venerdì 12 settembre 2025

Gahan Wilson: Il festino della strega



La sua casa non esiste più, ora. Qualcuno l’ha demolita, ha sradicato gli alberi con un bulldozer e ha spianato il terreno, costruendovi sopra, con cemento di cattiva qualità e mattoni a buon mercato, una brutta casa d’appartamenti. Ci ho fatto una scappata in auto qualche sera fa (è la prima volta dopo anni che rimetto piede nella mia cittadina, per tenere una conferenza all’università) e ho visto la luce azzurrognola dei televisori baluginare nelle stanze di soggiorno.
Il suo villino sorgeva su una piccola altura, rammento, con un prato anemico tra la casa e la cancellata di ferro che isolava la sua proprietà dal resto del mondo. Le finestre ti spiavano dall’alto, attraverso i rami intricati delle querce. Camminando lungo la cancellata, lo ricordo bene, sapevo che lei mi stava guardando e incassavo la testa nelle spalle. Questo non potevo impedirmelo, però mai, proprio mai, le ho dato la soddisfazione di vedermi affrettare il passo per la paura.
Per gli adulti era la Signorina Marble, ma a noi bambini non la dava a bere. Non dubitavamo che avesse un altro nome, anche se nessuno di noi lo conosceva, e sapevamo che era una strega. Non so chi fu il primo a dirmelo; forse Billy Drew. Sì, credo sia stato lui, ma io l’avevo già immaginato, sebbene non avessi ancora sei anni. E poi crebbi, tutti noi crescemmo, nell’assoluta certezza che la Signorina Marble fosse una strega.
Non riuscivi mai a vederla bene, o almeno io non ricordo che mi sia mai capitato, a parte quell’unica volta. Giusto sprazzi e barlumi. Una fugace immagine del suo piccolo corpo tozzo mentre sgattaiolava su per gli scalini del portico; la sua palandrana marrone dietro la fitta macchia di cespugli accanto al garage, dove si diceva che arrugginisse una vecchia automobile elettrica; per una frazione di secondo, la sua faccia incredibilmente rugosa nello spiraglio d’una porta che si chiudeva. E questo era tutto.
Fred Pulley affermava di averle dato una buona occhiata, un pomeriggio. Stava sarchiando il prato, o qualcosa del genere, ed era così assorta nel suo lavoro da non bada-re a nulla, anche se si trovava a forse un metro e mezzo dalla cancellata. Resistendo all’impulso di proseguire per la sua strada, Fred si era fermato e l’aveva studiata per due o tre minuti buoni, prima che lei alzasse gli occhi, lo vedesse e, con un ringhio, battesse in ritirata.
Non ci stancavamo mai d’interrogarlo in proposito.
— I denti, Fred, — bisbigliava uno di noi, era quasi sempre a bisbigli che si parlava della signorina Marble, — hai visto i suoi denti?
— Sono lunghi e gialli, — rispondeva Fred. — Finiscono a punta, sapete, e credo d’aver visto del sangue su di essi.
In realtà tutti dubitavamo che Fred avesse visto la Signorina Marble, capite, e certo non credevamo alla faccenda del sangue, ma eravamo enormemente curiosi riguardo alla strega, e quando si prova una vera curiosità per qualcosa, soprattutto se si è una banda di ragazzi, si vogliono raccogliere tutte le informazioni possibili, anche se si sa che sono menzogne.
Dunque non credevamo a quello che diceva Fred Pulley, circa il sangue sui denti della Signorina Marble, o le ossa che le aveva visto tirar fuori dal terreno, ma immagazzinavamo questi dati nella memoria, per ogni evenienza, e ne tenevamo conto in tutti i nostri calcoli riguardo alla strega.
Halloween era il giorno in cui la Signorina Marble era presente più che mai nei nostri pensieri. Innanzi tutto perché era una strega, naturalmente, e poi a causa di un vecchio rito in vigore tra i ragazzi della zona, che riguardava la Signorina Marble, noi stessi e la sera di Halloween. Era una sorta di prova del fuoco che ogni maschio doveva superare quando aveva compiuto i tredici anni, pena l’essere svergognato in eterno. Non ho idea di quando avesse avuto origine; so soltanto che, allorché io raggiunsi l’età canonica e dovetti sottopormi al cimento, il rituale era già saldamente stabilito. Ricordo d’aver indossato il mio costume per quel memorabile giorno, un vecchio mantello alla Principe Alberto e una maschera di cartapesta che riproduceva con notevole verosimiglianza la faccia di un cadavere in putrefazione, come se mi stessi armando per una grande battaglia. Studiai la mia immagine nello specchio dell’armadio e mi chiesi gravemente se sarei stato all’altezza. Incerto, ma risoluto, raccolsi il mio sacchetto di carta marrone, che era molto grande, in modo che potesse contenere una quantità spropositata di dolciumi, salutai mio padre, mia madre, il mio cane, ed uscii. Non ero arrivato alla prima traversa che incontrai George Watson e Billy Drew.
— Hai già rimediato qualcosa? — chiese Billy.
— No, — risposi, mostrandogli il sacchetto vuoto. — Ho appena cominciato.
— Anche noi, — disse George. Mi guardò con attenzione. — Sei pronto?
— Sì, — dichiarai, rendendomi conto che in realtà non lo ero stato fino a quel preciso momento e sentendo un calore confortante dentro di me, per il fatto di esserlo. — Posso farcela.
Arrivarono Mary Taylor e la sua sorellina Betty, poi Eddy Baker, Phil Myers e i fratelli Arthur. Da dove? Non ne avevo idea; Fu come se tutti i ragazzi del vicinato comparissero all’improvviso intorno a me, raggruppati sotto il lampione, i costumi svolazzanti nel vento, gli occhi curiosi fissi sul mio viso.
— Vuoi farlo ora, — chiese George, — o preferisci aspettare?
George si era sottoposto alla prova l’anno prima e aveva aspettato.
— Lo farò subito, — risposi.
Mi avviai lungo il marciapiede, seguito dagli altri. Attraversammo Garfield Street e Peabody Street, arrivando in Baline Avenue, dove voltammo a sinistra. Ormai vedevo la cancellata della Signorina Marble, mezzo isolato più avanti, ma stetti attento a non rallentare il passo. Quando arrivai, raggiunsi il cancello col portamento più marziale possibile e posai la mano destra sul saliscendi. Il metallo, freddissimo, mi fece pensare alle maniglie delle bare e ai picconi dei beccamorti. Lo alzai e il cancello si aprì con un basso, rugginoso gemito.
Adesso toccava a me solo. Ero faccia a faccia con la terribile prova. Le condizioni erano abbastanza semplici: dovevo percorrere il viottolo di pietre che attraversava il prato dall’erba alta e rada, salire gli scalini del portico, suonare il campanello e scappare. Avevo visto George Watson, l’ottobre precedente, e altri valorosi prima di lui superare la prova. Sapevo che non era impossibile.
Era una notte fredda, con un vento forte, continuo, e gonfie nuvole in corsa. La luna era a tre quarti ed appariva estremamente solida, a tutto tondo, nel cielo. Per la prima volta in vita mia mi resi conto che c’era una cosa reale lassù. Chissà di quanti Halloween era stata testimone e cosa aveva visto.
Mi strinsi intorno il mantello e cominciai a camminare lungo il viottolo della Signorina Marble. Camminavo perché tutti gli altri avevano corso o strisciato carponi e io ero deciso a portare una nuova dignità nel cimento.
Da lontano la casa appariva tetra e abbandonata, un cupo insieme di freddi grigi, verdi e blu, ma, via via che mi avvicinavo, cominciò a manifestarsi uno strano fenomeno. Le finestre, che dal marciapiede mi erano sembrate riflettere soltanto la luce della luna, si andavano accendendo di una luce più calda; i muri e il portico, prima cadenti, con l’intonaco scrostato e brutte chiazze di legno marcito, ora apparivano ben tenuti. Deglutii e aguzzai gli occhi. Mi ero preparato a un crescente senso di minaccia, ad ombre sempre più cupe. Quell’impressione di ordine, di calore, mi coglieva assolutamente alla sprovvista.
Quando raggiunsi i gradini del portico, il luogo era diventato assolutamente simpatico. Ora vedevo che la casa era in ottime condizioni, con un bell’intonaco d’un rassicurante color crema. Le finestre brillavano d’una luce inequivocabilmente allegra, arancione come la buccia d’una zucca, che faceva pensare a crepitanti caminetti pronti per rosolare gli squisiti “confetti d’ottobre”. Un poco stregonesco mazzo di pannocchie ornava la porta d’ingresso ed ero quasi certo di fiutare un profumo di zucchero e cinnamomo, fluttuante nell’aria fredda della sera.
Salii i gradini del portico, col fiato mozzo. Negli ultimi mesi mi ero immaginato molte terribili possibilità. Mai lontano dal mio pensiero era stato l’orrendo animale che si diceva la strega possedesse, ricoperto di squame, con lunghi artigli e ali dalle membrane trasparenti. Forse, avevo pensato, quella cosa piomberà su di me dai rami spogli della quercia e mi porterà via, mentre i miei amici urleranno impotenti sul marciapiede. Oppure, con un piccolo movimento delle dita, la Signorina Marble mi avrebbe trasformato in ranocchio, per poi schiacciarmi ridacchiando sotto un piede.
Quanto mi sentivo sciocco, e infantile, mentre attraversavo quel simpatico portico, odoroso – adesso ne ero certo – di zucchero, cinnamomo, sidro e, meglio di tutto, confetti di zucchero e burro fusi. Sollevai la mano per suonare il campanello e rimasi esterrefatto della mia assoluta mancanza di paura quando la porta si aprì dolcemente, mettendomi faccia a faccia con la Signorina Marble in persona.
La guardai e lei mi sorrise. Era piccola e paffuta. Portava un grembiulino con una gala arricciata tutt’intorno e aveva una faccia liscia, rossa e lucente come una mela d’autunno. Lenti bifocali posavano sulla punta del naso minuscolo e i capelli bianchi erano appuntati in una crocchia perfettamente rotonda sulla sommità della testa. Odori deliziosi fluttuavano intorno a lei, giungendo fino a me attraverso la porta aperta, ed io sbirciai golosamente oltre il suo piccolo corpo grassottello.
— Bene! — disse con una dolce voce da vecchina. — Sono così contenta che finalmente sia venuto qualcuno a mangiare le mie buone cose. Ho aspettato tanti anni, e ogni anno avevo tutto pronto, ma nessuno si faceva vivo.
Si spostò di lato e io vidi nell’ingresso un tavolo stracarico di canditi, noci, frutta in grandi coppe di cristallo, vassoi di pasticcini, schiacciate, focacce e torte, il tutto ri-splendente in una calda luce dorata che sembrava emanare da ogni dove. Sentii la Signorina Marble ridacchiare bonariamente.
— Perché non chiami i tuoi amici? Sono sicura che ce n’è abbastanza per tutti.
Mi voltai, guardando in fondo al viottolo, e alla luce della luna li vidi accalcati dietro al cancello, che mi fissavano a occhi sgranati, stringendosi al petto i sacchetti vuoti. In un empito di pietà generosa, raggiunsi il portico e agitai un braccio.
— Venite! Va tutto bene!
Non si mossero.
— Posso mostrar loro qualcosa? — chiesi.
La Signorina Marble annuì Allora entrai in casa e presi un’enorme torta ricoperta di glassa arancione, tutta decorata di minuscole zucche dorate che erano deliziosi bignè.
— Guardate! — gridai, alzando quella meraviglia nella luce lunare. — Guardate che torta! E lei ci ha preparato un mucchio d’altra roba! L’ha sempre fatto, ma noi non gliel’abbiamo mai chiesta!
Come prevedevo, George fu il primo a varcare il cancello. Poi si mosse Billy, poi Eddy, e infine tutti gli altri. Avanzarono dapprima lentamente, timidi come sorcetti; ma, quando gli aromi della cioccolata, dei mandarini e dello zucchero caramellato arrivò alle loro narici, affrettarono il passo. Il tempo di raggiungere il portico e la loro paura era scomparsa, come prima la mia, e sulle loro facce attonite vidi l’espressione che dovevo aver mostrato alla Signorina Marble, quando era venuta ad aprirmi.
— Venite, piccini. Come sono contenta che siate venuti tutti, finalmente!
Nessuno di noi aveva mai visto canditi simili, o anche soltanto sognato pasticcini e torte come quelli. Ci disponemmo attorno al tavolo nell’ingresso, intimiditi dall’imbandigione, stringendo convulsamente i nostri sacchetti.
— Prendete tutto quello che volete, bambini. È tutto per voi.
La piccola Betty fu la prima ad allungare la mano. Scelse una gomma grossa come una prugna e stava per ficcarsela in bocca, quando la Signorina Marble disse: — Oh, no, cara, non mangiarla subito. Non è così che fate, durante il giro del «regalo o dispetto». Aspettate d’essere di nuovo sul marciapiede, lo so bene, e allora soltanto vi pappate la chicca. Mettila nel sacchetto, per adesso, amorino.
A Betty non andava affatto l’idea d’aspettare, tuttavia fece come voleva la Signorina Marble: lasciò cadere la gomma nel sacchetto, aggiungendovi rapidamente un mucchio di altre leccornie, come gatti di liquerizia, mele avvolte nello zucchero caramellato e gherigli di noce attaccati insieme da una roba marrone dall’aria buonissima, e ben presto tutti gli altri bambini, me compreso, la stavano imitando, riempiendo alacremente i sacchetti e dedicando tutta la loro attenzione al compito di sgombrare il tavolo con la massima celerità possibile.
Presto, sorprendentemente presto, compimmo l’opera. Certo, restava qualche nocciolina qua e là, qualche briciola un po’ grossa, ma nel complesso il lavoro era fatto. «Quello che rimane va bene soltanto per topi e scarafaggi», mi dissi, e subito rimasi stupito del mio stesso pensiero. Da dove mi era venuta un’idea così poco piacevole?
Come erano gonfi i nostri sacchetti! Come si tendevano nello sforzo di contenere tutte le cose buone che vi avevamo ficcato! Quanto erano meravigliosamente pesanti da portare!
Ora la Signorina Marble era alla porta e la teneva aperta, sorridendoci.
— Tornate l’anno prossimo, tesori, e troverete il mio tavolo imbandito.
Uscimmo in gruppo, qualcuno lanciando al tavolo un’ultima occhiata, tanto per esser certo che non c’era più nulla, poi ci avviammo verso il cancello, mentre la Signorina Marble ci salutava agitando una mano. La lunga erba morta ai lati del viottolo strisciava contro i nostri sacchetti, producendo strani suoni sibilanti. Io avevo un gran freddo, come se fossi stato tutto il tempo fuori, nell’aria pungente della notte, invece che nel piacevole calore della casa della Signorina Marble. La luna era più alta ora e pareva – non sapevo come o perché – farsi beffe di noi.
Sentii Mary Taylor rimbrottare la sorellina: — Lei ci ha detto di non mangiare niente finché non siamo di nuovo sul marciapiede!
— Non m’importa. Io ne ho voglia!
Il vento soffiava più forte e i rami nudi degli alberi gemevano irosamente sopra le nostre teste. La cancellata sembrava lontanissima. Come mai ci mettevamo tanto a raggiungerla? Mi voltai verso la casa e la mia bocca divenne arida: era di nuovo grigia, vecchia e tetra, e l’unica luce che vedevo alle finestre era il freddo riflesso della luna.
Ad un tratto la piccola Betty Taylor si mise a piangere, prima singhiozzando piano, poi strillando. George Watson disse: — Che ti succede? — Seguì una pausa. Quindi George imprecò e lanciò sul prato, verso la casa, prima il sacchetto di Betty, poi il proprio. Questi atterrarono con una strana scivolata frusciante che mi fece rizzare i capelli sulla nuca. Lasciai cadere il mio e lo vidi “acquattarsi”, rigonfio, tra l’erba ai miei piedi. Sembrava un enorme, pallido rospo, con la bocca spalancata.
Uno per uno, tutti si liberarono dei loro fardelli. Alcuni dei più piccoli, frignando, si rifiutavano di abbandonarli, ma gli altri li separarono gentilmente dalle cose che stringevano tra le mani.
Tenni aperto il cancello mentre i miei compagni uscivano in fila indiana sul marciapiede, poi li seguii ed abbassai con cura il saliscendi. Ritti dietro la cancellata, scrutammo il buio. Qua e là, i sacchetti che avevamo abbandonato luccicavano debolmente; e alcuni si muovevano... sarei pronto a giurarlo, anche se George diceva che si trattava di un’illusione ottica, causata dall’ondeggiare dell’erba. Tutti udimmo l’alta, sottile risata della strega.


 

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