martedì 30 settembre 2025

Laszlo Lakatos - Lo schiaffo, 1953






 

MONDADORI n.56 - Earl Derr Biggers: Sangue sul grattacielo


In una cena organizzata da Sir Frederick Bruce (ex-direttore del Dipartimento investigazioni criminali di Scotland Yard), vengono invitati il Colonnello John Beetham (noto esploratore), June Morrow (assistente del procuratore distrettuale), Barry Kirk (miliardario), Bill Rankin (giornalista) e il Sergente Charlie Chan. Durante la cena, viene ricordato il vecchio caso della scomparsa di Eve Durand in India. IL caso risale a quindici anni prima e Sir Frederick Bruce confida a Chan di essere a un passo dalla soluzione. Alla fine della cena il Colonnello John Beetham, mostra alcune diapositive del suo ultimo viaggio. Verso la fine della presentazione, viene trovato morto Sir Frederick Bruce nel suo ufficio. Le indagini iniziano e ben presto Chan e June comprendono che per risolvere il caso, dovranno comprendere la scomparsa di Eve Durand. Dopo svariate ricerche si scopre che Eve Durand era effettivamente stata rintracciata da Bruce a San Francisco e l'assassino di Bruce altri non è che Eric Durand, il marito di Eve. Quindici anni prima Eve ed Eric si erano spostati ed essendo Eric un militare, la coppia dovette trasferirsi in India. Eve scoprì che il marito era implicato in un omicidio e confidatasi con Beetham venne aiutata da quest'ultimo a fuggire dall'India. A Bruce andò il caso della scomparsa di Eve, caso che intendeva risolvere a tutti i costi. Eric resosi conto del pericolo rappresentato dal ritrovamento della moglie, decise di rubare la documentazione a casa di Bruce, ma venendone sorpreso, lo assassinò.
 

lunedì 29 settembre 2025

Randye Lordon: Ardere d’odio



Una grigia mattina, svegliandosi, Mitchell Smith decise che era tempo di agire. Si guardava attorno nella misera cameretta e pensava alla sua casa, su nel nord. Dal letto nel quale si era abituato a svegliarsi per ben quindici anni, a quest’ora avrebbe potuto contemplare le foglie della quercia che, al di là della finestra, sembrava stormire per dargli il buongiorno. Invece, si ritrovava a osservare, sulla parete di fronte, il percorso privo di direzione di un insetto.
Cominciò a programmare la giornata. Era sabato. Lei sarebbe stata al lavoro.
Gettate in là le coperte, si sottrasse al calduccio del letto e, a piedi nudi, andò nel bagno. Sorrise alla propria immagine nello specchio e si passò le dita tra i capelli pepe-e-sale. Fece la doccia, la barba, poi si ammirò ancora una volta prima di uscire e affrontare la città che detestava.
Nell’aria c’era il primo freddo dell’autunno. Svoltò nella Broadway. Nel caffè greco stagnava un odore di pancetta e di ammoniaca. Finì la sua terza tazza di caffè, diede una mancia molto generosa al cameriere dall’espressione arcigna e pagò alla cassa.
Durante l’ora e quaranta minuti che occorrevano per percorrere in macchina il familiare tratto di strada tra la città e la sua casa, fischiettò allegramente, rifiutando di permettere a se stesso di pensare. Quante volte aveva detto a lei, lungo quello stesso percorso: «La strada è troppo bella per ingombrarla di pensieri». Svoltò nel lungo viale d’accesso privato e per gli ultimi quattrocento metri guidò in silenzio.
La ghiaia scricchiolava sotto le sue suole di gomma, mentre si avviava a piedi verso la casa. Si fermò a inebriarsi della vista della facciata. La casa aveva cento anni, e lui ne aveva trenta quando l’aveva vista per la prima volta. Lei aveva riso, quando le aveva confidato il suo sogno di comperare «il vecchio rudere sulla collina», come diceva la gente del luogo, ma alla fine si era dichiarata d’accordo. I

sabato 27 settembre 2025

Nick Raider



Nick Raider è un personaggio dei fumetti creato da Claudio Nizzi, protagonista della omonima serie a fumetti poliziesca italiana. Pubblicata dal 1988 al 2005 per 200 numeri dalla Sergio Bonelli Editore che, per la prima volta, pubblica una serie gialla. Nel 2021 il personaggio fa il suo ritorno in una miniserie composta da dieci albi.

Nick Raider è un investigatore della squadra omicidi di New York che, affiancato dal compagno Marvin Brown, investiga sui crimini di sangue commessi nella "grande mela". Il suo mentore, nonché capo diretto, è il tenente Arthur Rayan, il quale cerca senza troppo successo di controllare gli slanci del detective e soprattutto lo difende spesso dalla burocrazia e dall'ostracismo del suo capo, il capitano Vance, che Nick chiama "Ciaocara" per via del suo rapporto succube con la moglie. Non ci sono antagonisti ricorrenti se non la malavita newyorkese rappresentata dall'obesa capomafia Louise Clementi e l'organizzazione criminale nota come Croce Nera che si occupa di prestare assistenza a delinquenti evasi.

Il protagonista è un detective della polizia di New York di origini italiane. Il suo cognome originale è Raidero; i nonni arrivarono in America nel 1928 da un paese dell'appennino toscano e il loro cognome venne cambiato in Raider per errore dell'ufficio immigrazione. Da bambino Nick aveva un'immagine buona e affettuosa di suo padre John, anch'egli poliziotto, fino a quando non si sarebbe incrinata nell'adolescenza quando i rapporti con lui avrebbero assunto una piega conflittuale per colpa della crisi matrimoniale e delle condizioni di salute della madre delle quali il padre viene ritenuto responsabile da Nick. Al termine di un ennesimo litigio e persa ogni fiducia nel padre il giovane Nick decide di andarsene e ritornando a casa solo dopo la morte del padre. La madre è ora in cura in una clinica per malati mentali e alla luce delle esperienze successive Nick comprende meglio la figura paterna recuperando l'antico affetto per lui e decidendo di entrare in polizia per pagare un tributo alla sua memoria.

Oltre al padre, Nick avrà come punto di riferimento il tenente Rayan, vecchio amico di famiglia. Durante la guerra del Vietnam si arruola nella polizia militare. Tornato in patria Nick incomincia la sua carriera come agente di pattuglia nel Bronx sotto l'occhio vigile di un altro mentore, Abraham Reginald King detto Blackbear.


 

venerdì 26 settembre 2025

Rabbino Abie Ingber: Il Natale salvò la vita a mia madre



Qualunque studente del ventesimo secolo potrebbe affermare che l’Olocausto fu uno dei capitoli più oscuri della storia moderna. Nonostante ciò, all’interno di quell’incubo, ci furono momenti di grande umanità e di compassione estremamente confortanti.
Nell’agosto del 1942 mia madre, Fania Pastz, era una delle poche sopravvissute del ghetto di Lutsk, in Polonia. Era una ragazza giovane, di non ancora vent’anni, quando la sua vita venne salvata da virtuosi cristiani che l’uno dopo l’altro incontrò sulla sua strada. Nessuno potrebbe dire perché lei venne risparmiata mentre i suoi genitori, i suoi fratelli e gli altri membri della sua famiglia furono uccisi così brutalmente. Più di una volta dei cristiani evangelici, contadini e abitanti delle campagne, arrivarono proprio al momento giusto per nasconderla in una soffitta, in una cantina o in un pollaio.
Il miracolo di Natale di mia madre iniziò il 19 agosto del 1942, quando un contadino ucraino arrivò nel ghetto e propose un piano per nascondere in città la famiglia di mia madre. Non volendo mettere in pericolo l’intera famiglia con un piano rischioso, mia madre strappò la gialla stella di David che era obbligata a portare cucita sugli abiti, si coprì il capo con uno scialle e, lasciando i propri cari, uscì insieme al contadino per provare la via di fuga. La fortuna li accompagnò e lei riuscì a sgattaiolare fuori dal ghetto senza che né i poliziotti ucraini, stranamente presenti in grande numero, né i soldati tedeschi, raccolti ai confini del ghetto, la fermassero. Il piano prevedeva di ritornare la mattina successiva per far uscire l’intera famiglia. Tuttavia, quando mia madre l’indomani cercò di avvicinarsi al ghetto, venne fermata da un poliziotto ucraino. Credendo che fosse cristiana e non ebrea le consigliò di stare lontana da quella zona. “È circondata a causa di ragioni politiche”.
Gli ebrei avevano vissuto a Lutsk fin dal decimo secolo e la loro fortuna era cresciuta insieme a quella della città che era divenuta, a metà del sedicesimo secolo, un importante centro economico e politico. Ma la mattina del 20 agosto, il giorno in cui mia madre rimase fuori dal ghetto, venne dato un ordine che pose fine a tutto ciò in maniera definitiva. Durante i due giorni successivi, i diciassettemila ebrei del ghetto di Lutsk vennero deportati sulla collina di Polanka, ai margini della città, vennero gettati vivi in un fossato e fucilati. Nessuno degli ebrei che venne trovato nel ghetto potè sottrarsi a quella fine atroce.
La coraggiosa spedizione di mia madre fuori dal ghetto l’aveva salvata. Avendo perduto tutto e tutti, stordita per quanto era accaduto, cercò aiuto presso il contadino che l’aveva guidata e passò i due mesi seguenti nascosta nella canna fumaria del grande forno che si trovava fuori dalla casa.
Ma il 24 dicembre del 1942, la fortuna di Fania Pastz sembrò abbandonarla. Il contadino ucraino che le aveva salvato la vita cominciò a temere che se avesse continuato a darle rifugio, lui stesso si sarebbe trovato in grave pericolo e le chiese di lasciare la sua casa. Mia madre vagò per le sporche strade di campagna, tremando dal freddo nel suo abitino di cotone. La notte stava calando e lei sapeva che la sua vita era prossima alla fine. Riconoscendo la casa padronale del guardiano della contea, ne imboccò il viale d’ingresso. I cani del guardiano l’assalirono, strappandole il vestito e mordendola. Il guardiano, sentendo il latrare dei cani, arrivò impugnando il suo fucile.
“Per favore uccidimi”, implorò mia madre. “Aiutami a seguire la sorte della mia famiglia”.
“Non posso ucciderti questa notte”, rispose l’ufficiale. La fece entrare, divise con lei il cibo della cena della vigilia di Natale, le diede un nuovo abito e un posto per dormire. La mattina dopo, temendo che avrebbe potuto lui stesso essere ucciso per aver salvato un’ebrea, la portò in città e l’affidò a un’altra famiglia cristiana perché la nascondesse. Altri tre cristiani miracolosamente comparvero durante la guerra e le salvarono la vita fino al giorno in cui scese da un solaio durante la liberazione di Lutsk da parte dell’esercito russo nel 1944. Era una dei pochi ebrei ancora vivi in città.
Solo a distanza di molti anni io imparai il detto polacco che recita: “Alla vigilia di Natale anche un gatto randagio ha diritto di vivere”. Il 24 dicembre del 1942 mia madre aveva vissuto come un gatto randagio nella campagna polacca. In quel preciso momento Dio deve aver operato in modo che la vigilia di Natale le salvasse la vita. Sono orgoglioso delle mie origini ebree e del fatto di essere un rabbino, ma non scorderò mai che il Natale ha salvato la vita di mia madre. Buon Natale a tutti voi, da un rabbino pieno di gratitudine.

 

Sarti Antonio, sergente

 


Italia 1974 / Loriano Macchiavelli

Tormentato dalla colite, Antonio Sarti (meglio conosciuto come Sarti Antonio) è sergente di pubblica sicurezza a Bologna. Gira su una 850 scassatissima, gli piace fermarsi ogni tanto a bere un buon caffè e odia le armi da fuoco: il rumore degli
spari gli dà la nausea, e l'odore della polvere bruciata gli fa girare la testa.



Nelle storie di questo personaggio non mancano le critiche alla giustizia autoritaria e repressiva, rappresentata dall'ispettore capo Cesare Raimondi, e accanto al protagonista troviamo spesso uno studente universitario extraparlamentare, Rosas,
più in gamba e più furbo di lui, che quasi sempre giunge intuitivamente per primo alla soluzione, anche se poi è proprio il poliziotto che deve trovare le prove per suffragare le sue ipotesi.



Queste avventure sono gustosamente raccontate da una voce fuori campo, una sorta di alter ego del protagonista, che interviene in prima persona con commenti ironici e ammiccamenti vari al lettore. Ecco un esempio, tratto da Fiori alla memoria (1975): «Vedere Sarti Antonio, sergente, rotolare sotto il trattore mi ha fatto una certa impressione. Secondo me, avrebbe dovuto schivare la mazzata con un rapido
spostamento del corpo e quindi partire all'attacco colpendo l'avversario dal basso con un pugno sul mento. Così, dopo, avrebbe potuto sederglisi sul petto e colpirlo
al viso con la mano aperta, fino a fargli uscire il sangue dalle labbra».



Dal romanzo Passato, presente e chissà (1978) è stato tratto lo sceneggiato televisivo a puntate Sarti Antonio, brigadiere, interpretato da Flavio Bonacci. 



In un nuovo serial tv, andato in onda all'inizio del 1991, questo ruolo è stato affidato a Gianni Cavina. 



Loriano Macchiavelli ha "ucciso" il proprio personaggio nel 1987, in Stop per Sarti Antonio, pubblicato da Cappelli, affiancandogli Poli Ugo, archivista zoppo della questura di Bologna, che nelle sue intenzioni doveva prenderne il posto.

giovedì 25 settembre 2025

URANIA n.55 - Jimmy Guieu: I figli del diluvio



In questo romanzo l'autore sostiene un'ipotesi che si basa sulle teorie di scienziati e pensatori, come Arold C. Urey di Chicago e I. Velikovski: crepacci, vallate e crateri della Terra e della Luna sono stati prodotti da una vera e propria pioggia di meteoriti, probabilmente provenienti da una cometa che sfiorò la Terra nel periodo terziario, e pianeti Marte e Venere non hanno sempre occupato nel sistema solare l'orbita che oggi seguono. Tale sconvolgimento sarebbe stato causato dal passaggio di una cometa, che provocò quello che in tutte le leggende e in tutte le tradizioni religiose, gli uomini chiamano il Diluvio universale. Noi saremmo quindi, secondo l'autore, i discendenti degli uomini di Marte e di Venere che, già molto progrediti e civili nel tempo in cui la Terra non aveva ancora esseri pensanti, sarebbero scesi sul nostro pianeta, sfuggendo alla distruzione, con le loro astronavi. Ciò spiegherebbe la diversa pigmentazione delle quattro razze che popolano il mondo. Su questa affascinante teoria Jimmy Guieu ha costruito un interessante, avvincente racconto. E i nostri lettori seguiranno con curiosità e con ansia la storia delle generazioni che occuparono la Terra nei tempi lontani della preistoria, la storia, che potrebbe essere vera, dei nostri progenitori bianchi, neri, rossi e gialli.
 

mercoledì 24 settembre 2025

Stéphan Elmas

(Smirne, 24 dicembre 1862 – Ginevra, 11 agosto 1937)

 Stephan Elmas, pianista e compositore di origini armene, bambino prodigio, vive a Ginevra dal 1911 ottenendo nel 1925 la cittadinanza onoraria; i suoi nipoti Georges e Grégoire Elmas istituiscono nel 1988 la Fondazione Stephan Elmas, con sede a Courtedoux, allo scopo di conservare e promuovere la sua musica e di sostenere iniziative sanitarie a favore dei bambini armeni malati.
Stephan Elmas nasce in Turchia, a Smirne, in un’agiata famiglia di commercianti. Prestissimo mette in luce le sue innate abilità musicali; studia pianoforte con un pianista del luogo, tale Moseer, inizia a comporre piccoli pezzi per pianoforte e all’età di 13 anni si esibisce in concerto eseguendo brani di Liszt.
Contro il volere dei suoi familiari, ma incoraggiato dal suo maestro, Elmas prosegue i suoi studi in Europa; a Weimar, nel 1879, incontra Franz Liszt che lo consiglia di completare la sua formazione a Vienna sotto la guida del pianista Anton Door e del maestro di composizione Franz Kremm.
Stephan Elmas si dedica completamente al pianoforte; le sue prime opere sono pubblicate dall’editore viennese Wesler. Nel 1881 scrive Sei studi per pianoforte dedicandoli a Franz Liszt; nel 1882 dedica ad Anton Rubinstein il suo primo Concerto per pianoforte e orchestra.
Dopo un breve periodo trascorso a Smirne, nel 1887 Stephan Elmas ritorna a Vienna e fino al 1908 è impegnato in una lunga serie di concerti in tutte le grandi città europee; esegue sue composizioni oltre a brani di Beethoven, Chopin, Schumann.
Dal 1897 Elmas inizia a soffrire di ipoacusia. Nel 1911 si stabilisce definitivamente a Ginevra; continua a comporre e ad insegnare. Nell’estate del 1915 riceve le prime notizie sul genocidio del popolo armeno da parte degli ottomani turchi ed è profondamente sconvolto da questo evento; i suoi familiari, dopo il grande incendio di Smirne del 1922, si rifugiano ad Atene e successivamente lo raggiungeranno in Svizzera. Nell’ultimo periodo della sua vita, afflitto sempre più dalla sordità, Stephan Elmas si isola completamente dal mondo circostante; le sue tribolazioni e i suoi tormenti sono documentati dal ricco epistolario intrattenuto dal 1922 con il giovane giornalista Hagop-Krikor, al quale detterà la sue memorie.
Stephan Elmas lascia molte composizioni per il pianoforte; di maggior successo sono i pezzi da salotto, raffinati ed eleganti. La maggior parte della sua opera,  piuttosto che adeguarsi alle tendenze musicali della sua generazione, segue lo stile dei precedenti compositori romantici.

Quasi subito dopo le vigorose battute iniziali e una salva di ottave del solista che preparano la scena al Concerto per pianoforte n. 1 in sol minore, Elmas ci offre un secondo tema di notevole bellezza con inflessioni chopiniane, prima di lanciarsi, piuttosto alla maniera del compositore polacco, in una serie di passaggi rapidi. Questo cede il passo a un secondo tema lirico, poi a un terzo, seguito da ulteriori pagine di semicrome per pianoforte con un supporto orchestrale minimo, alla Chopin. Segue un episodio avvincente, più rubinsteiniano che chopiniano, in cui pianoforte e orchestra si animano sempre di più, conducendo a una cadenza eroica e al ritorno del tema iniziale. Segue una versione appassionata di questo in tonica maggiore con ottave tonanti sottostanti, prima che la musica si plachi ed Elmas torni a quel delizioso secondo tema. Il resto del movimento si diletta nel trattamento variegato del materiale precedente prima di giungere a una conclusione travolgente con un finale non dissimile da quello della ballata in sol minore di Chopin. Alcuni potrebbero pensare che il secondo movimento in larghetto sia il più originale dei tre. Il suo inquietante soggetto principale, una melodia serena e cantilenante, simile alle ballate da salotto dell'epoca, è in La bemolle maggiore, dopodiché i quattro bemolli vengono sostituiti dai quattro diesis di Do diesis minore per un secondo tema. La musica torna alla tonica per un finale sommesso e velato.

Forse il finale potrebbe essere criticato per essere troppo apertamente debitore a Chopin. Non che il soggetto sia privo di fascino o di interesse, ma Elmas si affida ampiamente a figurazioni e schemi ritmici che ricordano da vicino sezioni di entrambi i concerti di Chopin.

martedì 23 settembre 2025

Claudio Gevel - Un guasto nell'ascensore, 1931







 

MONDADORI n.55 - Edgar Wallace: Una, o due?




Due amici trentenni ex compagni d'università, ora uno ispettore di polizia e l'altro  ingegnere minerario, indagano su una bellissima giovane infermiera che sembra in un momento essere presente in un quartiere di Londra con la divisa da infermiera ma nello stesso momento essere presente dall'altra parte di Londra con un grande impermeabile nero, capelli raccolti e una pistola in mano poco rassicurante...
 

lunedì 22 settembre 2025

Ruth Rendell: La nuova amica



—Ricordi quello che abbiamo fatto l’altra volta?
Da settimane lei aspettava di sentire quelle parole. — Sì?
— Mi domandavo se ti piacerebbe farlo di nuovo.
Ne aveva una gran voglia ma non voleva farlo capire. — Perché no?
— Ti andrebbe per venerdì pomeriggio, allora? Ho la giornata libera e Angie va sempre da sua sorella, il venerdì.
— Non sempre, David, — rise lei.
Rise un poco anche lui. — Questa settimana ci va. Possiamo usare la tua, di auto? La nostra la prenderà Angie.
— Certo. Vengo a prenderti verso le due, d’accordo?
— Lascerò aperte le porte del garage, così potrai addirittura entrarci, senza scendere dalla macchina. Ah, Chris, puoi sistemare le cose in modo da rientrare un po’ più tardi? Mi piacerebbe poter passare insieme l’intera serata.
— Farò il possibile, — promise lei, e poi: — Sì, penso che ci riuscirò. A Graham dirò che devo uscire con la mia nuova amica.
Lui la salutò e le disse arrivederci a venerdì. Christine abbassò il ricevitore. Aveva quasi rinunciato ad aspettarsi una chiamata da lui. Ma un granellino di speranza doveva ancora esserci, in lei, perché non aveva mai lasciato il ricevitore staccato, come usava fare di solito.
L’ultima volta che l’aveva fatto era stato un giovedì di circa tre settimane prima, il giorno in cui era andata da Angie e vi aveva trovato David, solo. Christine aveva preso l’abitudine di staccare il ricevitore durante le ore d’ufficio, per evitare di ricevere telefonate da parte dei clienti della Midland Bank. Il suo numero e quello della Midland Bank differivano per un’unica cifra. Così, verso le nove e mezzo lei staccava il ricevitore e lo rimetteva a posto verso le tre e mezzo. Spesso il giovedì pomeriggio andava a trovare Angie, e senza preoccuparsi di telefonarle prima.
Christine conosceva benissimo il marito di Angie. Se il giovedì si tratteneva un po’ più a lungo, lo vedeva quando lui rincasava dal lavoro. A volte, lei, Graham, Angie e David uscivano insieme. Sapeva che David, come Graham, si occupava di vendite, e dallo stile di vita dell’amica intuiva che David doveva guadagnare meglio. Non lo aveva mai trovato molto attraente, perché sebbene fosse molto alto, aveva qualcosa di femmineo nell’aspetto, e i capelli ondulati e molto biondi.
Graham era di corporatura solida, molto bruno e con la pelle olivastra. Doveva radersi due volte al giorno. Christine aveva cominciato a uscire con lui quando aveva quindici anni, e il giorno del suo diciottesimo compleanno si erano sposati. In sostanza non aveva mai conosciuto altro uomo intimamente, e ora, se le capitava di trovarsi sola con un uomo, si sentiva impacciata e a disagio. Temeva, ecco la verità, che un uomo potesse prendersi delle libertà con lei, e quel pensiero la spaventava immensamente. Per molto tempo si era portata un temperino nella borsetta, per l’eventualità di doversi difendere. Una sera, dopo che erano stati fuori con un collega di Graham e avevano bevuto un po’ più del solito, aveva confidato a Graham quel suo timore.
Lui le aveva dato della sciocchina, ma era parso piuttosto compiaciuto.
— Quando ti sei allontanato per parlare con quelle persone e io sono rimasta sola con John, mi sono sentita così. Terribilmente nervosa. Non sapevo di che cosa parlare.
Graham era scoppiato a ridere. — Non dirmi che pensavi che il povero John facesse qualche approccio nel bel mezzo di un ristorante affollato.
— Non lo so, — aveva risposto Christine. — Non so mai quello che faranno.
— Fin quando non hai paura di quello che posso fare io, — aveva detto Graham, cominciando a baciarla, — il resto non ha importanza.
Non c’era scopo di dirgli, ora, con dieci anni di ritardo, che anche questo le faceva

domenica 21 settembre 2025

Wisława Szymborska: Nulla è in regalo



Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l’obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
L’inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.
La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
E questa è l’unica voce
che manca nell’inventario.

 

sabato 20 settembre 2025

Julia - Le avventure di una criminologa


Julia è una donna moderna, che ha una concezione moderna della vita e dei rapporti interpersonali. Ha superato di poco la trentina, con capelli corti e scuri ed occhi particolarmente grandi ed espressivi. Lontana dallo stereotipo della top-model, ha una figura naturalmente elegante, con un corpo esile e nervoso e tratti che, senza rientrare nei canoni della bellezza classica, la rendono decisamente affascinante. Si trucca poco, propende per un abbigliamento sportivo ma di classe (con una predilezione per l'insieme pantaloni - camicia - blazer) ma, all'occorrenza, sa sfoggiare anche mises più raffinate. Abita in una tipica villetta primi Novecento alla periferia di Garden City, una tranquilla (ma non troppo!) cittadina del New Jersey. Coltiva l'hobby del cinema anni Quaranta e della musica, e di professione fa la criminologa.

Il lavoro di Julia si svolge su due fronti. Insegna, come assistente, alla Hollyhock University, dove ha stabilito con i suoi studenti un rapporto di reciproca stima e fiducia. La criminologia è una scienza interdisciplinare che si basa sulla psicologia, sulla sociologia, sulla psicanalisi, sul diritto. Insomma, una materia complicata che va spiegata con parole chiare. E le sue lezioni sono così chiare che può capirle anche un neofita. Come libera professionista, invece, presta la propria consulenza a personaggi pubblici o a semplici cittadini. Nella maggior parte dei casi, però, riceve un incarico di lavoro direttamente dalla procura distrettuale e collabora con la polizia.

Il metodo d'indagine di Julia, oltre che sulle conoscenze scientifiche acquisite, si basa su un istinto personale, una straordinaria sensibilità che le permette d'immedesimarsi emotivamente nel criminale di turno e quindi di prevenirne le mosse o di risalire ai motivi che hanno scatenato le stesse. I casi che la interessano riguardano la psicopatologia criminale, i binomi sesso-delinquenza e droga-delinquenza, gli omicidi efferati, il proliferare dei serial killer, il fenomeno della delinquenza giovanile. Il suo intento è naturalmente quello di assicurare i colpevoli alla giustizia, ma soprattutto di capire - ma non giustificare - le profonde pulsioni che hanno spinto i criminali ad agire.

Le storie di Julia sono caratterizzate anche dall'uso di una voce narrante in prima persona, un espediente caro alla scuola californiana dei giallisti, che, nel nostro caso, ci permette di conoscere le riflessioni e le considerazioni della protagonista, in uno stile diaristico, che aggiunge immediatezza agli avvenimenti.

 


venerdì 19 settembre 2025

Raynier Naharaj: Il pane e i pesci di Natale



Alla vigilia di Natale in ogni casa, in quasi ogni parte del mondo, aleggia una tranquilla aria di eccitazione. L’emozione della festività e il calore di avere tutta la famiglia riunita mi riportano alla mente un racconto di Natale che ogni anno mi piace ricordare. È una storia vera anche se può sembrare incredibile. Ed è la prova che i miracoli accadono davvero.
Molto tempo fa, un gruppo di amici decise di spartire con altre persone la gioiosa atmosfera natalizia. Sapevano che parecchi bambini avrebbero trascorso i giorni delle feste in un ospedale nei dintorni, perciò acquistarono dei regali, li incartarono a dovere e, armati di chitarre e voci dolci, fecero visita all’ospedale il giorno della vigilia di Natale. Uno di loro era vestito da Babbo Natale. I bambini furono felicissimi quando videro che era arrivato Babbo Natale e quando il gruppo ebbe terminato di distribuire i regali e di cantare canzoni natalizie, gli occhi dei presenti luccicavano per la commozione. Da quella volta in poi fu deciso che la recita avrebbe avuto luogo ogni anno.
La vigilia di Natale dell’anno seguente la visita all’ospedale fu estesa anche al reparto delle donne e quella dell’anno successivo comprese anche alcuni bambini poveri del vicinato.
Il quarto Natale, dopo aver terminato tutte le visite stabilite, Babbo Natale, guardando nel sacco, si accorse che erano rimasti ancora dei doni.
Così gli amici si misero a pensare quale destinazione era possibile dare a quei regali.
Qualcuno accennò ad alcune catapecchie occupate abusivamente in cui vivevano un paio di famiglie poverissime. Decisero di dirigersi lì, convinti che non ci fossero più di tre famiglie. Ma non appena ebbero superato la cima della collina e furono entrati in quell’area così desolata, ormai era quasi mezzanotte, si accorsero, con estremo stupore, che ai lati della strada c’era un folto gruppo di persone.
Erano bambini, più di una trentina. Dietro le loro spalle non c’erano tre baracche, ma file e file di capanne malandate. Mentre le auto si fermavano, i bambini arrivarono correndo e urlando di gioia.
Avevano atteso pazientemente per tutta la sera Babbo Natale. Qualcuno, nessuno seppe dire con esattezza chi, aveva detto loro che sarebbe arrivato, nonostante il nostro Babbo Natale avesse deciso di dirigersi lì solo qualche minuto prima.
Tutti erano stupefatti, eccetto Babbo Natale. Lui era in preda al panico. Sapeva bene di non avere abbastanza giocattoli per tutti quei bambini. Decise tuttavia di distribuire i doni rimasti solo ai bimbi più piccoli. Quando i pacchetti si sarebbero esauriti avrebbe spiegato ai più grandi come stavano le cose.
Così, nel giro di un istante, egli si trovò appollaiato fuori dalla capote della macchina mentre quella trentina di bambini, puliti e tirati a lucido nei loro migliori vestiti, si disponevano in ordine di altezza, i più piccoli davanti, in attesa del loro turno per ritirare il regalo. I bambini si avvicinavano ansiosi e ogni volta che Babbo Natale affondava una mano nel sacco il suo cuore accelerava il battito per la paura e nella speranza che fosse rimasto ancora un pacchetto. E, proprio per miracolo, ogni volta la sua mano trovò un giocattolo. E quando anche l’ultimo bimbo ebbe ricevuto il suo dono, Babbo Natale lanciò un’occhiata al suo sacco, ormai floscio. Era vuoto, vuoto come avrebbe dovuto essere circa ventiquattro bambini prima.
Si lasciò scappare un respiro di sollievo e disse addio ai bambini. Ma mentre stava per entrare in macchina, pare che quello fosse il giorno libero delle renne, sentì il grido di un bimbo: “Aspetta, Babbo Natale! Aspetta!”. E uscendo di corsa da alcuni cespugli, arrivarono trafelati un bambino e una bambina. Si erano addormentati.
Babbo Natale ebbe un tuffo al cuore. Questa volta era certo di non avere più giocattoli. Il sacco era vuoto. Ma mentre i bambini, senza fiato, si avvicinarono, racimolò un po’ di coraggio e infilò di nuovo la mano dentro il sacco. Ed ecco che all’interno vi trovò ancora due doni.
Tra gli amici del gruppo, ormai diventati adulti, si racconta ancora di quel miracolo della mattina di Natale. Non sanno ancora come spiegare ciò che accadde, se non per il fatto che accadde.
Come mai conosco tanto bene questa storia? Be’, io ero quello vestito da Babbo Natale.

 

Sarah Keate

 


Stati Uniti, 1929 / Mignon G. Eberhart

Col naso aquilino, la pelle lentigginosa, i capelli rossi e, come dice lei stessa nelle prime pagine del romanzo che vede il suo esordio, La stanza n. 18 (The patient in the room 18), «una certa tendenza alla pinguedine», l'infermiera Sarah Keate è una
donna di mezza età che non si perde mai d'animo e ama il proprio mestiere sopra ogni cosa. «Nessun abito - dice - sta bene indosso a una donna quanto la bianca e inamidata divisa».



Ama anche curiosare qua e là, raccogliere pettegolezzi e ficcare il naso dove non dovrebbe. E alla fine - spesso grazie all'aiuto del giovane ispettore di polizia Lance O'Leary, costretto al ruolo di "spalla"- riesce sempre a risolvere misteri e delitti.
La simpatia che questo personaggio di donna non più giovanissima ma sempre un po' vezzosa, dotata di solido buon senso e di una grande capacità di osservazione, suscitò al suo primo apparire, convinse la scrittrice che anche nella tradizione poliziesca all'inglese, cui essa si ispirava, cominciava ad avvertirsi la necessità di una diversa composizione dei ruoli: la figura centrale dell'investigatore magniloquente e del tutto estraneo alla vicenda poteva per esempio essere benissimo sostituita da un'infermiera davvero in gamba.



Nel breve periodo compreso tra il 1935 e il 1938 ben sei sono i film che si ispirano all'infermiera Sarah Keate. Il migliore è probabilmente The patient in the room 18, diretto da Crane Wilbur e interpretato da Ann Sheridan.

giovedì 18 settembre 2025

URANIA n.54 - Arthur C. Clarke: Isole cosmiche



Viviamo in un'era in cui la fantasia di ieri è la realtà scientifica di oggi, e la narrativa d'immaginazione si rivela spesso più aderente alla realtà di quanto non si sospetti. Questo vale in particolar modo per Isole Cosmiche, un nuovo romanzo dell'indimenticabile autore delle Sabbie di Marte. Le Isole Cosmiche non sono che le future stazioni spaziali - o satelliti artificiali - che l'uomo si accinge a lanciare nello spazio, lungo orbite diverse, in quell'immenso vuoto di 384.000 km. che divide la Terra dalla Luna. Questi satelliti artificiali serviranno, tra l'altro, di base agli astronauti che si accingeranno a esplorare la Luna e i pianeti più vicini. Molti sono gli scienziati e i tecnici che si sono provati a studiare come si potranno costruire i satelliti artificiali, ma nessuno forse vi è riuscito così compiutamente e, insieme, così fantasiosamente, come Arthur C. Clarke. Con Isole Cosmiche la fantascienza si arricchisce di un nuovo, affascinante gioiello.
 

mercoledì 17 settembre 2025

Johann Rufinatscha

 

(Malles Venosta, 1 October 1812 – Vienna, 25 May 1893)

Johann Rufinatscha nacque nel 1812 a Malles Venosta (Austria, oggi provincia italiana dell'Alto Adige). All'età di 14 anni si trasferì a Innsbruck, dove studiò pianoforte, violino e musica al conservatorio. In seguito si stabilì a Vienna, dove rimase per il resto della sua vita. Fu particolarmente attivo come insegnante di pianoforte e armonia a Vienna. Sembra che Rufinatscha abbia trascorso la maggior parte della sua vita insegnando piuttosto che componendo attivamente, il che spiegherebbe perché compose un numero relativamente limitato di pezzi. Conobbe Johannes Brahms e compose diverse opere (tra cui diverse sinfonie) durante il periodo in cui Brahms si rifiutò di pubblicare opere sinfoniche per paura di non essere all'altezza dell'eredità di Beethoven. Sebbene i contemporanei lo avessero previsto come un grande compositore del suo tempo, ciò non si verificò, e per questo motivo è ancora relativamente sconosciuto. Tuttavia, come insegnante di musica fu influente; Tra i suoi allievi figurano compositori come Ignaz Brüll e Julius Epstein. Morì nel 1893 a Vienna.

Rufinatscha è riconosciuto come uno dei compositori tirolesi più importanti del XIX secolo. Si può dire che le sue opere costituiscano un ponte tra quelle di Franz Schubert e Anton Bruckner. Poco prima della sua morte, Rufinatscha decise di donare i manoscritti delle sue composizioni al Museo provinciale tirolese, dove si trovano ancora oggi.

Il Concerto per pianoforte in sol minore è il suo unico concerto. Si tratta di un'opera importante, della durata di circa trenta minuti, risalente al 1850. Il primo movimento, più lungo dei due successivi messi insieme, contiene lunghi passaggi "tutti" per l'orchestra senza il solista. La presenza di trilli pianistici sottolinea ancora una volta l'influenza di Beethoven. Il movimento è dominato da due temi principali, un imponente tema eroico e un tema secondario struggente. Il pianoforte sviluppa a lungo entrambi i brani dopo la loro esecuzione da parte dell'orchestra, per poi scambiarsi i temi con l'orchestra in una lunga sezione di sviluppo. Una cadenza standard ci conduce alla conclusione tempestosa. L' Adagio inizia con una deliziosa melodia sviluppata insieme da pianoforte e orchestra. Un episodio più cupo interrompe brevemente il movimento, ma l'atmosfera tranquilla dell'apertura ritorna a chiuderlo. Il finale, Allegro con Brio, inizia con una melodia ritmica accordale seguita da un secondo tema più lirico. Questi vengono sviluppati a turno e ripetuti prima che il concerto si diriga verso il suo finale allegro. 

martedì 16 settembre 2025

Livio Moltesi - Copertina grigio-azzurra, 1940







 

MONDADORI n.54 - John Goodwin: L'ospite misteriosa


La milionaria -in dollari- Elayne Corbyn e l'accompagnatrice Jenny Craddock sono le ospiti paganti dell'ineffabile lord Trent in crisi di liquidità, ma non di idee. Perché il figlio -si chiede- non sposa l'ereditiera salvando così l'avita dimora? La trama in rosa vira, però, subito, verso il giallo e poi il nero (muore un ambiguo servitore). La Green lascia il posto a Wallace con annessa banda criminale. A" Giustizia è fatta" si sposano tutti, lasciando però molto amaro in bocca al povero lettore.
 

lunedì 15 settembre 2025

Lee Schultz: La talpa



Tutti i miei guai sono cominciati il giorno che hanno assunto quella donna per fare il mio stesso lavoro. D’accordo, lei fa parte di un’altra squadra, però fa la stessa cosa che faccio io e nello stesso posto. Insomma, facciamo lo stesso lavoro ma in due turni diversi.
Lavoro per la Compagnia Mineraria Table Mountain, come “talpa”. Vi spiego: il carbone viene portato fuori della miniera su un nastro trasportatore che lo fa cadere dentro un tubo, e dal tubo, uscendo, quel carbone forma un mucchio enorme di materiale grezzo. Il materiale più piccolo casca giù dritto, quello a pezzi grandi come sassi rimbalza un po’ più in là, e così via fino ai blocchi molto grossi, che rotolano verso la parte terminale del mucchio. Sotto questa montagna di carbone c’è un tunnel, che ha un tetto di lamiera molto spessa, con tanti fori. Ciascuno dei fori viene a trovarsi sotto quella parte del materiale di una determinata dimensione, e ha uno scivolo a forma di imbuto e un portello.
Il mio mestiere – e quello di lei – è di regolare quei portelli a seconda della dimensione dei pezzi richiesti giù all’impianto di lavorazione. Mettiamo che vogliano pezzi di dimensione media: bene, io apro il primo portello soltanto in parte, lasciando scendere un po’ del materiale più fine, poi apro in parte il terzo portello, lasciando cadere i pezzi di dimensione media sul nastro trasportatore del tunnel; da lì, una volta arrivati in fondo al tunnel, i pezzi finiscono dentro il cassone di un camion. I camion trasportano il materiale giù a valle, dove viene sottoposto a lavorazione e poi caricato sui vagoni-merci.
Questa parte del lavoro è semplice: la parte che odio, invece, è quella di ripulire. Non sempre il nastro trasportatore corre via diritto, qualche volta scivola giù da un lato e versa il carbone per terra, e mi tocca tirarlo su con la pala e rimetterlo sul nastro, che resta più in alto della mia testa. È una faticaccia, e devo ammettere che ci sono tante altre maniere molto più piacevoli di occupare il tempo.
Io il problema l’avevo risolto, prima che venisse lei. Seduto nella mia capanna di lamiera, tranquillo e al caldo, mi faccio un pisolino, mi leggo Playboy, oppure guardo fuori della finestra e vedo correre i cervi. Ogni tanto rientro nel tunnel a controllare i portelli e, se un po’ di carbone finisce in terra, be’, l’uomo dell’altro turno fa pulizia ogni venerdì, soffia fuori tutta la polvere che si accumula sui rulli e sulle pareti e poi sparge dappertutto uno strato di polvere di roccia. Sì, perché la polvere di carbone può causare un’esplosione, alle volte, e gli agenti federali sono severissimi per quel che riguarda l’accumulo di polvere di carbone e lo strato di protezione di quell’altra polvere. Così, se anche c’è un po’ di materiale in più da spalare, chi volete che venga a saperlo? Ci pensa quell’altro, che tanto è vicino alla pensione, perciò mica va a lamentarsi, vi pare?
Poi, l’altro in pensione ci va, e assumono quella... quella donna, perché prenda il suo posto. Oho, dico io, staremo un po’ a vedere quanto dura. Lo sanno tutti che una donna non può fare tutto il lavoro che fa un uomo. Così me la piglio comoda e lascio che se la sbrighi lei a raccogliere il materiale che scappa giù dal nastro. Lei non protesta. Immagino sappia che la compagnia mineraria non la vuole, anche se ha dovuto assumerla per la solita manfrina sulla parità di diritti, eccetera. Ma ecco che un giorno il suo capo, il vecchio “Mastino” Barrett, scende nel tunnel e vede tutto il disordine che ho lasciato, perché tanto c’è lei che ci pensa, e il giorno dopo mi salta in testa e me ne dice di tutti i colori. Urla che devo fare il mio lavoro come si deve e, già che c’è, aggiunge un paio di frecciate, dicendo che almeno lei si presenta al lavoro tutti i giorni. Roba da matti, a sentirlo ci sarebbe da credere che gli piaccia, avere una stupida donna tra i piedi.
Così i mesi passano e lei ogni giorno alza di più la cresta. Una volta lascia addirittura il tunnel in uno stato da far paura e mi scrive un biglietto, dicendo che è stufa di ripulire anche per me e che, d’ora in poi, quello che lascio così lo ritrovo. Che faccia tosta! In tanti anni che faccio questo mestiere, nessuno s’è mai azzardato a parlarmi in quel tono. Mi brucia, naturalmente, così lo dico al mio caposquadra. Chissà perché, lui non mi dà nessuna soddisfazione.
Lei, intanto, continua a tenermi sotto pressione, e un giorno che il Grande Capo mi coglie a schiacciare un sonnellino, la faccenda comincia veramente a mettersi male. Io sono sempre con i nervi tesi, e proprio perché ho i nervi tesi il lavoro ci va di mezzo. Ai capoccia questo non piace, ma non vedo come possano licenziare un individuo solo perché non sta bene. Giusto?
Così, il colpo finale arriva quando il Grande Capo mi chiama nel suo ufficio e dice: «Jack, abbiamo avuto troppe lamentele sul tuo assenteismo, sul modo come lavori – anzi, come non lavori – e sul fatto che ti addormenti mentre sei in servizio. La prossima volta – la prossima, bada – che ti colgono a dormire, o a non fare il tuo dovere, o a rimanere assente senza la giustificazione del medico, ricordati che con noi avrai chiuso, e tanti saluti.»
Poi mi dà una strana occhiata e dice: «Abbiamo messo una donna, all’altro turno, proprio per vedere se ti saresti vergognato un po’ e se avresti lavorato meglio. Ma già, a te non importa un bel niente se una donna fa il tuo stesso lavoro molto meglio di te».
Resto a bocca aperta, tanto non sto più né in cielo né in terra. Quando finalmente trovo qualcosa da rispondere, lui è già uscito dalla stanza. Non posso credere a quello che ho sentito. Ed è allora che decido che quella là deve andarsene.
Passo tutta la settimana successiva a studiare il tunnel, in cerca della maniera per sbarazzarmi di lei, in modo che le cose tornino come prima del suo arrivo. Prendo in considerazione alcune parti ma sono troppo solide per tentare un sabotaggio, e naturalmente deve sembrare un “incidente”. Alla fine decido per il portello dello scivolo N. 4. Non lo uso mai, perché solleva troppa polvere e a me non va di portare la maschera. Mi lascia degli strani segni sulla faccia. Mentre lei usa il N. 4 molto spesso, perché all’addetto all’impianto di lavaggio della sua squadra piace di lavorare sui blocchi più grossi. E inoltre, lo scivolo è già indebolito da quella volta che vi rimase incastrato dentro un grosso pezzo di roccia e ci toccò far saltare il masso per liberarlo. Esagerammo un po’ con la carica, e in quel punto la volta metallica è un po’ deformata.
Ci metto due giorni ad allentare i dadi che assicurano lo scivolo al tetto. Secondo i miei calcoli, quando lei prende servizio e apre quel portello, il peso di tutti quei massi di carbone e di roccia che piombano sul portello farà staccare lo scivolo dal tetto, lasciando un’apertura di un metro e mezzo di diametro attraverso la quale il carbone verrà giù a precipizio. Ci vorranno cinque secondi al massimo perché lei rimanga completamente sepolta sotto quei blocchi enormi. E chi potrà provare che non è un incidente? In fin dei conti, quei bulloni sono soggetti a uno sforzo continuo e la vibrazione può benissimo averli allentati. Quanto ai segni lasciati dalla chiave inglese, c’erano già dal giorno in cui sono stati installati gli scivoli.
Così, il giovedì preparo la trappola. Sto canticchiando la mia canzoncina preferita, mentre risalgo gli scalini per tornarmene nel mio casottino, al sicuro: dopo di questa giornata le cose torneranno com’erano una volta. Sono talmente immerso nelle mie riflessioni che non sento neppure il mio caposquadra venir su dagli scalini, finché lui non dice: «Ehi, Jack, oggi faremo partire i blocchi più grossi, perciò torna giù nel tunnel e apri il portello del N. 4. Io t’aspetto qui».

 

sabato 13 settembre 2025

Isabella


Isabella è un personaggio dei fumetti creato nel 1966 da Giorgio Cavedon e Renzo Barbieri, con i disegni di Sandro Angiolini nel 1966 e protagonista di due serie a fumetti in formato tascabile di genere erotico e storico-avventuroso. La saga si inseriva sulla scia del successo ottenuto dai romanzi (e dai successivi adattamenti cinematografici) del ciclo di Angelica, figura romanzesca ideata dai coniugi francesi Anne e Serge Golon. inizialmente pubblicato Editrice 66 (poi ribattezzata Erregi) e infine dalla Ediperiodici.

Protagonista del primo fumetto erotico-avventuroso pubblicato in Italia, che farà da apripista a un nuovo genere, Isabella fu l'antesignana di una serie di eroine, procaci e disinibite, che divennero un autentico fenomeno di costume.

Isabella è una bellissima ragazza bionda rimasta orfana e allevata da una famiglia di zingari nella Francia del XVII secolo ai tempi del re Luigi XIII circondata oltre che da personaggi immaginari come Jacula (che esordisce in questa serie prima di divenire essa stessa protagonista di una propria testata omonima) ma anche da quelli realmente esistiti come il Cardinale Richelieu o Maria de' Medici. Divenuta una donna audace e risoluta e provetta spadaccina va alla ricerca delle sue origini scoprendo di essere l’unica superstite della nobile famiglia dei De Frissac di Chateau Salins che venne sterminata dal barone Von Nutter per impadronirsi dei loro possedimenti. Prende quindi la decisione di vendicarsi e rimpossessarsi dei suoi beni. Il personaggio nonostante sia ispirato a quello di Angelica ha le proprie fattezze modellate più su quelle di Brigitte Bardot che su quelle di Michèle Mercier che era l’interprete di Angelica nella versione cinematografica.

 Nello sfogliabile vengono proposti i primi due episodi della saga di Isabella, nella versione rivista da Cavedon, con l'aggiunta di nuove tavole, pubblicati nel numero 1 di Isabella Gigante, ne luglio1969.
In origine i racconti erano intitolati: La duchessa dei diavoli e Nelle spire del barone.



 

venerdì 12 settembre 2025

Gahan Wilson: Il festino della strega



La sua casa non esiste più, ora. Qualcuno l’ha demolita, ha sradicato gli alberi con un bulldozer e ha spianato il terreno, costruendovi sopra, con cemento di cattiva qualità e mattoni a buon mercato, una brutta casa d’appartamenti. Ci ho fatto una scappata in auto qualche sera fa (è la prima volta dopo anni che rimetto piede nella mia cittadina, per tenere una conferenza all’università) e ho visto la luce azzurrognola dei televisori baluginare nelle stanze di soggiorno.
Il suo villino sorgeva su una piccola altura, rammento, con un prato anemico tra la casa e la cancellata di ferro che isolava la sua proprietà dal resto del mondo. Le finestre ti spiavano dall’alto, attraverso i rami intricati delle querce. Camminando lungo la cancellata, lo ricordo bene, sapevo che lei mi stava guardando e incassavo la testa nelle spalle. Questo non potevo impedirmelo, però mai, proprio mai, le ho dato la soddisfazione di vedermi affrettare il passo per la paura.
Per gli adulti era la Signorina Marble, ma a noi bambini non la dava a bere. Non dubitavamo che avesse un altro nome, anche se nessuno di noi lo conosceva, e sapevamo che era una strega. Non so chi fu il primo a dirmelo; forse Billy Drew. Sì, credo sia stato lui, ma io l’avevo già immaginato, sebbene non avessi ancora sei anni. E poi crebbi, tutti noi crescemmo, nell’assoluta certezza che la Signorina Marble fosse una strega.
Non riuscivi mai a vederla bene, o almeno io non ricordo che mi sia mai capitato, a parte quell’unica volta. Giusto sprazzi e barlumi. Una fugace immagine del suo piccolo corpo tozzo mentre sgattaiolava su per gli scalini del portico; la sua palandrana marrone dietro la fitta macchia di cespugli accanto al garage, dove si diceva che arrugginisse una vecchia automobile elettrica; per una frazione di secondo, la sua faccia incredibilmente rugosa nello spiraglio d’una porta che si chiudeva. E questo era tutto.
Fred Pulley affermava di averle dato una buona occhiata, un pomeriggio. Stava sarchiando il prato, o qualcosa del genere, ed era così assorta nel suo lavoro da non bada-re a nulla, anche se si trovava a forse un metro e mezzo dalla cancellata. Resistendo all’impulso di proseguire per la sua strada, Fred si era fermato e l’aveva studiata per due o tre minuti buoni, prima che lei alzasse gli occhi, lo vedesse e, con un ringhio, battesse in ritirata.
Non ci stancavamo mai d’interrogarlo in proposito.
— I denti, Fred, — bisbigliava uno di noi, era quasi sempre a bisbigli che si parlava della signorina Marble, — hai visto i suoi denti?
— Sono lunghi e gialli, — rispondeva Fred. — Finiscono a punta, sapete, e credo

Commissario Santamaria

 


Italia, 1972 / Carlo Fruttero e Franco Lucentini

Dai modi gentili e dal tono raffinato, dotato di una certa discrezione e specializzato in casi "delicatissimi", il commissario Santamaria è nato in Sicilia, ma i trova benissimo a Torino.
«Durante la guerra, ancora da ragazzo, le circostanze l'avevano portato a fare il partigiano nelle valli piemontesi. E dopo la guerra, quando era entrato nella polizia, i primi incarichi li aveva avuti a Torino. Il suo trasferimento così, era stato
praticamente un ritorno ...».
Abita in una casa del vecchio centro, in via dei Mercanti, non ha mai voluto tagliarsi i baffi («come molti dei suoi colleghi che non volevano avere l'aria del questurino meridionale») e il vicequestore Picco lo considera «uno che conosce l'ambiente» e gli affida le indagini più delicate, che lui dovrà portare avanti «senza riguardi per nessuno, questo va da sé ... ma anche con quella discrezione ( ... ) che in tanti casi così delicatissimi ha dimostrato».




Creato da Fruttero & Lucentini e apparso per la prima volta in La donna della domenica (1972), che non è solo un giallo in piena regola ma anche un rigoroso "spaccato" di un'intera città ed è diventato un best seller internazionale, il commissario Santamaria è ricomparso in A che punto è la notte (1979), un altro romanzo poliziesco, sempre ambientato a Torino, questa volta nel mondo della Fiat. 



La donna della domenica ha avuto una riduzione cinematografica nel 1976. La regia era di Luigi Comencini e nei panni del commissario Santamaria c'era
Marcello Mastroianni. 



Nell 'agosto 1993 è stato annunciato un film-tv tratto da A che punto è la notte. Diretto da Nanni Loy e interpretato da Marcello Mastroianni, Max von Sidow, Angela Finocchiaro e Leo Gullotta, andò in onda nell'autunno 1994 in due puntate.


giovedì 11 settembre 2025

URANIA n.53 - Jack Vance: I vandali dello spazio



Come, dopo la scoperta del continente americano, banditi e fuorilegge invasero il Nuovo Mondo, cercando di arricchirsi a spese dei pionieri che, sovente, con sacrificio della vita, portavano nella nuova terra scoperta da Colombo il benessere e la civiltà, così, quando - fra non molti anni - gli uomini avranno scoperto la Luna e gli altri pianeti del sistema solare, nascerà una nuova categoria di banditi: "I vandali dello spazio". Quest'epoca di pirati dello spazio, dice l'autore nella sua presentazione, è molto vicina, perchè vicine sono le conquiste umane nello spazio: forse i nostri figli la vivranno. Perciò questo romanzo che racconta come Dick, un giovane astronauta assetato di avventure, riesca a scoprire il covo dei banditi dello spazio e, rischiando più volte la vita, a smascherarli, aiutando la polizia a sbaragliarli, è molto pià vicino al vero di quanto un romanzo di avventure lo sia di solito. E' quasi una profezia riguardante un prossimo futuro, che la nuova generazione certamente vivrà. Ad ogni pagina c'è un nuovo fatto, ad ogni riga un'appassionante avventura, ogni capitolo offre un nuovo enigma cosmico... "I vandali dello spazio" sono un prodigio di fantascienza.

 

mercoledì 10 settembre 2025

Ignacy Feliks Dobrzyński

 

(Romaniv, 15 February 1807 – Varsavia, 9 October 1867)


Ignacy Feliks Dobrzynski, pianista, compositore e direttore d’orchestra polacco, tanto stimato in vita da essere ritenuto negli ambienti musicali di Varsavia non inferiore a Fryderyk Chopin, oggi è pressoché sconosciuto fuori della Polonia.
Ignacy Feliks Dobrzynski nasce a Romanów, in Volinia, Ucraina nord-occidentale, in una ben conosciuta famiglia di musicisti; come suo fratello Edward, anche lui è avviato alla musica da suo padre Ignacy, violinista e direttore d’orchestra. Dopo aver frequentato il Collegio dei Gesuiti a Romanów e il Ginnasio a Vinnycja, studia a Varsavia con Józef Elsner.

Ignacy Feliks Dobrzynski inizia a comporre già dai tempi del ginnasio; a Varsavia organizza concerti da lui stesso diretti, e insegna pianoforte. Nel 1834 compone la Sinfonia n. 2 in do minore che, in un concorso a Vienna nel 1835, vince il secondo premio; viene poi eseguita a Varsavia e a Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn. Nel 1845, presso l’editore G. Sennewald di Varsavia, pubblica la sua opera didattica Szkoła na fortepian; nel 1862 Sennewald stampa una versione per due pianoforti della seconda sinfonia.

Ignacy Feliks Dobrzynski raggiunge la piena maturità artistica intorno al 1830; le sue composizioni, sebbene radicate nel tardo stile classico, accennano a stilemi tipici delk Romanticismo. Tra il 1836 e il 1838 compone la sua prima e unica opera “Monbar o i Filibustieri” che, per vicissitudini diverse, andrà in scena al Teatro Wielki di Varsavia soltanto nel 1863; in precedenza, tuttavia, suoi frammenti sono eseguiti in forma di concerto.

Tra il 1845 e il 1847 Dobrzynski effettua una lunga tournée in Germania, sia come solista che come direttore d’orchestra; per qualche tempo non gli è permesso di ritornare in Polonia avendo scritto alcune canzoni patriottiche (dopo il Congresso di Vienna la Polonia è divisa e occupata).

Nel 1857 Dobrzynski fonda l’Orkiestra Polska Ignacego Feliksa Dobrzyńskiego che comprende alcuni strumentisti dell’orchestra del Teatro Grande di Varsavia; fa parte, inoltre, di un comitato per l’istituzione di un Istituto Musicale. Dal 1860, a causa delle sue condizioni di salute, si ritira in privato, dedicandosi, ancora per qualche anno, alla composizione.

Ignacy Feliks Dobrzynski lascia più di 170 opere; della sua produzione musicale fanno parte 2 sinfonie, una cinquantina di pezzi per pianoforte, oltre a brani per orchestra, per solisti con accompagnamento, alcune cantate, e musica da chiesa. Non è raro che le sue composizioni abbiano titoli inusuali, patriottici o legati agli eventi dell’annessione polacca, spesso scritti  in francese;  la sua seconda sinfonia, ricca di slanci e di passionalità, a parere di alcuni musicologi, è l’espressione dei sentimenti provati per la patria divisa e occupata dallo straniero.


Piano Concerto in A flat major, Op. 2 (1824)
Questo concerto in tre movimenti, eseguito rigorosamente nella forma classica di un concerto strumentale, è opera di un giovane compositore diciassettenne. È composto dai seguenti movimenti: 1. Allegro moderato 2. Andante espressivo 3. Rondò. Vivace ma non troppo. Fu creato nel 1824 durante il soggiorno del compositore a Winnica, dove si diplomò presso il famoso Ginnasio Podolski, guidato dallo scolopio M.J Maciejowski. Un anno dopo, Dobrzyński divenne allievo di Elsner, che nelle sue relazioni d'esame valutò lo studente come dotato di "capacità non comuni". Secondo Andrzej Spóza, direttore della Società Musicale di Varsavia e studioso dell'opera di Dobrzyński, il brano non fu mai eseguito durante la vita del compositore. Nel 1986, Kazimierz Rozbicki lavorò sul manoscritto dell'opera e ne creò una versione per l'esecuzione. Nelle parole di Stanisław Dybowski, il brano è dominato da un pianoforte costretto a "cantare" nei passaggi lirici e a "brillare" nei passaggi più vistosi, nelle scale e nelle figurazioni. L'orchestra deve creare uno sfondo per il solista, dialogando solo con lui e prendendo la guida in alcune sezioni.