E così, sono qui che riempio le bottiglie di ketchup, sul finire della notte, e ascolto la radio che Charlie ha piazzato in cima al pannello mobile nel soffitto, quando la porta si apre ed entra uno di loro. Capisco subito che è uno di loro, non c'è possibilità di sbagliarsi al riguardo, anche se ha un vestito di buon taglio e un cappello a tesa floscia come quello che Humphrey Bogart portava in Casablanca. Ma insieme a lui non c'è nessuno, nessun professore del college né uomini del governo come nello spettacolo televisivo girato nel college, e nemmeno studenti. È solo. E siamo a parecchia distanza dalla strada che porta al college.
Si ferma sulla soglia, sbattendo un po' le palpebre, con la pioggia che gli gocciola dal cappello. Kathy, che dovrebbe pulire la macchina per il caffè dietro il bancone, si ferma e lo issa mentre con una mano tiene ancora in aria il filtro usato come se non avesse più intenzione di muoversi. Proprio in quel momento, dalla cucina, Charlie le grida: «Ehi, Kathy, perché non chiedi a qualcuno chi ha vinto?» E lei non gli risponde nemmeno. Continua a guardare con la bocca aperta come se volesse gridare ma si fosse dimenticata come si fa. E la coppia anziana seduta al posto d'angolo, gli unici clienti rimasti dopo che la folla uscita dal cinema se n'è andata, smette di masticare la crema al cioccolato e si mette a guardare a sua volta. Kathy chiude la bocca, la riapre, e fa uscire un rumore come: «Uh... errrgh...»
Ecco, questo mi dà fastidio. Forse lei ha cercato di dire "ugh" e forse no, ma quello è qui fermo sulla porta, con la pioggia che gli sgocciola e noi lo fissiamo come se fosse un manichino e non un cliente. Così, penso che non è giusto, e che magari lo stiamo anche facendo sentire a disagio. A me, non piacerebbe che Kathy mi fissasse in quel modo, quindi mi asciugo le mani con uno strofinaccio e mi avvicino.
«Posso aiutarla, signore?» dico.
«Un tavolo per uno» risponde lui, come se il locale di Charlie fosse un bel ristorante di città. Ma credo che quello sia il genere di posti in cui le persone del governo li accompagnano il più delle volte. E poi, la sua voce è educata e chiara, con leggero accento, ma non tanto forte come certi tipi che vengono dal college. Riesco a comprendere quello che dice. Lo accompagno a un posto d'angolo opposto a quello della coppia anziana che viene ogni venerdì sera e non ha ancora lasciato una sola mancia.
Lui si siede lentamente. Vedo che tiene le mani in grembo, ma non so se lo fa perché non sa cosa farne o perché crede che io non le voglia vedere. Ma io le ho viste in primo piano in TV... a me non sembrano così strane come qualcuno dice. Charlie sostiene che gli rivoltano lo stomaco, ma io non lo capisco. Ci sarebbe da pensare che abbia visto di peggio nel Vietnam. Da come ne parla fino alla nausea si direbbe che sia così, e qualche volta perfino gli crediamo.
«Caffè, signore?» chiedo.
Lui fa un movimento con gli occhi. Non capisco cosa significhi quel gesto, ma lui risponde con voce educata: «No, grazie. Non posso bere caffè.» Penso che è un bene, perché mi ricordo di colpo che Kathy ha tirato via il filtro. Ma poi lui aggiunge: «Si può avere un'insalata verde, per favore? Senza condimento.»
La pioggia gli sgocciola ancora dal cappello. M'immagino che la gente del governo non gli abbia mai detto di togliersi il cappello in un ristorante, e per qualche ragione ciò mi solletica e mi fa sentire davvero coraggiosa. Questo tipo educato e azzurro non darà fastidio a nessuno e quello stupido di Charlie ha parlato di nuovo a vanvera.
«L'insalata non è molto fresca, signore» replico, a titolo di esperimento, solo per yedere cosa dirà dopo. Ed è la verità... l'insalata è un avanzo di ieri. Ma il tipo risponde come se gli avessi chiesto qualcos'altro.
«Qual è il suo nome?» domanda, con tanta educazione che capisco che è curioso e non sta cercando di attaccare bottone. E come potrebbe, del resto, azzurro com'è e con quelle mani? Comunque, non si sa mai.
«Sally» rispondo. «Sally Gourley.»
«Io sono John» dice lui, e fa di nuovo quel movimento con gli occhi. Di colpo, la cosa mi diverte. «John!» Questo tizio azzurro! E così mi metto a ridere, e me ne pento subito; potrei aver ferito i suoi sentimenti o qualcosa del genere. Come si fa a capirlo?
«Ehi, mi dispiace» mi scuso, e lui si toglie il cappello. Lo fa con molta lentezza, come se fosse un gesto importante e significasse qualcosa, ma tutto quello che c'è sotto il cappello è solo una testa calva e azzurra. Non è affatto strano come non lo sono le mani.
«Non si scusi» risponde John. «Ho un altro nome, naturalmente, ma nella mia lingua.»
«Qual è?» domando, con una faccia di bronzo, perché d'un tratto mi vedo mentre racconto tutto questo a mia sorella Mary Ellen e immagino lei tutta orecchi.
John emette un rumore con la bocca, e io sento la mia che si spalanca per lo stupore, perché quello che pronuncia non è affatto una parola ma uno splendido suono... come il richiamo di un uccello, ma più triste. È solo che non me lo aspettavo, quel suono così bello, proprio qui nel locale di Charlie. Mina sorpresa, venendo fuori da quella testa pelata e azzurra. È tutto qui: sorpresa.
Io non dico nulla. «Ha un significato che può essere tradotto» spiega John, guardandomi. «Significa...» Ma prima che mi possa dire cosa significhi, Charlie esce a passo di carica dalla cucina, seguito da Kathy. Ha ancora il modulo delle corse in una mano, come se fosse stato intento a studiare i risultati, si ferma proprio contro il tavolino e appare rosso in faccia e furibondo. In quel momento vedo che la coppia anziana sta sgattaiolando verso la porta, la giacca stretta addosso e la torta alla crema di cioccolato lasciata a metà. Mi accorgo che non hanno intenzione di pagare il conto, ma prima che li possa fermare Charlie mi afferra per un braccio e stringe con tanta forza che le unghie mi tagliano la pelle.
«Che cosa diavolo credi di fare?» dice, rivolto a me. Non dà neppure un'occhiata a John, ma Kathy non smette di fissarlo e si tiene un pugno premuto contro la bocca.
Libero il braccio e lo massaggio. Una volta ho visto Charlie spingere sua moglie con tanta violenza che lei è caduta, ha battuto la testa e si è dovuta far dare quattro punti. Sono stata io a portarla al pronto soccorso.
«Che cosa diavolo credi di fare?» ripete Charlie.
«Sto servendo il mio tavolo. Vuole un'insalata. Abbondante.» Non mi ricordo se John ha chiesto un'insalata grande o piccola, ma penso che un'ordinazione più costosa farà sentire meglio Charlie. Però, Charlie non vuole sentirsi meglio.
«Fallo uscire di qui» sibila, e continua a non guardare John. «Mi hai sentito, Sally? Fallo uscire! Il governo dice che devo servire drogati e negri, ma non dice che devo servire lui!»
Io guardo John. Si calca il cappello sulla testa calva ed è quasi in piedi, ma non può uscire perché Charlie e io gli blocchiamo la strada. Mi aspetto che John sembri arrabbiato o agitato, ma a parte un leggero irrigidimento dei muscoli della faccia, non vedo alcun cambiamento di espressione. Immagino però che si debba sentire piuttosto male, e d'un tratto sono furibonda con Charlie, che è un bullo e che non ha più sentimenti di un sacco di spazzatura. Apro la bocca per dirgli questo, insieme a un paio di altre cosette che tenevo da parte, quando la porta si spalanca e irrompono quattro uomini, e che sia dannata se non hanno tutti un cappello uguale a quello di Humphrey Bogart in Casablanca. Non appena vede John, il primo dei quattro cambia andatura e si avvicina con passo più lento ma anche più deciso, mettendosi a parlare con John e con Charlie con voce senza inflessione, come un cronista televisivo che stia leggendo le notizie.
Vedo che ora la situazione è sotto il suo controllo, quindi torno alle bottiglie di ketchup. Comunque, sono ancora molto irritata per come Charlie mi ha maltrattata e per il fatto che Kathy si è precipitata così stupidamente in cucina a chiamarlo. È una sciocca e lo è sempre stata.
Charlie è accigliato e annuisce. Quanto più lui si acciglia, tanto più la voce del tipo del governo diventa gentile. Ben presto, l'uomo del governo esibisce un sorriso dolce come una crostata. Charlie sgattaiola in cucina e i quattro uomini si muovono verso la porta con John in mezzo, come se fossero un gruppo di giocatori di football di un liceo. Vicino agli uomini, lui sembra più strano di prima, e noto quanto sia piatta la sua faccia. Quando il gruppetto si trova proprio di fronte al tavolo con le bottiglie di ketchup, John si stacca dagli altri e viene verso di me.
«Mi dispiace, Sally Gourley» dice, e poi aggiunge: «Di rado ho la possibilità di mostrare quanto siamo socievoli a un normale Terrestre. Per me fa così poca differenza.»
Questo mi stende alquanto. La sua voce ha un tono così triste, e poi non avevo mai pensato a me stessa come a una normale Terrestre. Chi lo farebbe? Quindi mi limito a scrollare le spalle e a pulire con lo strofinaccio una bottiglia di ketchup. Poi, però, John fa una cosa strana. Mi sfiora il braccio là dove Charlie lo ha stretto, lo sfiora appena con il palmo di quelle mani. E non sono affatto viscide... sono asciutte e fresche, e io non sussulto o cose del genere. Invece, ricordo quello splendido suono che lui ha emesso quando mi ha detto l'altro nome. Poi lui esce con tre degli uomini e la porta sbatte alle loro spalle su una raffica di pioggia, perché Charlie non ha mai aggiustato il meccanismo di chiusura da quando alcuni bambini lo hanno rotto giocando la scorsa primavera.
Il quarto uomo rimane indietro a interrogarmi: vuole sapere cos'ha detto l'alieno e cosa ho detto io. Gli racconto tutto, ma poi lui ricomincia con le stesse identiche domande, come se la prima volta non mi avesse creduto, e questo mi fa infuriare. Inoltre, ha una voce arrogante e noto come inarca le sopracciglia quando mi sfugge per sbaglio un errore di grammatica. Forse non so cosa significa il movimento dei muscoli di John, ma è sicuro come l'inferno che so interpretare la mossa di quelle sopracciglia. Mi mostro offesa, e ben presto lui se ne va e la porta sbatte alle sue spalle.
Finisco di svuotare le bottiglie di ketchup e di senape e Kathy sistema la macchina del caffè. La radio trasmette musica, senza parole, davvero triste. Kathy e io cominciamo a lavare i tavoli con il disinfettante, e siccome stiamo facendo insieme lo stesso lavoro e non entra nessuno, alla fine le dico: «È buffo.»
«Cosa?» domanda lei.
«Charlie ha chiamato quel tizio "lui" fin dall'inizio. "Non sono obbligato a servirlo" ha detto. Invece io ho pensato a lui come ad una cosa in un primo tempo, almeno finché non ho avuto un nome da usare. Ed è stato Charlie quello che lo ha buttato fuori.»
Kathy dà un colpo al tavolo. «E Charlie ha ragione. Quella cosa mi ha quasi spaventata a morte, venendo qui a quel modo. E in un posto dove si serve da mangiare, per di più.» Sbuffa e spruzza altro disinfettante.
È una stupida. Lo è sempre stata.
«Il National Enquirer» prosegue Kathy «ha spiegato che hanno tutto questo potere di fuoco lassù, su quella grande nave che non è ancora atterrata. Mio marito dice che sono tanto potenti che ci potrebbero ridurre in briciole. Non so perché mai siano venuti qui. Noi non li vogliamo. Non so neppure perché hanno fatto tanta strada per venire.»
«Vogliono creare una differenza» dico, ma Kathy va avanti a tutto spiano, senza ascoltare.
«Il Pentagono li terrà a bada, non importa quali armi abbiano lassù o quanto insistano per visitare le nostre difese; il Pentagono non lascerà impiantare alcuna base sulla Terra. Questo è quello che dice mio marito. Bastardi azzurri.»
«Per favore, vuoi piantarla?» le chiedo.
Lei mi lancia un'occhiataccia e si allontana. Non me ne importa. Tutto questo non significa nulla per me. Soltanto, mentre me ne sto là con il disinfettante in mano, guardando fuori dalle finestre buie e ascoltando la radio, ricordo quel tocco sul braccio, così leggero e fresco. E penso che non sono venuti qui con tante armi da ridurci in briciole. Semplicemente non ci credo. Ma allora, perché sono venuti? Perché fare tutta questa strada da un'altra stella per entrare nel locale di Charlie e ordinare un'insalata verde senza condimento a una comune Terrestre?
Charlie viene fuori con le chiavi per aprire il registratore di cassa e controllare i nastri. Mi ricordo della coppia anziana che non ha pagato e impreco contro me stessa. Solo torta e caffè, ma sarà sempre una detrazione dal mio salario. La radio comincia a trasmettere qualcos'altro, una canzone che non è triste ma neppure vivace. È una canzone d'amore, che parla di un tizio che continua a dare e a dare e viene trattato come polvere. Non mi piace.
«Charlie» chiedo «cosa ti hanno detto quegli uomini del governo?»
Lui solleva gli occhi dai nastri e aggrotta le sopracciglia. «Che te ne importa?»
«Volevo solo saperlo.»
«E magari io non voglio che tu lo sappia» ribatte, con un sorriso cattivo. Il fatto che glielo abbia chiesto lo ha messo di buon umore, il verme. D'un tratto, ricordo quello che ha detto sua moglie quando le hanno messo i punti. "L'unico modo per ottenere qualcosa da Charlie è lasciarsi maltrattare un po' e poi chiedere quando si è a terra. Mi darebbe qualsiasi cosa quando sono a terra. Ma se pensa che stia vincendo io, mi manda a quel paese".
Finisco di pulire senza dire altro. Charlie impreca per l'incasso della serata... so dalle mance che non è molto. Kathy si aggiusta i capelli davanti allo specchio sistemato dietro le frittelle e le torte, e io tiro giù i menù per la colazione. Ma continuo a riflettere per tutto il tempo, e i miei pensieri non mi piacciono.
Charlie chiude a chiave e ce ne andiamo tutti. Fuori ha smesso di piovere ma c'è ancora una morbida nebbia, davvero bella ma troppo fredda. Mi stringo nella giacca di lana e una volta nel parcheggio, dopo che Kathy se n'è andata, dico: «Charlie.»
Lui smette di camminare verso il camioncino. «Sì?»
Mi bagno le labbra, che sono diventate di colpo secche. È come una specie di esperimento, quello che sto per dire. È un esperimento.
«Charlie. Cosa sarebbe successo se quegli uomini del governo non fossero entrati proprio in quel momento e ... il tizio azzurro si fosse rifiutato di uscire? Cosa avresti fatto?»
«Che te ne importa?»
Scrollo le spalle. «Non me ne importa. Sono solo curiosa. È il tuo locale.»
«È dannatamente esatto, è il mio locale!» Lo vedo accigliato nonostante la nebbia. «Lo avrei gonfiato di schiaffi.»
«E poi? Dopo averlo gonfiato di schiaffi, che sarebbe successo se fossero arrivati quegli uomini e avessero piantato un casino?»
«Sarebbe stato un peccato. Ma a quel punto sarebbe stato troppo tardi, ti pare?» Ride, e mi accorgo di come sta vedendo le cose: il tipo azzurro steso sanguinante sul linoleum e Charlie in piedi su di lui, che si pulisce le mani.
Charlie ride ancora e si avvia verso il camioncino, fischiettando. Ha un'andatura un po' baldanzosa. Vede ancora tutta la scena, quasi come se fosse successa davvero. Da sopra la spalla, mi grida: «Hanno un fisico da rammolliti, o da ragazze. Tutte ossa e niente muscoli. Perfino tu devi averlo notato.» La sua voce è allegra. In essa non vi è più traccia di odio o di rabbia o di altro tranne che una strana cordialità. Lo sento che fischietta ancora un po', fino a quando il motore non si accende e lui non schizza fuori dal parcheggio sgommando come un ragazzo.
Apro la mia Chevy. Prima di entrare, però, guardo il cielo; è una cosa proprio stupida perché non posso vedere niente con tutta quella nebbia e quelle nuvole. Niente stelle.
Forse il marito di Kathy ha ragione. Forse vogliono davvero ridurci in briciole. Io non lo credo, ma che diavolo di differenza fa quello che io penso? E tutto d'un tratto sono furiosa con John, furibonda come non lo sono mai stata in vita mia.
Perché è dovuto venire qui, con i suoi richiami per uccelli e la sua educazione? Perché non potevano andare tutti in un altro posto che non fosse questo? Devono esserci tanti altri pianeti dove loro possono andare, fra tutte quelle stelle brillanti che ci sono lassù, dietro le nuvole. Non c'era bisogno che venissero qui, qui dove io ho bisogno di questo lavoro e quindi ho bisogno anche di Charlie. È un bullo, ma io voglio guardarlo e non vedere nient'altro che un bullo. Nient'altro che quello. Questo è tutto quello che voglio vedere in Charlie, negli uomini del governo... solo bulli da mezza tacca, niente di speciale, non uno specchio di qualcosa, non un futuro di alcunché. Solo Charlie, tutto qui. Non vedrò niente altro.
Non lo vedrò.
«Per me fa così poca differenza» dice lui.
Già. Certo.
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