C’era una volta un allenatore di cavalli da corsa e un fantino che non andavano d’accordo. Il terzo, tra i due litiganti, era un allibratore di dubbia fama, e i guai sorsero per il cavallo Ectis, che era dato favorito nella Royal Hunt Cup. Fantino e allenatore erano visti con diffidenza; vivevano sull’orlo del licenziamento, e non potevano permettersi di rischiare.
Nocciolo della discussione era se il cavallo dovesse essere lasciato accuratamente al palo o, come il fantino proponeva, se si dovessero eliminare tutti i rischi dandogli una piccola dose di una certa droga prima della corsa. I due uomini prevedevano delle spiacevoli eventualità; perché se il cavallo veniva esonerato, il fantino si sarebbe preso la colpa, e se i giudici di gara pensavano che l’animale fosse stato drogato e ne fosse sorta un’inchiesta, l’allenatore sarebbe stato sbattuto fuori. Alla fine l’allenatore l’ebbe vinta. Si sarebbe scoperto alla barriera che Ectis era in cattiva forma. L’allibratore, che agiva per entrambi, prendeva continue scommesse sul cavallo, che da primo favorito divenne secondo favorito, e poi da secondo favorito a terzo: da lì scivolò nella categoria 100 a G.
— Non capisco — disse l’allenatore al proprietario, alla vigilia della corsa. — Il cavallo non è mai stato meglio, signor Braid.
Il signor Braid tirò boccate pensose dal lungo sigaro e i suoi occhi scuri si puntarono sul piccolo allenatore rugoso. Era inesperto dell’ambiente, in Inghilterra, almeno; era un facilone, molto ricco, molto disponibile. Non aveva amici nelle corse, e gli esperti d’ippica guardavano con curiosità la snella figura dai capelli scuri un po’ brizzolati, la lunga faccia olivastra e, senza compatirlo, esprimevano rammarico su come quel gonzo danaroso fosse caduto nelle mani di Lingford, l’allenatore, e del suo spregiudicato compare, Joe Brille, il fantino. Il signor Anthony Braid, invece, non si compativa. Aveva una bella casetta ad Ascot dove abitava da solo anche durante la settimana di corse, ed era soddisfatto della propria solitudine. Lo si vedeva in vari circoli, appartato a fumare il suo lungo sigaro, con l’aria un po’ assente. Scommetteva di rado, ma quando lo faceva le sue puntate erano misere, non contrastava mai i suggerimenti dell’allenatore, non chiedeva notizie del fantino. Si aveva l’impressione che le corse lo annoiassero.
— È possibile — cantilenò quando l’allenatore s’interruppe — che gli allibratori pensino a qualcos’altro?
— Esatto... pensano che Denford Boy sia un colpo sicuro.
Lingford si rammaricava spesso di non poter portare Ectis alla vittoria: avrebbe potuto guadagnarci una fortuna. Invece doveva una cospicua somma all’allibratore che prendeva scommesse sul cavallo, e ciò significava che una grossa fetta delle duemila sterline era persa. Un’ora prima della Royal Hunt Cup, Anthony Braid prese da parte l’allenatore.
— Il mio cavallo adesso è quotato un po’ meno — disse.
— Sì, signore... qualcuno ci scommette su, in tutto il paese.
Era un po’ sulle spine, perché quella mattina l’allibratore più interessato
lo aveva accusato di condotta disonesta.
— Sì — disse Tony Braid con la sua bella voce profonda. — Io scommetto su Ectis in tutto il paese! Ho la possibilità di vincere trentamila sterline.
— Oh, davvero? — L’allenatore fu sollevato. Lui pensava di poter essere considerato un complice di Brille, ma nello stesso tempo temeva che il fantino lo ingannasse. — Bene, avrete una buona corsa per il vostro denaro, dice Brille...
— Quel che dice Brille non m’interessa — rispose il padrone, gentilmente. — Lui non guida il cavallo... ho portato qui un fantino dalla Francia. E, signor Lingford, ho cambiato allenatore. Ho consegnato personalmente il cavallo al signor Sandford mezz’ora fa, e se voi vi avvicinate a Ectis vi spedirò davanti ai giudici di gara. Posso darvi un consiglio? L’esterrefatto allenatore non spiccicò parola.
— Il mio consiglio — disse Anthony Braid — è duplice. Uno: andate nel recinto degli allibratori e scommettete su Ectis tanto da vincere una somma che vi sistemi per il resto della vita, perché penso che non allenerete più cavalli; due: non tentate mai di imbrogliare uno che si è laureato alla Borsa di Johannesburg. Arrivederci!
Ectis vinse di tre lunghezze, e nel settore malfamato del pubblico delle corse il signor Anthony Braid si guadagnò un nuovo appellativo. Dopo essere stato “l’eccentrico” e “il gonzo”, ora divenne “il Raffa”, diminutivo di arraffone. E il nome gli rimase. Gli fu rinfacciato un giorno nel suo ufficio londinese, quando intrappolò Aaron Trosky della Trosky Limited per molto più di cinquantamila sterline. È vero che il signor Trosky, nella sua purezza di cuore, aveva tentato di intrappolare il signor Anthony Braid per una cifra superiore su una questione relativa ai diritti di estrazione mineraria, ma questo non contava.
— Non sei migliore di un truffatore — gemette l’agitato Aaron. — Per questo ti chiamano il Raffa, e questo sei!
— Chiudi la porta, uscendo — rispose Anthony.
Niente affatto scoraggiato dall’esperienza del signor Trosky, un certo Felix Fenervy gli propose un affare di platino. Avrebbe dovuto essere più furbo. Anthony esaminò le mappe, lesse i vaghi rapporti degli ingegneri e invitò il signor Fenervy a pranzo. Anche Anthony aveva da proporre un affare di platino: una striscia di territorio nella Rhodesia settentrionale.
Perché, propose il gentile Tony, non uniamo le due proprietà sotto il nome di Consolidated Platinum Trust, e prendiamo tutti gli utili dell’attività?
L’idea esaltò Fenervy. L’indomani mattina pagò alla sua vittima ventitremila sterline come deposito, ed ebbe l’impressione di arricchirsi.
Questo era Anthony Braid, la cui ricchezza era nota solo al suo banchiere, fino a quella mattina in cui andò a far visita a un uomo che gli chiuse la porta in faccia, perché era irritato con lui, nonostante lo trovasse simpatico. Se Tony Braid trovasse a sua volta simpatico lord Frensham è irrilevante: i suoi affetti erano tanto concentrati su un altro membro della famiglia che la diffidenza di lord Frensham e l’odio di Julian Reef non erano tenuti in nessun conto da lui. — Il signor Anthony Braid, milord —
disse il maggiordomo.
Lord Frensham si accomodò nella poltrona davanti alla scrivania, si passò nervosamente le dita tra i folti capelli grigi e corrugò la fronte.
— Oh! — borbottò. Guardò l’uomo, e poi con gesto impaziente della mano: — Va bene, fallo passare, Charles!
Spalle quadrate, trascurato nel vestire, in quel momento non sbarbato, lineamenti marcati, manone, voce rude, modi bruschi: quello era l’ottavo conte di Frensham. Per ostinazione e lealtà, era entrato nel mondo della City con lo scopo di ricostituire un patrimonio familiare ormai irrecuperabile, e il suo carattere semplice e simpatico lottava di continuo con la spietatezza che le circostanze richiedevano.
Quando Charles se ne fu andato, aprì un cassetto della scrivania e tirò fuori un fascicolo gonfio di documenti, lo aprì e girò un foglio dopo l’altro.
Ma la sua mente non pensava agli affari del Lulanga Oil Syndicate: stava rimuginando il tipo di risposta definitiva e sferzante che avrebbe dato tra pochi minuti.
— Il signor Anthony Braid, milord.
L’uomo che entrò nella biblioteca era la dimostrazione che un buon sarto e un attento maggiordomo servivano molto a dare un ottimo aspetto. La sua struttura sparuta dava l’illusione dell’altezza. La giacca nera era di ottimo taglio; il panciotto grigio aveva bottoni di onice; i pantaloni a righe avevano una piega perfetta. Il quarantenne Braid era dritto come un fuso. I capelli quasi neri accentuavano il colorito olivastro di un volto lungo ma non sgradevole. Gli occhi erano scuri e impenetrabili. Si fermò, fissando il suo ospite, e non parlò finché non furono soli.
— Ebbene? — lo provocò Frensham. — Siediti, siediti, Braid. O non vuoi sciuparti l’abito?
Il signor Braid posò cappello, guanti e bastone con cura meticolosa, e prima di sedersi si aggiustò i pantaloni alle ginocchia. — Una bella mattina
— disse. Aveva la voce armoniosamente profonda e un sorriso disarmante.
— Mi auguro che tu stia bene, Frensham... e Ursula?
Lord Frensham non era in vena di parlare né del tempo né della figlia. —
Ho avuto la tua lettera — disse burbero — e a dirti la verità mi è parsa piuttosto una... una...
— Impertinenza — disse il signor Braid, con occhi lievemente ridenti.
— Esattamente — confermò l’altro irritato. — Se non peggio. In sostanza mi dici che Julian Reef, mio nipote, ma anche condirettore,
“manovra” le azioni Lulanga Oil, cioè che sta facendo del suo meglio per rovinarmi. Francamente, Braid, mi ha sorpreso che tu abbia messo per iscritto un’accusa così mostruosa. Non mostrerò la tua lettera a Reef, altrimenti...
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