giovedì 24 ottobre 2024

Paola Mordiglia: L'omino di Mojacar


Non so dove l’ho perso, e non so neppure se l’ho perso o me lo hanno rubato.
Dove l’ho smarrito?
In casa, me lo hanno fregato in casa.
Non so, forse qualcuno che non conoscevo, me lo ha preso, in casa, sì, può essere.
Come, ma con che gente vive?
Con la Vale e Paolone, guardi, loro sono proprio tranquilli, lasci stare.
E allora chi cosa?
Senta, facciamo così, ho perso il portafoglio nel corridoio di casa.
Niente di grave, faccio la denuncia e poi vediamo, magari lo ritrovo.

Scriva pure: portafoglio di colore blu con fiorellini – vabbè, tipo fiorellini – contenente scriva, scriva: la mia patente di guida categoria B rilasciata dalla prefettura ecc…, la mia carta di credito bancomat carta si N° ecc…, denaro contante per circa L. 10.000; ancora avevo la tessera Arci, tessera dell’Hiroshima e la tessera dello studente, mi sembra nient’altro a parte tutte quelle cose che non si sanno buttare, scontrini e… no merda, avevo messo nella taschina del portafoglio l’omino di Mojacar che regge l’arcobaleno… no, cazzo, che idiota a tenerlo lì, per non perderlo… Sì, mi scusi, non importa che scriva anche dell’omino, non è una cosa di valore, credo…
Uscendo il maresciallo mi disse di cambiare compagnie, me lo disse con viscidume paterno da carabiniere, e non lo sopportai.
Ma come si permetteva di pensar male dei miei amici? Certo, proprio tutti quelli che passavano da casa non li conoscevo, ma ero a Torino solo da un po’ e che ci fossero facce nuove cui offrire un bicchierino mi faceva piacere. E poi erano gente tranquilla, più o meno li riconosci quelli che ti faranno saltare i cd o la giacca o il salame che hai appeso in cucina da tempo e che aspetti di mangiare una volta, tutti assieme, magari…
Sono ragazzi, un portafoglio non lo fregano a casa di amici. Certo, Giangi non lo si era mai visto prima, ma veniva con Aie, e allora non ci pensi proprio, a mettere via il portafoglio perché Aie porta a casa un amico.
Giangi non se lo era cagato nessuno, quella sera. Era un tipo silenzioso e addirittura mi convinsi fosse timido.
Commentò solo che non pensava di uscire, ma poi Aie lo aveva persuaso, e
Valentina di vista la conosceva, e allora eccolo lì a bersi un bicchiere di vino, intorno al tavolo della nostra cucina, a integrarsi con le cazzate che volavano come grandi concetti, da un bicchiere all’altro, incontrollabili. C’era anche la Nico, che mi era venuta a trovare da Mila no, e c’erano Hector e Cristina, che però si sbaciucchiavano sul divano e solo ogni tanto riemergevano, tutti ammortizzati: dopo che si fa? – chiedevano.

Ma io quella sera ero proprio un cadavere, e anche la Nico non sembrava volesse uscire sopra ogni altra cosa, per cui noi due si decise di stare a casa, a raccontarci arretrati di mezze storie, a commentare e analizzare, a darci ragione fumando e ridendo nel mio letto a una piazza e mezzo.

Prima che gli altri uscissero Valentina mi chiese un po’ di resto della spesa, che non possedevo. Ma lo stesso feci finta di avere un sacco di soldi da prestarle e tirai fuori il portafoglio. Le diedi 15.000 lire, lei stava in piedi davanti a me e io accucciata col portafoglio in mano.
Lo appoggiai lì, sulla panca in corridoio, mentre gli altri uscivano rumorosi e io mi rifugiavo nelle confidenze con la Nico, in camera.

La mattina dopo naturalmente mi sveglio tardi e ho invece una lezione che bisogna arrivare puntuali, e allora – che risveglio di merda – penso, che per coordinarmi mi ci vorrebbe di essere programmata e invece i collant sono tutti bucati, la gonna è sparita, devo fare piano perché la Nico dorme, il lavandino del bagno è sporco di dentifricio e il portafoglio non lo trovo.
Cazzo sarà il portafoglio?
Sveglio anche la Nico che tutta stropicciata mi aiuta a cercarlo alzando un foglio sulla scrivania e urlando: qui non c’è. Ma è davvero troppo tardi e facciamo che lo si cerca dopo– ciao, ciao – è davvero troppo tardi.

Sono passati quattro giorni e il portafoglio non è saltato fuori.
L’abbiamo cercato bene, e così si è fatta pure un po’ di pulizia, che ci voleva, ma del portafoglio nessuna traccia. Ho fatto domande discretissime a chi c’era in casa quella sera, perché poi è sempre imbarazzante chiedere ad amici se per caso ti hanno fregato il portafoglio, ma nessuno ne sapeva niente. Così, dopo quattro giorni, vado a fare la denuncia, e mentre vado e parlo col maresciallo il sospetto mi viene, anche per quell’aria da intenditore che c’aveva lui, mi viene da pensare proprio così: Giangi mi ha fregato il portafoglio, con dentro, nella taschina, l’omino di Mojacar che regge l’arcobaleno.

Io, diciamo, non sono una persona di grande iniziativa, preferisco aspettare che le cose si risolvano da sole e mi piace credere nel destino e in tutte le varianti del fato. Però questa cosa del portafoglio proprio non mi andava giù, più che altro per l’omino di Mojacar e per la carta di credito che, in due mesi, è la seconda volta che chiamo il numero verde e la blocco.

Dopo aver fatto la denuncia, allora, mi sono ritrovata ferma alla stazione dell’autobus sotto casa mia, ferma immobile, e la cosa più sensata sarebbe stata scrostarmi da lì, che non dovevo andare da nessuna parte, tirare fuori le chiavi e salire in casa, e invece il cervello mi pesava di ragionamenti ed essendo che, l’ho detto, non sono abituata ad essere cervellotica, mi godevo l’attimo, come si suol dire.
Al quinto autobus, finalmente, avevo escogitato un piano. Se era stato Giangi a fregarmi il portafoglio il modo migliore per accertarsene era andare a casa sua e verificare. Non sarebbe stato furbo passare attraverso la conoscenza di Aie, che era suo amico e comunque tendeva a difenderlo (complice, dunque), e poi cosa potevano chiedergli Aie, o Valentina, o Hector, che cosa avrebbero potuto dirgli che lui non avrebbe negato, con aria innocente, offesa quasi, da quello che non può neanche accompagnare un amico a casa di sconosciuti senza essere immediatamente accusato di furto.
Mi mancavano le prove, diciamo, e su quest’ultima, illuminante scoperta mi diressi verso casa.
In ascensore pensai a come incontrare Giangi, a dove avrei potuto beccarlo facendo apparire l’incontro una coincidenza, a chi dovevo chiedere dove
Giangi bazzicava, quando usciva, la sera.

Valentina mi disse: i murazzi.
Stasera vado al murazzi, vuoi venire?
E a me non è che i murazzi non piacciano, ma avevo da finire per giovedì quel tormentone di costume per lo spettacolo di beneficenza, e dovevo cucirlo tutto, incollare anche i fiori sintetici, e allora i murazzi per cucire non erano il posto più indicato, si era solo a martedì e…

Qualche volta a Torino si respira aria londinese, aria di mercato londinese. Sarà la nebbia o saranno tutte quelle mezze facce incappucciate nei giacconi, sarà che ci sono fuocherelli di pane e hascish, ai bordi del fiume, e sarà che mi piace crederlo, di essere un po’ a Londra, fatto sta che quell’aria la respiravo, ai murazzi, fino a quando non siamo entrati da Giancarlo.

Giancarlo è l’unico posto che mette ancora a tutto volume Rino Gaetano e poi lo mixa con Hammer; uno dei tanti posti dove si va e tutti si sentono che ci andavano per primi, i torinesi; uno dei locali sul lungo Po, che erano antichi imbarcaderi, e che adesso inghiottiscono gente, birre, musica e baci occasionali.

Il posto dove incontrai Giangi.
Ballava appoggiato alla parete, che è un modo di ballare che solo gli uomini ci riescono.
Era solo, almeno apparentemente.
All’inizio lo notai non perché era Giangi, e perché lo stavo cercando, ma perché aveva le maniche tirate su e le vene delle braccia più belle che avessi mai visto. Sembra assurdo, perché in un posto che è buio, con la musica e un casino di gente, non è che le vene sono una cosa che risalta.
Ma io, come dire, ho un debole per le vene degli uomini. Mi piacciono le braccia con le vene importanti, sono un dettaglio cui faccio caso, e mi è già successo di innamorarmi solo di pezzetti di uomini, e di rimanerne incastrata.

Sfiorai le sue braccia passando attraverso il corridoio di Giancarlo, facevo un giro d’ispezione, perché mi piace andare nei locali e sentirmi una spugna di odori. Sfiorai le sue vene e continuai dritto.
Solo dopo, al ritorno, recuperando la direzione del bancone, collegai le vene al volto di Giangi e pensai: adesso cosa gli dico?

Io, diciamo, non sono una persona che serba rancore, non ne sono capace per una questione di vigliacca coerenza. Penso sempre che se mi mettessi a serbare rancore non avrei più amici, perché di pacchi e di sgradevolezze ne ho fatte parecchi. Ma nei confronti di Giangi non riuscivo a controllarmi, era più che altro il sospetto che fosse stato lui a fregarmi il portafoglio, e l’omino di Mojacar, a mettermi in una posizione di conflitto con la sua faccia, la sua birra e il suo ballare ap poggiato alla parete.
Con le vene del suo braccio, però, non riuscivo a incazzarmi. E la cosa mi faceva incazzare.

Mentre pensavo a cosa avrei potuto dirgli per approcciare, e poi indagare, e infine o svelare, e pensavo a tutto questo appoggiata al bancone, mi sentii toccare i capelli. Giangi, dopo un ciao e una carezza in testa, mi disse cose tipo: come ti va – e – alla fine non sei uscita l’altra sera…
Aveva appoggiato i gomiti al bancone e mi parlava guardandomi in faccia.
Ordinai una birra, giusto per darmi un tono, e risposi cose insensate, sullo spettacolo di beneficenza che dovevo fare e sui fiori sintetici da attaccare al costume. Mi venne fuori un attacco di logorrea che forse, psicanaliticamente, potrebbe definirsi una difesa, e mi misi a raccontargli anche dell’aria londinese dei murazzi, e della musica di Giancarlo.
Me ne rendevo conto che lui non mi ascoltava e che il volume del funky era altissimo e che le sue vene erano ancora più belle, con i gomiti appoggiati al bancone, ma non riuscivo a smettere di parlare.
Del portafoglio, però, non dissi nulla.

Pagai la birra, anche la sua, e ce ne andammo in giro per Torino.
Andammo in Piazza Vittorio, che riscopersi come magnifico parcheggio e non come piazza più grande d’Europa; lungo via Po, che hanno cambiato le luci e sembra più gentile, fino a Piazza Castello, che come al solito non sai da che parte arrivi, quando ci arrivi.
E ci fu un momento in cui le braccia di Giangi mi colsero di sorpresa, stringendomi da dietro, e in quel momento vi appoggiai la testa senza riuscire a voltarmi, senza riuscire a crederci che stavo per baciare quello che, con ogni probabilità, mi aveva fregato il portafoglio.

La mattina scappai da casa sua non appena vidi la tessera dell’Hiroshima per terra, vicino alla lavatrice. Aveva la parte superiore cosparsa di cera, come la mia, e mentre facevo pipì mi chiesi se dovevo prenderla e scappare, o se era meglio chiarire la situazione immediatamente, svegliare Giangi e dirgli: sei una merda, fanculo. In bagno controllai se la tessera era la mia, se era quella dentro al mio portafoglio.
La girai e il nome era stato cancellato con gomma pane, credo, o comunque con una cazzo di gomma che non si riusciva proprio a decifrare cosa ci fosse prima.
Sentii Giangi spegnere la sveglia e brontolare. Sentii che mi chiamava e si dirigeva verso il bagno. Un bagno col gancetto della serratura rotto, naturalmente.
Mi tirai su dalla tazza e gli andai incontro. Non avevo tasche né niente, strinsi la tessera in mano e gli gettai le braccia al collo.
Ciao, buongiorno.
Bacio impastato e via in camera.
Mi vestii e, mentre era ancora in bagno, gridai che dovevo scappare.
Ci sentiamo, disse lui.

A casa feci prove controluce e con succo di limone e tutto quello che sapevo per far apparire il nome sul retro della tessera, ma l’unica cosa che riuscii a individuare fu una a, in corsivo, in mezzo allo spazio riservato alla firma.
Io mi chiamo Arianna.

Mi misi a cucire il vestito per lo spettacolo di beneficenza del giorno dopo, andai alle prove e la giornata passò senza grandi emozioni. Mi sentivo stanca e annuvolata, come fossi stata tutta la notte su una nuvola, invece che tra le braccia di Giangi. Quello stronzo.
Ci sentiamo, aveva detto.

Il giorno dopo feci lo spettacolo e di beneficenza ne avrei avuto bisogno io, che non avevo più una lira e il mio stato di depressione era piuttosto avanzato.
Io, diciamo, non sono una persona che si deprime molto, ma il portafoglio, la faccia del carabiniere, il sospetto, la tessera dell’Hiroshima in bagno e una caduta non elegante durante lo spettacolo contribuivano a farmi sentire vittima, sola e idiota.

Quello stronzo di Giangi non m’aveva neanche chiamato, ed è inutile far finta che la telefonata del giorno dopo sia una stronzata…
La telefonata del giorno dopo ci vuole, un minimo di conforto avrebbe rallentato il mio senso unico verso lo psicodramma.

Valentina, la sera dopo lo spettacolo, mi disse: vado a un concerto a Milano domani.
Vieni?

Era David Bowie, un evento più che un concerto.
E se ne parlava già da un po’, i biglietti erano esauriti e la domanda di
Valentina retorica.
Mi ricordai che la notte con Giangi avevamo ascoltato Starman, e che mi aveva detto qualcosa a proposito del concerto di venerdì, poco prima di addormentarsi.

Il biglietto per il concerto, anche volendo, non avrei potuto pagarlo.
La notte di giovedì dormii malissimo.

I soldi per l’intercity Torino-Milano me li prestò Paolone, che comunque me li doveva dalla bolletta del gas, e con Valentina riuscimmo a cancellare il nome dal pass stampa del Festival del cinema di Bergamo, dove era andata sua madre. Cancellammo il nome con la gomma pane, come avevo immaginato.

All’ingresso del Forum c’era un casino che non ti dico, e gli omini del parcheggio gridavano come ossessi, i giganti della sicurezza contraevano la mascella e le volanti della polizia circondavano il circondabile.
Avrei dovuto passare dall’ingresso degli addetti stampa. Mi ero preparata tutta una messinscena da fotografa di una rivista musicale di Bergamo, e mi ero portata la Polaroid, come potesse servire a darmi credibilità. Con Valentina e altri suoi amici ci saremmo ritrovati davanti ai cessi del pia no terreno.

All’ingresso addetti stampa c’era gente assurda con giacche da giornalisti e un affanno da tachicardici. Cercai di emularli e ansimai un po’ anch’io.

Io, diciamo, non sono una persona che ansima molto, ma quella fu una buona occasione per approfittarne.

Quello della sicurezza mi guardò come per proteggermi e mi disse che la
Polaroid era una macchina ancora valida, se non fosse per lo sviluppo, che
è caro. Io dissi che pagava la redazione di Bergamo e lui mi fece passare.
La poliziotta mi mise le mani nelle tette e mi guardò con una faccia da stronza, ma ormai ero passata e non mi fregava niente della polizia.

Valentina e gli altri li trovai per caso davanti al bar, non al cesso, e ridemmo dieci minuti per la felicità di aver fregato all’ingresso e perché il concerto stava per iniziare e perché l’erba ti fa ridere, quando è buona.

Ci infilammo nella ressa, nell’ammasso di magliette e sudore che formava un coperchio umido sulle teste di tutti. Avevo voglia di vedere da vicino David Bowie, di ascoltare Starman e di non pensare a niente. Spintonavo e difendevo la Polaroid, quando ad un tratto sentii solo un boato e vidi la gente crescere in altezza, come se sotto ai nostri piedi si fosse insinuata un’onda.

Nel casino, nelle luci e nelle mani in alto mi uscì un grido e mi lasciai trasportare in avanti.
Non facevo un movimento e la gente mi portò fin sotto il palco.
David Bowie aveva quella faccia da mantide religiosa e tutto un fascio di nervi che lo teneva in piedi. Sembrava un dannato innamorato di un angelo, sembrava di un altro pianeta ma cantava con voce umana.
Riuscii ad ascoltare l’inizio di Man who sold the world, poi mi sollevarono e mi scaraventarono sotto il palco, giusto il tempo di alzare gli occhi e vedermelo lì, David Bowie, e mi apparve con mani da strega. Poi quelli della sicurezza mi trascinarono via.

Quando mi ritrovai nello spiazzo dietro al palco mi accorsi che la Polaroid aveva sputato fuori un’immagine. Lentamente apparvero le mani di David Bowie e il microfono tra le dita, tutto mosso.
Una foto strana, bella.

Mi misi a piangere.
Non so perché, forse per la violenza con cui, nei concerti, ti sbatacchiano da una parte all’altra. Piangendo mi feci sbattere anche fuori dallo spiazzo dietro al palco, con in mano le mani di David Bowie.

Il resto del concerto lo passai sugli spalti, aspettando di vedere Valentina e gli altri.
Quando fu tutto finito, però, mi avviai da sola verso l’uscita. Avevo le tasche piene di Polaroid sulla gente, e non me ne fregava niente. Ne avevo tenuta una giusto per fare la foto di gruppo con Valentina, che sono quelle cose a cui ci tengo. Ma mentre mi spingevano verso l’uscita lo vidi.
Ne sono sicura, lo vidi chiaramente, l’omino di Mojacar che regge l’arcobaleno. Se ne stava appiccicato ad un orecchio due persone davanti a me.
Poteva essere solo l’orecchio di quello stronzo di Giangi. Sacrificai la foto di gruppo e immortalai l’omino.

Mentre scattavo l’orecchio si girò un po’ e il profilo di Giangi rimase impresso nella Polaroid.

Avevo una prova, finalmente. Arrancai verso l’uscita cercando di raggiungere quel ladro di Giangi.
Se lo erano inghiottito le altre facce e le altre orecchie. Rimasi imbambolata davanti all’uscita per circa mezz’ora, poi vidi Giangi, Valentina e gli altri venire verso di me. Giangi mi baciò e disse che bello vederti qui.
Il suo orecchio, adesso, era nudo ma nella tasca stringevo la foto.

Che si fa, disse Valentina.
Giangi disse che un suo amico aveva la casa libera, a Milano, e si poteva dormire lì. Lo propose a me e a Valentina, agli altri no.

Andammo.
Quella notte non riuscii a dormire con lui, non potevo che guardare il suo orecchio e decisamente non mi seduceva. Mi addormentai abbracciata alla
Polaroid. Valentina abbracciata a me.

La mattina dopo, quando ci svegliammo, Giangi se n’era andato. Il suo amico ci disse che potevamo pure stare, che Giangi era andato a Bologna perché i suoi vivono lì, che aveva detto di salutarci.

Bevemmo un caffè in un bar, Valentina ed io, e approfittai per raccontarle dei miei sospetti e delle prove. Le mostrai la foto che però, a furia di pressarla nella tasca con le mani sudate si era tutta rovinata.
Lei mi disse di lasciar perdere, che in fondo la carta di credito l’avevo bloccata e l’omino di Mojacar non era neppure d’oro.
Pensai avesse ragione, sulla carta di credito.

Poi telefonai a casa, dai miei, per avvertirli che sarei tornata il pomeriggio. Mia madre disse che non mi facevo mai sentire e che il giorno prima aveva telefonato G.B. Possani dalla Banca dicendo che queste cose non avrebbe potuto farle, lui, ma lo stesso aveva controllato se avevano fatto dei movimenti con la mia CartaSì scoperta per i quattro giorni prima della denuncia.

E allora, mamma, li hanno fatti ’sti movimenti?

Allora li avevano fatti eccome.

Sul conto avevo 500.000 lire e adesso ero sotto di settecento. Certo che li
hanno fatti, Arianna, solo tu puoi lasciare la carta scoperta quattro giorni, disse mia madre, incoraggiante. Vidi Valentina salutarmi dal binario, mentre il treno delle 3.10 mi portava verso Bologna.

A Bologna non ci tornavo più da qualche mese, da quando ero andata alla discussione della tesi di Maria.
Con Maria, all’Università, abbiamo sempre fatto di tutto per divertirsi, ma alla fine non eravamo convinte che fosse come dicevano, Bologna.

Il mercato della Montagnola stava smontando i banchetti, quando arrivai.
Feci in tempo ancora a comprare un foulard che non metterò mai, ma che –
.000 lire, insomma, cosa faccio, non lo compro? – e avevo ancora girovagato cinque minuti tra tossici e fricchettoni, che non sai mai, quando li vedi lì, ai bordi del parco, tutti ammassati e con le mani invisibili, e con un’aria da re decaduti, non so mai, io, quando vedo i tossici, se sto dalla loro parte, o completamente da un’altra.

Non sai mai, quando passi in Via Zamboni e suonano i bonghi e la Piazza è piena di simil punk, colonie del sud, ragazze inanellate, finti presi male, politicanti, perdi tempo: studenti insomma, se hai voglia di salutarli o di tirare dritto. E non sapevo mai, io, a Bologna, dentro alle mura di Bologna, se li leggevo davvero tutti quei cartelli multietnici, solidali, consolidali, strasolidali, se ero solidale sul serio con quelli che si abbruttivano sui muri del teatro comunale, con chi si inventava riunioni straordinarie nella biblioteca occupata, e poi ripeteva tutti il tempo: cioè, hai capito?
E io, cioè, non capivo mai, e non so se gli altri invece erano particolarmente perspicaci, per questo li guardavo, tutti pronti a dire la loro, sempre così convinti di non dire cazzate, sempre così rassicurati da una storia che era bello ascoltarla, era proprio commovente, e li vedevo e non mi sembravano perspicaci, ma doveva essere bello, comun que, coccolare quella storia, tenerla tra le braccia, pensavo, guardandoli, proteggerla tra le pareti di una biblioteca occupata, nelle riunioni del collettivo, nelle parole che non dicono niente e, non sapevo mai, andandomene, se ne valeva davvero la pena di lottare perché una storia non ti lasci da solo, solo come il più solo, a gridare…

Quella testa di cazzo, stronzo bastardo figlio di una troia ladro idiota di
Giangi lo avrei cercato anche dentro alle colonne dei portici…
Quell'enorme testa di cazzo di Giangi, porco lui, non vedevo l’ora di vedermelo davanti, quel bastardo maledetto porco, e dirgli: ridammi le mie settecentomila, cretino, e ridammi il mio portafoglio, testa di cazzo microcefalo, ridammi il mio omino di Mojacar e ridammi anche i soldi della birra che ti ho offerto da Giancarlo, sfigato di un banfo, ridammi tutto o ti spacco la faccia, hai capito?
Mi immaginavo tutta una scena in tecknicolor in cui entravo in un bar e i nostri sguardi si incrociavano e lui tremava e io mi avvicinavo e lui leggeva l’odio nei miei occhi e io allora, con una classe e una freddezza incredibili, gli riferivo quanto sopra.

Il film finì davanti al Piccolo Bar, in Piazza Verdi.

Mi prese, davanti al Piccolo Bar, una timidezza assurda. Stavo davanti alla porta e non riuscivo a entrare. Con me, fortunatamente, c’erano due cani che annusavano, e quelli ci sono sempre, e annusano sempre, e poi c’era una bicicletta senza catena.
Mi prese una timidezza da freezer. Rimasi lì davanti alla porta guardando passare gente e motorini, anche qualche macchina, come stessi aspettando qualcuno.
Al Piccolo Bar ti succedono, queste cose. Ti può succedere che ti vinca un’inadeguatezza da atmosfera, una cosa come non essere abbastanza dentro alle facce appoggiate a quei tavolini, come non saper cosa dire, al banco, cosa prendere, alle cinque di pomeriggio, senza che il barista, o uno qualunque degli habitué del Piccolo, ti lanci un’occhiata di disapprovazione.
Sono cose che poi uno se ne frega, se ci si abitua. Demetrio, per esempio, se ne fregava, avvinghiato ad un bicchierino di bianco, tutto sorridente e chiacchierone, tutto dentro al Piccolo Bar. Lo raggiunsi abbandonando la bicicletta senza catena al proprio destino, lo salutai come i cani che mi avevano seguito dentro, tutta festosa, perché era tempo che non lo vedevo.

Con Demetrio, poi, siamo stati fino alla chiusura, al Piccolo Bar.
Ad un certo punto, pensate, ci hanno cacciato fuori. Ci siamo ritrovati con il bicchiere in mano, seduti in piazza Verdi, mentre una luce che era molto più di una carezza si inghiottiva i portici, e anche un po’ di torri.

Non sapevo dove dormire, a Bologna.
Maria non abitava più lì e Demetrio era ospite da due o tre anni in una casa che: Capisci? siamo già una decina. Rimandammo il problema a dopo il
Casalone, un posto che è proprio un casalone fuori porta San Donato, e ci andammo in autobus, come sempre, con un pezzo di pizza in mano, come sempre, la paranoia dei controllori e una finta noia di andare ancora negli stessi posti, come sempre.

I vincitori

Suona un gruppo di Torino, al Casalone.
Di Torino? Di Torino. Ma pensa…

Andare in giro con Demetrio, a Bologna, è una delle cose più rilassanti che ti possano capitare.
Non c’eravamo raccontati niente, di tutto quel tempo che: chissà dove eri finito… ma al Piccolo, in Piazza Verdi, sull’autobus, e scesi dall’autobus, si rideva e basta, con Demetrio. Si rideva tanto che quasi mi dimenticavo cos’ero venuta a fare a Bologna.

Cosa sei venuta a fare, Arianna, a Bologna?

A sentire questo gruppo di Torino, risposi.

Io, diciamo, sono una che di musica, soprattutto di questa musica di adesso, non ci capisco niente. Confondo i nomi dei gruppi e mi sembra sempre che spacchino bottiglie, invece di suonare.
Ma con Demetrio feci quella che se ne intendeva e rimasi almeno un quarto d’ora a tentare di ballare e ad assumere una faccia abbastanza adatta alla situazione del Casalone. Una bella situazione, perché il concerto piaceva e tutti sembravano addirittura sorridere, e applaudire. Demetrio aveva incontrato altra gente e io mi ero persa in ricordi che si inabissavano nel melodrammatico. Loro, quelli che suonavano, quelli di Torino, continuavano a spaccare bottiglie e a dire che facevano ancora un pezzo, e io, fingendo coinvolgimento, pensavo a quando ero sulle nuvole, con Giangi.
Non riuscivo neanche più a incazzarmi, né a indignarmi o a sorprendermi, di essere finita al Casalone di Bologna. Mi sentivo sola, senza soldi e senza un posto dove andare a dormire. E non avevo neppure avvertito i miei.

Giangi salì sul palco alle quattro e mezzo del mattino, dicendo che il gruppo si spostava vicino a Firenze, in una discoteca. Disse che c’era un after hour, a Firenze, e sentii voci vicino a me dire che era una figata, questo after hour.

Demetrio dormiva appoggiato alle mie ginocchia e io dormivo appoggiata alla schiena di uno che era appoggiato a non so più cosa.
Infatti, così, da appoggiata, credevo di essermela sognata, questa cosa di
Giangi che parlava di after hour, vicino a Firenze.

Quello appoggiato a non so più cosa, invece, si alzò di scatto e disse che bisognava trovare delle pasticche, per questo after hour, e io, dopo aver registrato anche questa parte di sogno, svegliai Demetrio e lo trascinai verso la fermata dell’autobus.

A quell’ora, ormai, passava quello del mattino. Giangi non mi aveva visto e io non volevo vederlo. Mai più.
Stavo cedendo, l’omino di Mojacar si stava allontanando molto più in là, di
Mojacar. Me ne sarei tornata a Torino e avrei denunciato Giangi.
Ecco fatto.
Lo dissi a Demetrio e lui rispose, ignaro e mezzo addormentato: perché non andiamo a Firenze, con questo tuo amico? Questo mio amico andava a impasticcarsi in una discoteca, con il mio portafoglio, i miei soldi e il mio omino di Mojacar, e quell’altro mio amico, Demetrio, voleva seguirlo.
Begli amici, pensai.
Mi infilai le mani in tasca e sentii la Polaroid lisciarmi le dita, fu allora che decisi di salire sulla macchina che aveva accostato alla fermata dell’autobus. Una stupida Uno targata Torino.

Il viaggio fino a Firenze fu un incubo, in macchina c’erano tre di quelli che suonavano al Casalone e un amico di Demetrio. In sei in quella stupida Uno si stava scomodi e – strano che non esplodiamo – pensavo io, così appiccicati e con musica tecno che vibra sui finestrini.
Questi del gruppo che avevano suonato fino a cinque minuti fa “legalizziamo l’erba”, adesso rinvigorivano con trilli e sirene e altri effetti underground. Credevo di morire.
La mano mi era rimasta incastrata nella tasca e così, per farmi coraggio, palpavo la Polaroid.

L’after hour era iniziato da mez’ora, quando arrivammo. Non ne avevo mai fatto uno, ma la cosa non era poi così determinante.
L’unica mia preoccupazione era ritrovare Giangi e farmi ridare almeno la patente, così avrei potuto guidare, al ritorno, senza rischiare di schiantarmi come avevo rischiato fino a quel momento, in sei, su una stupida Uno.

Un after hour non l’avevo mai fatto, e fu determinante. Per entrare “a gratis” lessi il nome di una che “era in lista” come mi suggerì il bassista degli Assor Band, il gruppo di Torino.
Come misi piede nel rimbombo della musica e poi un po’ più in là, sulla pedana dove si ballava, mi resi conto che la gonna lunga e il maglione traforato che indossavo non erano esattamente un “look tendenza”.
C’erano dei tipi in tuta Adidas e delle tipe in guêpière, dei capelli fosforescenti e delle strafighe in plastica… C’erano omosessuali, o forse no, con piume rosa e spolverini arancioni, e c’erano lesbiche, ma forse no, pitturate ovunque, e vestite da spose…
C’erano sputafuoco e robot di cartapesta e c’erano ragazzini sotto cappelli con la scritta “Protect me from what I want” e ragazzine dentro magliette con fumetti giapponesi e tutti questi, che c’erano, e si notavano, ballavano con le mani in alto, le mani che regalavano grappoli d’aria, e portavano occhiali da sole, come per proteggersi.

Demetrio lo persi immediatamente, quelli degli Assor Band fecero in modo di perdermi immediatamente.
Provai a ballare, ma mi sentivo una dannata nel girone sbagliato.
Provai a sorridere, ma non c’entrava proprio niente, sorridere.
Provai gli occhiali da sole, e non mi sentii protetta, ma cieca, così cieca da non veder arrivare Giangi, a due centimetri da me, che con un bacio mi mise in bocca una pasticca. Ballai tutta la notte con Giangi e Demetrio e gli Assor Band e con occhiali, senza occhiali, con le luci, le voci e le ragazze immagine, le tute Adidas, la plastica e un sacco di sorrisi.
Non feci altro che sorridere a quello stronzo di Giangi che mi assisteva anche nei momenti di stanchezza, quando cadere è scivolare su panna montata e quando stringere i denti smette di essere un modo di dire.
Quando uscimmo mi sorpresi che esistesse ancora la luce e che Firenze fossero i campi arancioni che avevo sempre immaginato.
Uscii e respirai, in silenzio, abbandonata alle braccia di Giangi.

All’autogrill sembravamo dei serial killer in astinenza da cappuccini.
Non c’era uno senza occhiali scuri e senza la mascella contratta. Non c’era uno che non comprasse sigarette e non c’era uno che avesse voglia di parlare, prima di bere il cappuccino.
Sembrava avessimo appena massacrato la notte, o torturato il giorno, e non il contrario.
Quando fu il momento di pagare il cappuccino dissi a Giangi: ridammi il portafoglio, che non ho più una lira e mi sono veramente rotta i coglioni, di questa storia.

Io, diciamo, non sono una che dice le cose in faccia, di fatto mi ero consumata le energie e mi ero macinata chilometri e avevo anche fatto il viaggio con la Assor Band e avevo pianto al concerto di Bowie ed ero caduta nello spettacolo di beneficenza e avevo ballato credendo di volare in cielo e non in discoteca e avevo persino fatto l’amore con uno che mi aveva fregato il portafoglio, pur di recuperare l’omino di Mojacar… ma i soldi per il cappuccino non ce li avevo e Giangi non doveva dirlo: la benzina però si divide, ok ragazzi?

Non doveva dirlo: c’hai mica due mila per un gratta e vinci…? e invece diceva tutto, candido, se ne fregava proprio, anche della mia storia del portafoglio, mi trattava come fossi pazza.
Mi disse: guarda che se non hai i soldi per la benzina basta dirlo…
E mi disse anche, un attimo dopo: posso venire da te ’sta notte, che sono davvero a pezzi…

Allora, solo allora, mi resi conto che sarebbe stata una pazzia continuare a cercare delle prove mentre questo stronzo di Giangi si tirava su le maniche della camicia e diceva: fammi stare da te, ’sta notte…

Quando arrivammo a Torino la nebbia si masticava le ultime bave di un tramonto Fiat e le strade, essendo domenica, ospitavano solo senegalesi depressi e qualche vecchio col cappello.
Quelli della Assor Band ci accompagnarono a casa mia, e Giangi crollò sul mio letto vestito, sussurrandomi: non lasciarmi solo… dai…

La mattina dopo all’aeroporto c’era un sacco di gente che cercava il proprio volo sui tabelloni luminosi, c’erano anche un mucchio di belle hostess che sorridevano e tanti pavimenti bianchi su cui scivolavano carrelli carichi di valigie.

Con la carta di credito di Giangi pagai il biglietto, poi andai al check in e infine al bar, dove feci colazione con cappuccino e brioche.
Sull’aereo per Mojacar frugai un po’ meglio nel portafoglio, perché fino a quel momento non mi ero sentita completamente sicura, e nella taschina, quella più piccola, trovai l’omino che regge l’arcobaleno, l’irraggiungibile arcobaleno di Mojacar. 

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