo dell’auto che era andata a finire nel canale, proprio al di là dell’argine.
«Mi spiace solo di non poter telefonare a casa.»
Lei cercò di rincuorarlo. «Penseranno che nessuno si mette in viaggio con un tempo simile.»
«Anche questo è vero.»
Era poco più di un ragazzo, pensò Laura Landi. Avrebbe potuto essere suo figlio.
«Fa male la caviglia?»
«Un po’…» soffocò una smorfia di dolore «stava meglio prima.»
Era così gonfia che avevano dovuto tagliare la scarpa per liberarla. Poi l’avevano avvolta in una fasciatura rigida.
«Domattina l’accompagnerò all’ospedale: probabilmente è incrinata. Dovranno fare una doccia di gesso.»
«È dottoressa?»
«Ho fatto un paio d’anni di medicina» rispose lei prendendo due pastiglie dal cassetto del comodino. Le fece sciogliere pazientemente in un bicchiere d’acqua. «Questo la farà dormire fino a domani.»
«Preferirei non prenderlo. Non sono abituato ai sonniferi.»
«Il dolore le impedirà di riposare.»
Lui prese il bicchiere a malincuore. «Forse ha ragione.» Lei si alzò augurandogli la buonanotte.
Il salone non era particolarmente in disordine: solo i vestiti ancora umidi del ragazzo costituivano una nota stonata. Li raccolse in un angolo del bagno, poi si preparò ad andare a letto. Si sentiva stanca ma soddisfatta, con la consapevolezza di avere compiuto una buona azione.
Il suono improvviso del citofono la sorprese ancora più della prima volta.
Per qualche istante osservò l’apparecchio pensando di essersi sbagliata.
Un altro ronzìo, stavolta più insistente.
«Pronto…»
«Sto venendo da lei, signora…» la voce era un fruscio minaccioso. «Sto venendo.»
«Chi è?»
Non si sentiva più nulla, ma quella voce era bastata a farle provare un lungo brivido, come una scossa elettrica attraverso il corpo.
«Dobs! Qui subito!»
Il pastore arrivò obbediente. Anche lui sembrava di nuovo eccitato, ma non ringhiava.
Laura Landi si ricordava di avere richiuso perfettamente la porta d’ingresso, ma le grandi finestre del piano terreno la facevano sentire vulnerabilissima, come se mille occhi la spiassero.
Poi di colpo le luci si spensero, sorprendendola vicino al divano. Sentiva le gambe che le si piegavano e la paura aumentare d’intensità. Avrebbe voluto piangere, fare qualsiasi cosa…
«Dobs!» chiamò nel buio. Quasi non riconosceva la propria voce. «Qui!»
Sentì sotto le dita la testa del cane che ringhiava sommessamente con tutti i muscoli tesi, pronto a scattare alla minima minaccia.
L’oscurità non era totale: c’era una debole penombra lattiginosa che faceva intuire più che vedere le cose.
Laura Landi si rimproverò di avere dato il sonnifero al suo ospite, l’unico che forse avrebbe potuto aiutarla, pur ferito com’era.
Il fracasso della finestra che andava in frantumi fu assordante. Come investito da una furia devastatrice il vetro volò in mille pezzi.
Il cane scattò di colpo verso quella manifestazione di violenza lasciando la donna sola.
«Dobs, no!» gridò lei. O forse soltanto pensò di farlo. Udì un rumore sordo, come se il corpo dell’animale fosse stato percosso. Seguirono alcuni gemiti di dolore, poi altri colpi. Infine silenzio. Un silenzio solido, totale, carico di tensione. Laura Landi sentì le lacrime scendergli sul viso. Non osava nemmeno respirare, per timore di fare rumore. Deglutì un paio di volte, poi abbassò il braccio e urtò il vaso. Nel silenzio l’infrangersi del cristallo fu più assordante di uno sparo.
Lei cominciò a piangere senza riuscire a smettere. Era pervasa da un misto di rabbia e paura. O forse era la consapevolezza di non avere scampo.
Proprio in quel momento due mani d’acciaio l’afferrarono per il collo, rovesciandoglielo violentemente all’indietro. Le dita le artigliavano la gola e lei non riusciva proprio ad allentare quella presa mortale.
Perdeva conoscenza a grande velocità; la testa ronzava come un alveare: era piena di terrore e confusione.
Poi, del tutto inaspettatamente, la stretta si allentò e Laura Landi cadde all’indietro. Per un po’ fu troppo occupata ad inghiottire golosamente l’aria per rendersi conto della lotta che si svolgeva nella semioscurità.
Sentiva sedie che si rovesciavano, rumore di soprammobili rotti… paradossalmente le importava soltanto di respirare. Era la cosa più bella del mondo.
Solo quando i rumori cessarono, si rese conto che il vincitore dell’incontro poteva essere stato anche il suo aggressore. Non si mosse.
Sentì qualcuno trascinarsi pesantemente attraverso la stanza e arrivare tentoni vicino a lei. Seguì lo sfrigolìo di un fiammifero e gli occhi chiari di Alberto che la osservavano.
«Come si sente?»
Lei fece un sorriso. Deglutire le faceva un male d’inferno. Ma non aveva preso il sonnifero?
«Non mi sono mai piaciute quelle medicine». Aveva una grossa ecchimosi sullo zigomo e si teneva in piedi appoggiandosi alla poltrona.
«E poi è stato meglio così. Dove trovo qualche candela?»
«Non… non ci sarà ancora pericolo?»
«Non si preoccupi: ne avrà almeno per un’ora.»
«Ma come ha fatto a scendere le scale?»
Lui allargò le braccia. «A dire la verità mi sono lasciato cadere. Con tutto quel rumore non poteva certo sentirmi. E poi ci ho messo qualche minuto a rendermi conto di quello che succedeva.»
Poco dopo il salone era illuminato dalla luce soffusa delle candele.
Quando Laura Landi si alzò da terra per aiutare il suo ospite a legare l’intruso, per poco non svenne dallo stupore.
«Che le prende?» domandò Alberto.
«È… è mio marito.»
Il mattino seguente, l’ingegner Michele Landi fu consegnato alla Polizia.
Solo dopo un interrogatorio di un giorno intero confessò che aveva deciso di liberarsi della moglie per sposare una delle sue efficienti e affascinanti segretarie. Si era fermato con la macchina ad un chilometro dalla villa e aveva atteso diverse ore. Ancora prima di partire aveva sabotato la linea telefonica, poi aveva staccato dall’esterno la corrente elettrica. L’unica cosa che non aveva proprio previsto era un ospite in casa sua. Un ospite del tutto inatteso.

Premio Gran Giallo Città di Cattolica 1984

 

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