venerdì 3 ottobre 2025

Kerstin Backman: Lo sconosciuto



Era la vigilia di Natale, vent’anni fa, il primo Natale che avremmo trascorso nella nostra piccola casa di campagna di legno rosso, ai margini di una foresta nel nord della Svezia. La costruzione era molto vecchia e arredata con mobili altrettanto vecchi, ma così a buon mercato che potemmo permetterci di comprarla. C’era anche una piccola stalla dove era possibile tenere pochi cavalli e due piccoli campi nei quali gli animali potevano correre. Uno stretto viottolo conduceva alla strada principale. Eravamo così lontani dalla città più vicina che la nostra era sempre una delle ultime strade che venivano sgombrate dalla neve.
Questo Natale ci sembrava magico. La nostra famiglia non aveva mai vissuto prima in campagna.
La neve era caduta per giorni e tutto il mondo era bianco e soffice sotto quella morbida coltre. Il paesaggio tutt’intorno assomigliava a un mare ghiacciato costellato di gigantesche onde gelate. Più tardi, quello stesso giorno, la neve smise di cadere e le nuvole lentamente svanirono. Una pallida luce proveniente dal sole al tramonto si rifletté in scintillanti cascate sulla neve.
Le betulle e i pini nella foresta sembravano coperti di una pelliccia di neve.
Era come vivere in una di quelle cartoline natalizie e noi, in mezzo a quel bianco silenzio, eravamo felici come bambini. Quell’inverno sembrava un regalo speciale concepito apposta per noi. Accanto a mio marito e ai miei bambini sentivo che quello era un Natale in cui tutto avrebbe potuto accadere.
Consumammo la tradizionale cena della vigilia raccolti attorno al vecchio tavolo della cucina. Era una cena tradizionale svedese: un grosso prosciutto, costolette, cavolo e piselli serviti con pane, formaggi e ogni tipo di salsicce. Dopo ci sedemmo a chiacchierare alla luce tremolante delle candele nel piccolo salotto, ignorando le pile di piatti sporchi in cucina.
Proprio allora, alle dieci di una scurissima notte di Natale, qualcuno bussò alla porta principale.
Ci guardammo l’un l’altro. Non conoscevamo ancora nessuno dei nostri vicini e quale dei nostri amici avrebbe potuto venire a farci visita, considerato che abitavamo così lontano dalla città?
Di nuovo ci fu un colpo alla porta. Io mi alzai e andai a vedere chi era.
Lì, in mezzo alla neve, solo e con alle spalle un cielo che riluceva di stelle, c’era un perfetto sconosciuto. In quella fredda notte svedese non portava il cappello. I soffici capelli biondi formavano un alone attorno alla sua testa, il suo respiro disegnava una nuvola attorno alla sua bocca semiaperta, e due grandi occhi splendevano su un volto pallido.
Rimasi lì a fissarlo. Poi guardai nel cortile dietro di lui per vedere se era accompagnato da qualcuno, ma era completamente solo. Tutto ciò che potei vedere erano i segni neri e profondi delle sue impronte nella neve che segnavano il suo cammino fino alla porta.
Lo sconosciuto stava fermo mentre io lo scrutavo, tenendo le mani in tasca e senza distogliere lo sguardo da me. Infine parlò.
“Mi scusi signora, avete un televisore in casa? .
La sua domanda era così inaspettata che quasi non sapevo che cosa rispondere.
“Ah sì, be’... sì, sì ne abbiamo uno”, balbettai.
“Sarebbe possibile vedere un programma? Credo che trasmettano una cosa che desidererei vedere”. La sua voce era gentile e amichevole. Io rimasi in silenzio. Il mio primo pensiero fu che avrei dovuto rifiutare, nella maniera più gentile possibile. Ma nonostante la mia mente pensasse a un rifiuto, la mia lingua non riuscì a pronunciare un no. Nel profondo di me sentivo la voce di mio nonno, un uomo molto pio, che mi diceva: “La notte di Natale è sacra. Non devi respingere nessuno in quella notte, perché così facendo respingeresti Cristo”.
“Bene...” dissi lentamente, cercando di pensare che cosa avrei dovuto fare. “Qual è il programma che vorrebbe vedere?”.
“Non ricordo”, rispose lui, “ma se mi permette di dare un’occhiata al giornale glielo dirò”.
“Forse sarebbe meglio se entrasse”, lo invitai aprendo completamente la porta.
Il giovane uomo salì i tre gradini e allungò la mano stringendo la mia con fermezza. Non disse il proprio nome e io non glielo chiesi. La sua mano era fredda gelata e io potei capire immediatamente perché: non indossava guanti. Aveva addosso un impermeabile grigio abbottonato fino al collo e portava grossi stivali di gomma. Non era un granché per una gelida notte d’inverno, riflettei.
I suoi occhi erano azzurri come un cielo estivo e quando sorrise mi sorpresi nello scorgere l’espressione di fiducia dipinta nei suoi occhi e sul suo volto. Ebbi la netta sensazione che era sicuro che gli avrei permesso di entrare.
Lo feci accomodare nel tepore della cucina. Mentre entrava scorse i resti del cibo ancora disposto sulla tavola.
“Oh”, osservò, “vedo che avete cenato”.
Rimasi alquanto sorpresa nel sentire la mia voce che diceva: “Forse gradirebbe assaggiare un po’ della nostra cena di Natale?”. Ma proprio allora mio marito e i miei figli ci raggiunsero. Nessuno chiese una spiegazione per la presenza dello sconosciuto. Io avevo deciso di farlo entrare e questo per loro era sufficiente. L’uomo biondo sorrise e strinse loro le mani, sempre calmo e fiducioso come un gattino.
Poi si voltò verso il fuoco e si strofinò le mani sopra di esso lanciando un’occhiata al cibo sul tavolo. “Sì”, rispose. “Se avete cibo a sufficienza, ne gradirei volentieri un po’”.
Riaccesi le candele mentre lo sconosciuto camminava attorno al tavolo osservando le pentole e i piatti. Sembrava non conoscere la maggior parte dei cibi e quando vide il grosso cavolo rosso sgranò gli occhi per lo stupore.
“Ma cos’è questo?” esclamò. “È quasi nero! C’è dentro del sangue?”.
“No”, lo rassicurai. “Il cavolo rosso diventa sempre scuro quando lo si cuoce in una pentola di ferro”.
“Che strano”, mormorò. “Non credo che lo mangerò”.
Prosciutto e pane, cavolo verde e salsicce di Natale, costolette e piselli: assaggiava ogni cibo lentamente e con uno sguardo molto concentrato.
La mia bambina era in piedi accanto a me, e lo osservava tranquilla mentre lui mangiava.
Infine il nostro ospite di Natale si alzò, ringraziandomi per la cena. “Se posso guardare il giornale, vorrei controllare i programmi della televisione”. Prese il giornale e iniziò a leggere, mentre gli occhi di mia figlia lo seguivano, tondi e pensierosi. “Guardiamo questa trasmissione!”.
Lessi, standogli alle spalle, la pagina dei programmi TV. “È troppo tardi per quello. È quello che voleva vedere?”.
“Non so”, rispose. “Ma questo! Sono certo che questo sia molto bello. Vorrei vedere questo”. Entrò nella piccola stanza in cui si trovava il televisore, prese una sedia che si trovava accanto alla parete e si piantò di fronte all’apparecchio. “Allora”, disse, “come si fa ad accenderlo?”.
Le sue parole avevano un tono solenne e i suoi curiosi occhi azzurri erano impazienti come quelli di un bambino, di un bambino che si aspetta un regalo.
Accendemmo il televisore e tutta la famiglia si sedette accanto a lui. Stava proprio iniziando una commedia, una buffa storia che poteva essere vista da tutta la famiglia, anche dai bambini piccoli. Lo sconosciuto non ci guardò mai mentre il televisore era acceso. Seguiva la storia da vicino e quando l’azione si fece più concitata gettò il capo all’indietro ridendo e i suoi capelli d’angelo volarono tutto attorno.
Il film aveva un lieto fine. Mio marito si alzò e spense l’apparecchio. Fuori dalla casa nella notte non si udiva alcun rumore. Lo sconosciuto stava ancora ridendo sommessamente.
“Immaginate”, disse piano. “Oggi ho persino riso”. Si voltò verso di noi, con il sorriso ancora disegnato sul volto. Ci guardò attentamente, quasi volesse imprimere nella memoria i nostri volti. Rimanemmo tutti in silenzio per qualche minuto.
“Dove va?” chiese mio marito.
“A Copenaghen”, fu la sua risposta. “Vengo dal nord della Svezia e vado a Copenaghen per salvare le persone che vi abitano. Là regna il peccato e la gente ha bisogno di aiuto”.
“Come viaggia?” chiese di nuovo mio marito. “In macchina?”.
“No, a piedi”.
Aveva camminato più di mille chilometri dal nord della Svezia fino alla nostra casa nella foresta? E aveva in mente di percorrere a piedi le centinaia di chilometri che ancora distavano dalla Danimarca?
Le parole restarono sospese nell’aria.
Lo sconosciuto sorrise e poi rise di nuovo con il suo tono strano e noncurante. “A volte delle persone gentili mi danno un passaggio, a volte cammino, a volte qualcuno mi dona del cibo e, stasera, ho addirittura riso”.
I suoi occhi blu ammiccarono di gioia pura, come se avesse ricevuto un dono prezioso.
Lui e mio marito continuarono a discorrere per un po’ di questo e di quello e io mi misi a sedere chiedendomi che cosa dovevamo fare con questo curioso ospite.
Nostra figlia mi tirò per il vestito e sussurrò: “Mamma, passerà la notte qui?”.
Scossi la testa quasi in segno di resa. Fu lo sconosciuto stesso a risolvere il problema. Improvvisamente si alzò in piedi e annunciò che era veramente arrivato il momento di andare.
“Se ne andrà davvero a... a piedi?” chiesi. “Le strade sono deserte questa notte e la prossima città è molto lontana”.
“Non avrò problemi”, rispose tranquillo.
Aveva quello strano sorriso. Non era né educato né imbarazzato. Si accendeva spontaneamente come se egli stesso non potesse trattenerlo, un sorriso ardente. Era come se fosse costantemente in attesa di qualcosa di cui noi non potevamo essere a conoscenza o come se vedesse qualcosa che a noi risultava invisibile.
Istintivamente presi un’arancia dal cesto della frutta e gliela porsi. “Ecco, almeno avrà qualche cosa da mangiare lungo la strada”.
Il sorriso di nuovo illuminò il suo volto. Prese l’arancia e la tenne tra le mani come un re terrebbe uno scettro. “Pensate”, disse con rispetto, “questa arancia ha viaggiato per tutto il mondo fino alla Svezia e ora io la tengo tra le mani. Non è fantastico?”.
Improvvisamente vedemmo l’arancia con i suoi occhi, una bellissima arancia matura che proveniva da un paese caldo e lontanissimo, e anche noi restammo meravigliati di fronte a tale spettacolo.
Infilò l’arancia in una tasca. Le sue mani erano calde quando strinse le nostre.
La notte di Natale era assolutamente immota, fredda e chiara.
La luce della luna scendeva sul fulgente biancore e sullo sconosciuto solitario che affondò i suoi passi nella neve alta.
Le sue impronte erano buchi neri e i suoi lucenti capelli biondi furono l’ultima cosa di lui che ci fu possibile scorgere quando raggiunse la strada principale.
Lo osservammo in silenzio e poi ritornammo nella nostra calda dimora. Fu mia figlia la prima a parlare.
“Era Gesù?” chiese.
Io sorrisi, come può sorridere un adulto. “No, non era Gesù. Sai, è passato molto tempo da quando nacque Gesù, la notte di Natale”.
“Lo so!” ribatté lei con impazienza. “Ma lui può tornare ogni volta che lo desidera, vero? Io penso che fosse Gesù”.
La mattina dopo, il giorno di Natale, cercammo di seguire le orme dello sconosciuto fino alla strada principale. Ma dovemmo fermarci improvvisamente. Proprio lì, nel mezzo della strada, le impronte, di colpo, scomparivano. La neve tutto intorno a noi era immacolata. Non c’erano nemmeno tracce di pneumatici, assolutamente nulla.
Quando, durante i mesi seguenti, ci capitava di fare conoscenza con qualcuno del vicinato non mancavamo mai di domandare se avessero visto uno sconosciuto camminare da solo la notte di Natale. Nessuno lo aveva visto.
Non abbiamo mai saputo né chi fosse quell’uomo né in che modo scomparve. Certo, non possiamo evitare di continuare a chiedercelo...

 


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