lunedì 6 ottobre 2025

William Bankier: Ritorno a casa



Il bigliettaio era un giovanotto, portava la macchinetta dei biglietti fissata al petto per mezzo di cinghie, come una fisarmonica. Steve Taylor gli chiese un biglietto da cinquanta pence. Dopo sei settimane di continui percorsi sull’autobus Numero 11 dal Westminster Hospital a Chelsea, Taylor sapeva che il prezzo della corsa era di cinquanta pence. Il giovane prese la moneta, regolò il dispositivo della macchinetta distributrice, girò la manovella per far uscire il talloncino che staccò e consegnò al passeggero brizzolato di capelli ma con la faccia da bambino. Poi, con passo barcollante, se ne tornò verso il fondo del veicolo.
Alle otto e mezzo di sera, l’autobus aveva un percorso abbastanza sgombro davanti a sé e poteva perfino saltare alcune fermate completamente deserte. Taylor sedeva in uno stato di semi-ipnosi mentre veniva trasportato oltre Vittoria Station, lungo Pimlico Road e fino a Sloane Square. Stavano percorrendo la King’s Road quando gli capitò di gettare un’occhiata al biglietto. Il codice stampato mostrava la lettera C. Taylor sapeva che la C indicava una corsa da trenta pence. Lui ne aveva pagati cinquanta: la lettera corrispondente era la E.
Provò solo un lieve senso di irritazione. Poteva darsi che il bigliettaio avesse fatto un errore involontario, nel battere la lettera. Più probabilmente, lo aveva fatto di proposito, mettendo venti pence della corsa di Taylor in un’altra tasca. Perché preoccuparsene? Taylor non ne aveva avuto alcun danno, era quasi a destinazione, ormai. L’unico imbarazzo poteva venirgli dal fatto che un controllore salisse sull’autobus e volesse vedere tutti i biglietti, ma era poco probabile, a quell’ora tarda. No, la sola a rimetterci era l’Azienda dei Trasporti di Londra, e perché mai Taylor doveva curarsene?
— Ma che cosa te ne importa? — disse Flora Corrigan, seduta dall’altra parte del tavolo, al Roebuck. Dopo tre settimane, Taylor aveva fatto l’orecchio all’accento di Glasgow e ora capiva quasi tutto quello che lei diceva.
— Il furto mi dà fastidio. È sempre stato così. — Mandò giù qualche sorso di birra. — Da noi a Montreal, anni fa, c’erano degli esattori a riscuotere il pedaggio dagli automobilisti, sul ponte Jacques Cartier. Poi il sistema venne modernizzato, vennero installate le macchine, sai?... quei cesti dove si getta dentro la moneta e la barriera si alza...
— Ah, sì — disse Flora.
— Nel primo mese, le macchine incamerarono quarantamila dollari in più di ogni altro mese precedente. Gli esattori facevano sparire in media la bellezza di quarantamila dollari: risultò che erano tutti proprietari di immobili.
— Che cosa ti aspetti, tu, dalla gente? — domandò Flora. Aveva occhi ridenti, di un azzurro chiarissimo, e una massa di capelli nerissimi che le incorniciavano senza molto stile il volto pallido e un po’ ordinario.
— Mi aspetto che non imbrogli. Che non rubi.
— Steviee — disse lei, su una nota di rimprovero, e non le occorreva aggiungere altro. Sapevano entrambi che solo un’ora prima, a pochi chilometri da lì, lui aveva dato la buonanotte alla moglie, costretta a starsene confinata da ben sei settimane nella corsia di osteopatia del Westminster, in seguito a una dolorosa frattura del bacino.
— Non è la stessa cosa. Tra Irene e me le cose sono ben chiare.
— Ah, certo.
— È così, ti dico. — Taylor non aggiunse altro. Aveva già illustrato a Flora la situazione tra sua moglie e il suo socio, Ralph Ness. Le aveva descritto i loro piani per quel viaggio in Inghilterra, un ultimo tentativo per scoprire se nel loro matrimonio vi fosse qualcosa che valeva la pena salvare.
Flora alzò il bicchiere di birra scura: bevve, lo posò. — Anch’io trovo il modo di imbrogliare, in lavanderia — annunciò.
— Coraggio, deprimimi ancora un po’ — Taylor aveva notato la sbrigativa efficienza di lei la prima volta che si era recato in quella lavanderia con un fagotto di panni da lavare. Cercava un modo di ammazzare il tempo, così invece di consegnare la biancheria e pagare perché la giovane scozzese se ne occupasse, l’aveva messa lui stesso nella macchina ed era rimasto lì un’ora ad aspettare, osservando intanto lei al lavoro. La bicicletta di Flora era parcheggiata all’interno del negozio, proprio contro la vetrina: i clienti che entravano dovevano aggirarla, per passare. Chissà perché, la cosa gli era piaciuta.
— Qualcuno mi porta un grosso bucato — spiegò Flora. — Un paio di sacchi pieni. Ci vogliono due macchine per lavarlo, e infatti il cliente mi paga per due. Io aspetto che se ne vada, poi ficco tutto dentro una macchina sola e mi tengo metà della somma.
— Ma naturalmente i panni non vengono altrettanto puliti.
— Tragico, sì! Ma il mondo è pieno di tragedie.
Taylor finì di bere e andò al bar per farsi dare un’altra birra. Mentre aspettava, gli tornarono alla mente i problemi che lui e Ralph avevano affrontato, anni prima, per avviare la Taylor-Ness Promotions. I regali a quelli delle agenzie, le riduzioni, gli sconti... Quando tornò da lei, osservò: — Un’economia non va avanti se non può reggersi sulla fiducia reciproca.
— Vuoi scherzare? Guarda Londra, come prospera. Sono venuta fin qui dalla Scozia per assicurarmi la mia fettina di torta. Londra è una città di ladri.
Il mattino dopo, Taylor si alzò dal letto in tempo per vedere Flora dare la prima colazione alla sua bambina prima di accompagnarla a scuola. Bonnie aveva ereditato dal padre la pelle olivastra, che formava un bellissimo contrasto con gli occhi azzurri e chiarissimi. Il giovane era tornato a Bristol, da dove, per quel che ne sapeva Flora, doveva essersi imbarcato. Non aveva mai scritto, mai mandato denaro. Pazienza, lei non aveva alcuna intenzione di sposarlo: andasse pure a sbattere contro un iceberg per finire sul fondo dell’Atlantico. Con il suo canadese a rimorchio, Flora aveva chi l’aiutava a pagare l’affitto almeno per il tempo sufficiente perché la moglie di lui venisse dimessa dall’ospedale. A nessuno l’avvenire offriva garanzie per un tempo più lungo.
Madre e figlia erano sulla porta. Taylor si alzò da tavola, portando con sé la tazza. Le baciò entrambe, chinandosi per portarsi al livello di Bonnie. Strano! Venticinque anni prima, a Montreal, Irene aveva fatto la stessa cosa nelle mattinate dei giorni feriali, quando lui usciva per recarsi al lavoro, dando un passaggio a Jennifer fino a scuola lungo il tragitto. Ora Jennifer aveva una vita tutta sua a Toronto e Irene stava facendo colazione in ospedale insieme a una decina di sconosciute.
— Andrai a trovare tua moglie, questo pomeriggio?
— Come sempre.
— Quando ci parli, con il dottore?
— Oggi, penso.
Flora, mento all’aria, faccia mezzo girata in là, gli lanciò uno sguardo. — Sarà un sollievo sbarazzarsi di te.
Mentre lei guidava Bonnie giù per la cala a chiocciola, Taylor mise la testa fuori dell’uscio per gridarle dietro: — Rientrerò presto. Ceneremo insieme, tutti e tre. — Vide la piccola levare gli occhi in volto alla madre. — Comprerò io qualcosa al ristorante cinese.
Alle due, quando Taylor arrivò in ospedale perché cominciava l’orario di visita, Irene era già stata vista dal primario. Incontrò il marito sulla porta della corsia, da dove stava uscendo per una delle sue passeggiatine, che affrontava con determinazione, sorreggendosi ormai con perizia sulle grucce di alluminio. Il volto, nel fissarlo, le si illuminò di un sorriso trionfante. — Domani — annunciò. — Dicono che potrò andarmene domani pomeriggio.
— Che bella notizia! — Taylor abbracciò la moglie, la sua nuova, fragile moglie che irradiava un calore insolito, così diversa dalla fredda, vigorosa Irene di tutti i loro anni in comune.
— Non c’è motivo, dicono, perché le cure fisioterapiche non possa farle a casa. Insomma, l’essenziale è che mi hanno dato il permesso di affrontare il viaggio. — Irene si voltò a gettare un’occhiata al lungo stanzone pieno di letti. — Prenota il volo, Steve — disse, mentre si avviava con precauzione verso il bagno comune. — Prenotalo, a costo di acquistare l’intera aviolinea.
Rimasto solo, Taylor si accinse al suo giro di visita delle altre pazienti. Era una cosa che sapeva fare bene, mantenendo relazioni cordiali e a breve termine con le signore più anziane. Scherzava un po’ con loro, le faceva ridere, ed era convinto che questo giovasse loro almeno quanto le medicine che stavano prendendo.
Quando Irene tornò dal bagno, andò con lei per una lenta passeggiata lungo il corridoio, oltrepassando le porte aperte di altre tre corsie occupate da pazienti meno mobili di Irene Taylor. — Sarai addirittura assetata della compagnia di Ralph — osservò Taylor.
— Non c’è bisogno di parlarne in quel tono.
— Anche lui avrà sentito la tua mancanza, immagino.
Lei si arrestò nel punto più largo del corridoio, dove si aprivano le porte degli ascensori. L’indomani avrebbe viaggiato in una di quelle cabine, verso la libertà. — Abbiamo tentato — disse. — Ci siamo concessi ben sette settimane.
— Pensi che le cose sarebbero andate diversamente se non fossi stata investita? Se avessimo viaggiato per l’Inghilterra, così come avevamo in programma, tutti e due in buona salute... credi che avremmo potuto salvarlo, il nostro matrimonio?
Tra sé pensava che il volto della moglie appariva bello con gli zigomi così prominenti, come quello di un’indossatrice. Ricordava l’Irene grassottella, scesa da due giorni appena dall’aereo di Montreal, un istante prima intenta a godersi la cerimonia del cambio della guardia davanti a Buckingham Palace, quello dopo stesa a terra, priva di sensi. Non era stata colpa di nessuno, l’auto non stava procedendo a velocità eccessiva. Era dipeso soltanto dalla mala sorte se Irene era stata urtata e, nel cadere, si era fratturata il bacino.
— Se avremmo potuto salvarlo? — Lei ripeté la domanda del marito, stette un poco a meditarvi su. — Ho idea che non lo sapremo mai.
Quando Taylor concluse la sua visita, lasciò la corsìa e si affrettò giù per i quattro piani di scale fin nell’atrio dell’ospedale, calcolò che era ancora troppo presto per prendere l’autobus per Chelsea. Se voleva che i cibi arrivassero a casa ben caldi in tempo per l’ora di cena, doveva lasciar passare almeno altri tre quarti d’ora. Così decise di rilasciarsi sul divano di cuoio vicino alla porta d’entrata, dove c’era un continuo via-vai di visitatori, infermiere, medici e portantini. Osservare la folla era interessante.
Un tale si alzò dalla sua sedia accanto al telefono e venne a fermarsi vicino a Taylor, chinandosi, la sigaretta protesa. — Le spiace se mi servo anch’io del suo portacenere?
— Prego.
Era abbastanza ben vestito, giacca di tweed, camicia e cravatta, calzoni di velluto a coste e scarpe di camoscio, ma il tutto aveva un aspetto stazzonato, come se lo sconosciuto avesse dormito vestito e preso pioggia per almeno due o tre giorni. L’uomo si mise a sedere su una sedia accanto al divano di Taylor. — Ero in attesa di una telefonata — disse.
— Mmm.
— Sono venuto fin qui da Oxford per far visita a un amico e lui ha lasciato l’ospedale. Ancora non era guarito da una polmonite, quell’incosciente.
Taylor scosse la testa.
— Nessuno sa dove sia andato. Si è dimesso da sé dall’ospedale. Ho telefonato a un amico di Oxford, per sentire se per caso si era messo in contatto con lui. Neanche là ne sanno niente.
— Oh, mi spiace.
— Ora sono senza soldi per il viaggio di ritorno. Il mio amico doveva prestarmi i soldi per l’autobus. — L’uomo inarcò la fronte e fissò Taylor. — Mah. Sarà meglio che esca di qui e vada se qualcuno mi dà uno strappo fino a casa. Spero solo che non ricominci a piovere.
— Quant’è il prezzo della corsa?
— Lei è davvero gentile, signore. Due sterline mi basteranno per arrivare a casa sano e salvo.
Taylor lasciò l’ospedale, percorse Great Smith Street fino alla Stazione Vittoria, poi si dispose ad aspettare l’autobus. Non c’era nessuno alla fermata, l’11 evidentemente era appena passato. Un bel ragazzo in jeans e camicia puliti gli si avvicinò e, accostando la testa alla sua, prese a parlare molto in fretta. L’accento cantilenante gallese era gradevole, anche se molto di quel che il giovane aveva da dire andava perduto per orecchie canadesi. — Solo a Londra... mia madre e mio padre sono venuti fin qui da Cardiff... non riesco a trovare lavoro... solo qualche spicciolo per comprare qualcosa da mangiare...
Taylor assentiva a tempo con quella litania che, nonostante il suo contenuto, suonava più gioiosa che triste. — Qualche spicciolo è poca cosa — disse, mettendo una mano in tasca ed estraendone una banconota piegata. — Ecco, prenda una sterlina.
— Grazie, signore, grazie. — Il ragazzo filò via come un cane liberato del guinzaglio, mentre l’autobus svoltava da Parliament Square e sembrava calare su Taylor.
Tenendo in equilibrio vassoi di cibi cinesi ben caldi, Taylor bussò alla porta dell’appartamento di Flora. Sentì Bonnie arrivare di corsa, gridando: — Avanti, avanti, avanti! — mentre Flora toglieva la catena, apriva le due serrature, il chiavistello.
Mangiarono seduti al tavolo di cucina, versando quel che restava del vino del giorno innanzi da un bottiglione di due litri. — Il volo è confermato? — s’informò Flora.
— Domani alle quattro.
— Chissà tua moglie com’è felice.
— Come dicono i vostri tifosi?
— Sulla luna?
— Irene è sulla luna. — Taylor aggiunse altra salsa di prugne al riso di Bonnie, poi le riempì il bicchiere di latte. — Non vede l’ora di rivedere Ralph Ness.
— Tu cosa farai?
— Tornerò al lavoro. — Gli affari promettevano bene, ormai, ma avrebbero richiesto gli sforzi di entrambi i soci per raggiungere la vetta successiva. Un gran numero di società acquistava programmi audio-visivi, ormai, denaro ce n’era in abbondanza sul conto corrente Taylor-Ness. Presto si sarebbe dovuto decidere se trasferire gli uffici in una zona più centrale. Ne avrebbe discusso immediatamente con Ralph. Nel frattempo, era stato un bel gesto da parte del socio l’avere suggerito quella vacanza a Londra. Dimostrava, s’intende, fino a che punto Ness era sicuro che Irene avrebbe optato per lasciare il marito.
— Lo so che tornerai al lavoro — disse Flora. — Intendo dire che cosa farai a proposito dell’altro uomo?
— Che cosa posso fare? Siamo tutti adulti. Se Irene decide che preferisce vivere con Ralph, non posso certo chiuderla a chiave in una stanza.
La ragazza scozzese scuoteva la testa, disorientata da quei valori a lei estranei. — Potresti prenderlo a pugni, tanto per cominciare.
Alle otto, consegnarono Bonnie, già in pigiamino, alla vicina del piano di sotto, poi Taylor seguì Flora giù in strada. Lei voleva portarlo fuori e offrirgli da bere, come addio.
— Sono stufa del Roebuck, con tutta quella gente chiassosa. Andiamo in un posto un po’ più distante.
Salirono su uno degli autobus Numero 11 così familiari a Taylor, diretti verso Vittoria Station. Flora infilò il braccio in quello di lui e si tennero anche per mano. Di momento in momento sembrava che lei fosse lì lì per dire qualcosa, ma ogni volta ci ripensava. Taylor non sondava il silenzio della compagna: anzi, gliene era grato. Quando scesero dall’autobus in Buckingham Palace Road, lei fece strada attraverso una porticina che non recava alcuna insegna ma che si rivelò l’entrata di un club al primo piano. La sala in cima alle scale aveva il soffitto molto alto, e l’arredo non era molto cambiato da quando era il soggiorno di chissà chi. La clientela era quasi tutta di mezz’età, c’era un solo tavolo di giovani. Taylor intuì d’essere l’unico turista del luogo.
Il cameriere conosceva Flora. Rispose al segnale di lei senza nemmeno avvicinarsi al tavolo. — Sta’ attento, ora — disse lei a Taylor. — Vedrai qualcosa da aggiungere alla tua collezione.
Il cameriere mise due bicchieri sul vassoio, vi fece cadere dentro del ghiaccio, pagò al barista due bottigliette di acqua di soda, poi fece un giro ampio, fino a un angolo della sala dove lunghi tendaggi marroni coprivano una finestra. Lavorando in fretta, pescò una bottiglia da dietro le tende, versò due whisky-on-the-rock, fece nuovamente sparire la sua bottiglia personale, si voltò e si avvicinò al tavolo di Flora.
— Due sterline e venti, cara — disse.
Lei pagò e il cameriere si allontanò senza fretta. — Se continua così — disse Taylor — il club andrà in fallimento.
— Non è un ingordo. Prende solo la sua parte.
— Il barista dev’essere al corrente di quello che succede.
— Lui lo paga, il barista. — Flora levò il bicchiere. — Felice atterraggio a Montreal.
Taylor assaggiò e inghiottì. Se non altro era ottimo whisky. — Come ve la caverete, tu e Bonnie, quando me ne sarò andato?
— Quando si dice la presunzione maschile!
— Sono preoccupato.
— Sopravvivevamo prima del tuo arrivo. Continueremo a sopravvivere.
— Sopravvivere — mormorò Taylor, come se la parola descrivesse un’attività oscena.
— Non dirlo con quel tono di sufficienza. Al giorno d’oggi è un risultato brillante per la maggior parte di noi.
— Mi piacerebbe aiutarvi. — Via via che il whisky aggiungeva il suo effetto a quello del vino bevuto a cena, lui la guardava con ammirazione sempre maggiore. La solida persona di lei aveva qualcosa di rassicurante. — Tu e la bambina, ho finito per affezionarmi a voi.
— Allora lascia tua moglie — disse senza tanti giri di frase Flora. — Abbandonala, rimani qui a Londra e vivi con me e Bonnie. — Lo osservava, intanto, per vedere come avrebbe reagito alla sua sfida.
— Così, come se niente fosse.
— È solo un suggerimento. Non sei tenuto a prenderlo sul serio.
Il club serviva liquori anche al di là dell’ora consentita. Era mezzanotte passata quando Taylor e Flora scesero le scale e si ritrovarono in strada. — Niente autobus a quest’ora, amore mio — disse lei. — Ti tocca prendere un taxi.
— Con piacere — rispose Taylor, piuttosto brillo.
Nel guardarsi intorno alla ricerca di un taxi, Taylor scorse un gruppo di giovani seduti sul marciapiede, a pochi passi da loro. Stavano dividendosi una bottiglia di vino, versandolo in bicchieri di carta.
Uno di loro aveva un che di familiare: l’aspetto ordinato dei jeans e della camicia permise a Taylor di identificarlo come il giovane gallese al quale aveva dato una sterlina alla fermata dell’autobus. Ora, però, il ragazzo parlava il genere di inglese che insegnano alla Royal Academy of Dramatic Arts. Taylor ne incontrò lo sguardo. — Salve.
— Oh, buonasera.
— Come vanno le cose a Cardiff?
Il ragazzo sorrise mentre i suoi amici esplodevano in una risata omerica. Una ragazza con i capelli cortissimi e a piedi nudi disse: — Hai superato l’audizione, Clive, ma non credo che avrai la parte.
Un taxi si fermò in risposta all’azione di forza di Flora, che era andata a fermarsi proprio in mezzo alla strada. Lei, aperta la portiera, spinse dentro Taylor, prese posto a sua volta e diede l’indirizzo al conducente. Taylor si lasciò andare contro lo schienale. — Non so se piangere o ridere — disse.
— Perché?
Lui le raccontò del modo come il ragazzo lo aveva imbrogliato, fingendo d’essere un turista gallese senza un soldo. — Tu e la tua città di ladri — concluse.
— Perché mai le cose dovrebbero essere diverse — ribatté lei. — I tempi sono cambiati, se Dio vuole. Per tutta la sua vita lavorativa, mio padre ha accettato la sua piccola busta, il venerdì pomeriggio. Viveva nel terrore di perdere il posto... — Parlava quasi tra sé.
— Non ti sento.
— Dicevo che la gente ha delle aspettative. E con tutto il danaro che circola, ha anche una quantità di occasioni. Il crimine fa parte del sistema... su su fino al vertice.
— Forse hai ragione — disse Taylor. — A me, però, tutto questo non va.
— Arruolati nella polizia, allora. Ti troverai in mezzo a un mare di ipocriti.
Irene era seduta sull’orlo del letto, già vestita. Era dimagrita molto, durante quelle otto settimane d’ospedale: gli abiti che aveva portato con sé le pendevano vuoti sulla persona. Taylor stava facendo ridere le vecchiette col percorrere la corsia aiutandosi con le grucce di sua moglie. Terminato il suo numero, tornò da lei, che disse: — Non voglio perdere quell’aereo.
— Niente paura, mia cara. Abbiamo ore davanti a noi.
— Hai messo in valigia tutte le mie cose?
— È tutto da basso.
— Non vedo l’ora che sia domani. Non vedo l’ora che tutta quest’avventura faccia parte della storia.
Una poltrona a rotelle veniva spinta nella corsia da uno degli inservienti. Taylor osservò sua moglie prendervi posto. Poi lei scambiò con altre pazienti promesse di scrivere, di combinare di rivedersi, nessuna delle quali credibile. Infine, ecco che stavano procedendo lungo il corridoio verso gli ascensori, oltrepassando per l’ultima volta corsie piene di prigioniere il cui unico crimine era la sfortuna.
Nell’atrio, Taylor andò a ritirare le valigie che un portiere cordiale aveva preso in consegna. Dopo averle collocate vicino alla porta, tornò da Irene e disse: — Vado a cercare un taxi in Horseferry Road. Torno subito.
— Buona fortuna — rispose lei.
Dall’altro lato dell’atrio, vicino al telefono, c’era lo stesso individuo in giacca di tweed e calzoni di velluto a coste. Stava schiacciando una sigaretta in un portacenere e intanto si rivolgeva confidenzialmente a un signore con i capelli bianchi. Taylor perse gran parte di quel che veniva detto, ma afferrò le parole «ha lasciato l’ospedale senza dirmelo».
— Che c’è di tanto buffo? — domandò Irene.
— L’umanità. — Taylor uscì in cerca del taxi.
Mentre erano in viaggio verso l’aeroporto, Irene mandò un gran sospirone. — Dio, che senso di sollievo — commentò poi.
— Sei stata all’inferno e ritorno.
— Be’, forse esageri, però ho passato una gran brutta estate. — Lo fissò, con uno sguardo penetrante. — E com’è stata la sua estate, signor Taylor?
— Lo sai benissimo.
— So quel che riguarda le ore in cui venivi a trovarmi. Ne restavano molte altre, in compenso, nelle quali eri solo soletto.
Taylor sostenne lo sguardo della moglie in un silenzio ostile.
— Ho capito — disse lei. — Non farmi domande, non ti dirò bugie.
C’era tempo per bere qualcosa prima del decollo. — Dio, mi sento davvero sollevata — ripeté Irene. — Tra poco saremo sull’aereo, poi Montreal, poi a casa.
Attraverso un’ampia vetrata, Taylor fissava gli aerei che, in successione, rullavano e decollavano. Alla fine domandò: — Nessun ripensamento all’ultimo istante?
— La penso esattamente come quando siamo partiti da Montreal.
— Il che significa che non vedi l’ora di ritrovare Ralph Ness.
— Non abbiamo mai mentito su questo punto.
— Vi auguro d’essere felici entrambi.
Irene mise tempo a cambiare posizione sulla sedia. — Dimmelo soltanto se lo vuoi, Steve. Avevi trovato qualcuno, qui?
— Sì, in verità. Si chiama Flora.
Irene ascoltò il nome, lo registrò, sentì l’equilibrio della sua vita adattarsi a quel nuovo peso. Sorrise. — Perché non rimani con lei?
— Lei lo vorrebbe. Ha anche una bella bambina.
— Tu ci sai fare con i bambini. Perché non resti?
— Ci ho pensato. Immagino che potrei cedere a Ralph la mia parte della ditta.
— Lui non aspettava altro che di rilevarla. — Irene consultò il suo orologio. — Telefonagli. Sa che arriviamo con questo volo, ha intenzione di venirci incontro all’aeroporto. Digli che arriverò sola.
— Ma è una cosa assurda. — Taylor estrasse il portafoglio e cercò tra le carte la tesserina per telefonare. Si alzò e aveva il respiro un po’ affannoso. — Ralph penserà che siamo diventati matti.
Taylor formò direttamente il numero della ditta, si sorprese quando lo stesso Ralph Ness rispose all’apparecchio. — Siamo senza centralinista? — esordì.
Il socio rise. — Rebecca sta prendendosi libertà d’ogni genere.
— Dille che è pagata per rispondere al telefono.
— Come sta Irene?
— Come sai, è in grado di salire su un aereo. Torna a casa oggi stesso.
Seguì un silenzio. Poi: — Avete aggiustato le cose tra voi?
— Vorrei poterti dire di sì. È stata un’idea umanitaria, Ralph, mandarci in vacanza per una seconda luna di miele. Non è servito, però.
— Datevi una seconda possibilità, lei ha passato tutto il tempo in ospedale.
— Non è scritto nelle stelle.
— Che cosa ne sai, se non provi? Non preoccuparti di tornare subito, qui non c’è alcun bisogno di te — disse Ness. — Prova a cambiare scenario. Vai in Italia, o in Spagna.
— Non mi sono spiegato bene, Ralph. È Irene che torna a casa oggi, non io. Io ho scoperto qualcosa qui.
— Una donna?
— E la sua bimbetta. Io stesso stento a riconoscermi.
— Ma è fantastico!
— Ho bisogno soltanto di un po’ di denaro. Come vanno gli affari?
— Gli affari? Benissimo.
— Se sei sempre dell’idea di rilevare la mia parte, possiamo discuterne. Nel frattempo, vai a prendere Irene all’aeroporto. — Taylor ripeté il numero del volo e l’ora dell’arrivo. — Sii caro con lei, Ralph — concluse. — Ha avuto una gran brutta estate, e a sostenerla è stato soprattutto il pensiero di te.
Taylor si unì a una folla di turisti a bordo di uno dei torpedoni che dall’aeroporto andavano fino a Londra. Era d’umore tale per cui condivideva la loro euforia. Stava andando tutto bene. Niente più visite all’ospedale, tanto per cominciare. Né sarebbe stato costretto a recitare di nuovo la parte umiliante del marito la cui consorte si era innamorata del socio giovane e bello. Invece, avrebbe portato avanti la sua relazione con Flora e con la piccola Bonnie. Niente complicazioni stavolta. Flora apprezzava qualcosa, in lui, ch’egli stesso quasi non sapeva di possedere. Se mai avesse cessato di pensarla così, glielo avrebbe detto senza tante storie.
Salì la stretta scalinata e bussò sull’uscio, ritmando i soliti colpi. Sentì i passi di Bonnie, che chiamava a gran voce la mamma, poi la reazione di Flora che, fingendosi spazientita, veniva ad aprirgli.
Taylor mostrò la valigia. — Ho deciso di stabilirmi qui.
— Dov’è Irene?
— A diverse centinaia di chilometri da qui, in volo sopra l’Atlantico.
— Sei proprio matto — disse Flora. Gli piantò una mano sulla nuca e lo trascinò in casa. — Non hai paura di rimanere intrappolato?
— Vedrò di cavarmela — rispose Taylor. — Che c’è per cena?
Il telefono squillò nelle prime ore del mattino. Irene aveva il tono di chi è al di là di ogni furore. — Devi venire subito — disse. — Col primo aereo disponibile. Devi parlare con la polizia, e con gli avvocati.
— Che cos’è successo?
— Il nostro caro amico e socio, Ralph Ness. Ha preso il volo, insieme a quella sgualdrinella del centralino, Rebecca.
— Il volo?
— Hai sentito, benissimo. Stava organizzando tutto fin dalla nostra partenza. Per questo, probabilmente, ci aveva consigliato una vacanza. Si è impadronito di tutto, ha portato via fino all’ultimo dollaro su cui è riuscito a mettere le mani. La ditta è stata ripulita fino all’ultimo centesimo. Io non capisco, te lo spiegheranno i legali. Ma se l’è svignata questo pomeriggio... è partito per il Sud America, probabilmente.
— Non posso crederci.
— Quello che devi tenere presente — disse Irene, come se stesse insegnandogli a parlare — è che non c’è neanche un soldo.
Quando mise giù il ricevitore e tornò a distendersi accanto a Flora, lei disse, nel buio: — Ho afferrato il senso.
— Il mio socio ha venduto tutto, poi ha preso il denaro e se n’è scappato in Brasile con la ragazza del centralino.
— Lei com’è?
— Carinissima. E dritta.
Flora accese la lampada sul tavolino da notte. Si sollevò su un gomito, la faccia appoggiata alla mano, e fissò fino in fondo agli occhi di Taylor. — Te ne torni a casa, vero?
— Lei è sola, là. Non ha una rendita, non ha modo di procurarsela.
— Se non sbaglio doveva essere il tuo socio a preoccuparsene.
Quando Flora spense la luce, rimasero a giacere supini, spalla a spalla. Taylor era sorpreso di scoprire che provava un senso di sollievo. Aveva una quantità di conoscenze, a Montreal. I clienti avrebbero compreso la sua situazione gli affari sarebbero ripresi, la banca sarebbe stata paziente. Irene, quando le cose andavano male, dava il meglio d sé. Tempo un anno e sarebbero stati d nuovo in attivo, forse di nuovo sulla via della prosperità.
Era stata un’estate interessante. Mentre Taylor era a Londra a prendere visione della disonestà universale, dietro le sue spalle il suo socio stava per svignarsela con
quasi tutto quello che lui possedeva. L’eccezione era Irene: l’unica parte della sua vita, ora se ne rendeva conto, che non sarebbe stato possibile sostituire.
Non che egli lo meritasse, un simile colpo di scena. Forse a Montreal lo avrebbero perfino ammirato, una volta che avesse rimesso assieme i cocci. Ma lì a Chelsea, una brava donna si sarebbe ricordata di lui come di uno dei tanti, che agguantavano quello che volevano e tiravano via per la loro strada.

 

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