L’uomo dai capelli biondi si chiama Ruiz. Tre settimane prima si chiamava Porta e prima ancora Basso, Rosas, DeLongo… nessuno di questi nomi è il suo, tutti gli si adattano. Nel suo lavoro i nomi contano poco. Ciò che conta è la prontezza della mente, l’acutezza dello sguardo, la velocità delle mani. Adesso si trova nel parcheggio sotterraneo di un palazzo del centro, chino sul motore di una 131 col cofano aperto. Indossa una tuta da meccanico con il nome di una autofficina sulla schiena. Ogni tanto pesca un attrezzo nella cassetta metallica accanto ai suoi piedi. Immerso nel suo lavoro, l’uomo dai capelli biondi sembra ignorare il via vai intorno a sé, del resto assai ridotto a quell’ora. Quando vede spuntare dall’ascensore il volto dell’uomo che sta attendendo, non ha reazioni. Si lascia soppesare da quello sguardo miope, che non nasconde la paura. Ignora i movimenti dell’altro che, dopo aver scrutato tutto il parcheggio fin negli angoli più bui, si sta dirigendo a passo svelto verso una BMW nera, parcheggiata a poca distanza dalla 131.
L’altro gli passa accanto, gli lancia un’occhiata sospettosa, si alza il bavero dell’impermeabile. L’uomo dai capelli biondi si tira su, appoggia il cacciavite che ha in mano e si massaggia le reni con una smorfia di sofferenza. L’altro è accanto alla BMW, si fruga in tasca alla ricerca delle chiavi. L’uomo dai capelli biondi si china sulla cassetta degli attrezzi, si rialza, pronuncia il nome dell’altro.
Per un istante la scena assume l’immobilità di una foto. La luce ineguale del sotterraneo, due sconosciuti che si fissano, tra loro una pistola che termina in un lungo silenziatore.
Brandendo l’arma a due mani, l’uomo dai capelli biondi spara tre volte. L’altro si abbatte contro l’auto ormai inutile, schizzandola di sangue. Un “no” gli sale faticosamente alle labbra, mentre guarda avanzare il suo assassino. Da un metro di distanza, il killer spara altri due colpi, mirando alla testa.
Giù nei lunghi corridoi sotterranei del Forte, dove l’unica luce è quella del neon, tutti lo conoscevano come “l’amanuense”. Un soprannome d’altri tempi, dovuto ad un colonnello, cultore di storia medievale, che si era prodotto in grandi elogi per “quegli oscuri, infaticabili amanuensi al la voro nelle cantine”. I nomignoli sono duri a morire. Così da quella volta, per tutti, gli uomini dell’Ufficio Trascrizioni erano divenuti “gli amanuensi”. Silenziosi e raccolti come gli antichi monaci, il loro compito consisteva nell’ascoltare e trascrivere i nastri registrati dal Servizio
Intercettazioni. Provenienti dalla Centrale Telecomunicazioni e dai tavoli d’ascolto predisposti un po’ dovunque, decine di nastri nelle lo ro scatole a prova di fuoco raggiungevano, ogni giorno, gli uffici degli amanuensi. Appesi alle cuffie audio, dei loro registratori come ad un cordone ombelicale, essi trascrivevano con la medesima cura lunghi dialoghi pieni di banalità, telefonate nervosamente allusive, incontri sessuali di ogni tipo, ricatti, più o meno velati, minacce di morte, frammenti di intrighi torbidi e complessi. Uomini e donne, senza volto e senza nome, rivelavano a quelle orecchie attente i loro lati più oscuri, i loro segreti più intimi. Tutto questo materiale, una volta smistato e debitamente protocollato, finiva sui tavoli degli analisti che seguivano le operazioni in corso. Alla fine, sprofondava per sempre nei capaci e sempre avidi archivi, ancora più giù, nelle viscere del Forte.
Lentamente, il tempo e la fatica avevano avuto ragione dei vecchi dell’ufficio. I più in pensione, a rivangare ricordi vincolati dal segreto, morti e dimenticati gli altri. Le nuove leve giunte a rimpiazzarli erano giovani con la laurea, che parlavano di tennis e di carriera mentre si sfregavano gli occhi arrossati per le troppe ore davanti ai videoterminali.
Lui era l’ultimo dei vecchi amanuensi. Un separatista altoatesino lo aveva ridotto in fin di vita durante una delle sue prime “azioni coperte” come agente operativo. Finito come agente sul campo, grazie alla benevolenza di un superiore era arrivato all’Ufficio Trascrizioni. Anno dopo anno, tenacemente, si era dedicato al proprio lavoro con crescente abilità. La sua grafia ordinata e regolare aveva riempito centinaia e centinaia di pagine in cui ogni parola, ogni sfumatura del dialogo acquistava il suo esatto significato. Ormai prossimo alla pensione, continuava a svolgere il suo compito con la stessa dedizione che, una volta varcati i cancelli del Forte, riversava interamente sull’unica donna della sua vita: sua moglie Angela.
Fin dall’inizio, quel giorno fu diverso dagli altri. La notte precedente, mentre giaceva sveglio accanto alla moglie, l’amanuense si era sorpreso a riflettere sul destino di tutte quelle persone che conosceva solo attraverso le loro voci. Persone spiate in continuazione, forse ricattate, oppure finite in galera. Qualcuno, di certo, eliminato senza pietà e sen za clamore. Stranamente, nulla del genere lo aveva mai sfiorato prima di allora. Anche in ufficio, mentre ascoltava e trascriveva con l’attenzione di sempre, una parte della sua mente continuava a rimuginare quel pensiero, rincorrendo congetture di ogni sorta. Dovette arrivare quasi alla fine di quel nastro (Operazione: BRAVO FORTY, Soggetto: MERLINO, Agente: K21, Rif. n. 56728-33-071), prima di accorgersi che qualcosa lo aveva colpito. Una frase, una parola, forse un nome? Riavvolse il nastro, lo riascoltò. Ecco il punto. Quella voce… possibile? C’era un rumore di fondo (una radio o un televisore acceso) che disturbava. Riavvolse un’altra volta il nastro, lo risentì con attenzione, controllò anche la data di registrazione. No, no, non poteva essere. Quando uscì, quella sera, era certo di essersi sbagliato.
Il mattino dopo, riascoltando quel nastro per l’ennesima volta, ne fu ancor più sicuro. Si diede quindi con più calma all’ascolto degli altri nastri dalla stessa fonte, pensando, dal loro numero e contenuto, che doveva essere una sorveglianza totale, con microspie ovunque in casa ed in ufficio, 24 ore su 24. Alla sera, portò Angela in pizzeria, poi andarono al cinema.
Rientrati a casa, fecero l’amore con tenerezza. Lunedì mattina uno degli ultimi nastri si aprì su una serie di fruscii, ronzii ed altri rumori elettronici. Dopo vari minuti, il tonfo di una porta aperta e richiusa, seguito dal suono di due voci. Tintinnìo di bicchieri, risate. Poi sussurri, infine… questa volta, non ebbe alcun bisogno di riascoltare il nastro. Prima di arrivare a una decisione, gli occorsero quattro giorni. Il sabato, mentre Angela era a casa della sorella, mise a punto le linee del suo piano. Fu sorpreso, nel ritornare dopo tanto tempo in azione, di sentirsi così a suo agio. Scavando nell’enorme quantità di informazioni sepolte nella sua memoria, riportò alla luce tutto quello che si inseriva nel suo disegno. Approfittando dell’assenza di un collega, poté avere accesso ad un’altra serie di registrazioni che gli rivelarono varie cose, tra cui l’identità del sorvegliato. Alcuni incontri (per certe cose, meglio evitare i telefoni) con un ex collega da poco in pensione, gli fornirono ulteriori riscontri. Da ultimo, riscosse un credito con un amico che stava giù agli Archivi, ottenendo in visione un fascicolo riservato che gli diede gli ultimi tasselli del mosaico che si apprestava a comporre. Il pensiero dei rischi che stava per correre non lo fermò neppure per un attimo.
Nel vasto Ufficio lussuosamente arredato, la tensione era quasi al massimo.
L’uomo disciplinatamente in piedi davanti alla scrivania si stava chiedendo se il culmine della propria brillante carriera gli avrebbe permesso di vendicarsi dell’umiliazione che stava subendo.
«Dunque è stato lei, a dare quell’ordine!» esclamò l’altro uomo, seduto alla scrivania.
«Lei era all’estero, generale, e in sua assenza sono io il responsabile della Divisione Z. La gravità del problema mi è sembrata tale da richiedere una soluzione tempestiva e – tossicchiò, schiarendosi la gola – estrema, per così dire.»
«Sa benissimo che questo genere di decisioni “estreme”, come le chiama lei, non rientrano nei suoi poteri!»
«Mi permetto nuovamente di farle notare, generale, che l’analisi delle informazioni in nostro possesso non lasciava spazio per…» Il generale si alzò di scatto, protendendosi in avanti. Acceso in volto, urlò cose irripetibili, prima di chiarire al suo subordinato le possibili conseguenze dell’ordine emanato. Rientrato nel suo ufficio, un po’ meno lussuoso, il colonnello trascorse un’ora a riflettere sulle mosse da compiere.
«Le do tre giorni per sistemare questa faccenda, altrimenti voglio le sue dimissioni.» Maledetto bastardo! Ben deciso a non compromettere la propria carriera, si attaccò al telefono con piglio aggressivo. La prima chiamata fu per l’analista che aveva seguito l’operazione BRAVO-FORTY. Ne seguirono altre, sempre con il tono di chi non ammette repliche. L’ultima fu per l’Archivio Supporti Magnetici. Mentre ascoltava la voce imbarazzata all’altro capo del filo, la sua espressione si faceva man mano più attenta.
Dopo aver riattaccato, compose quasi subito un altro numero sulla linea esterna riservata.
È un semplice foglio di bloc-notes, frettolosamente vergato a mano. Poche righe, l’epitaffio per un fallimento.
Nella quiete del suo appartamento, turbata solo di tanto in tanto dagli echi del traffico giù in strada, l’amanuense prende da un cassetto un ritaglio di giornale:
UN DELITTO CON MOLTI MANDANTI
“Procedono nel riserbo più assoluto le indagini sull’omicidio di Stefano Bauer, il giornalista di 48 anni ucciso, la sera del 9 aprile, nel parcheggio sotto la sua abitazione. Le modalità del delitto sembrano indicare l’opera di un killer professionista. Bauer, già inquisito in passato per i suoi legami con la destra eversiva, era titolare dell’agenzia giornalistica ‘Notizie 2000’, poco nota al grande pubblico, ma ben conosciuta negli ambienti politici e finanziari della capitale.
Proprio sull’attività non sempre limpida dell’agenzia si accentra ora l’attenzione degli inquirenti…”
Il successo del suo piano lo ha riempito di soddisfazione. Alcuni vaghi ma ben dosati accenni nelle trascrizioni dei primi nastri; qualcosa di più esplicito in quelle successive.
Brevi frasi allusive, tutte basate sulle informazioni che l’amanuense si è procurato. Poi, con la trascrizione dell’ultimo nastro, l’affondo mortale: l’annuncio di un’edizione speciale di “Notizie 2000” con “sconvolgenti rivelazioni” sui mandanti della strage di Pasqua alla Stazione Centrale. Una falsificazione perfetta, che qualcuno ha preso per vera, visto quel che è successo. Chi, tra quelli là in alto, si è sentito minacciato al punto da agire così in fretta per chiudere la bocca a Bauer? L’amanuense non la sa, né gli interessa saperlo. Uscendo di casa, dopo aver bruciato quel ritaglio di giornale insieme agli altri che aveva raccolto, non sospetta affatto di aver scatenato un terremoto nelle alte sfere della Ditta. La fazione che fa capo al generale ha perso un importante strumento di pressione, un’arma preziosa nella feroce guerra per bande che da anni imperversa nel Servizio. Morto Bauer, infatti, “Notizie 2000” non è che una scatola vuota. La fazione opposta, cui appartiene il colonnello, ha approfittato di un’operazione di routine per liquidare un ricattatore al corrente di troppe cose per non essere scomodo.
Il terzo gruppo, il più segreto, potrebbe dire molte cose riguardo alla strage. Ne fanno parte infatti coloro che da anni, con ogni mezzo, stroncano sistematicamente qualsiasi tentativo di scoprire la verità sulle stragi e sui tentati colpi di stato. Da questo gruppo proviene l’esecutore, professionista di alto livello con molti bersagli al suo attivo.
All’oscuro di tutte queste cose, l’amanuense percorre il solito viale, pensando che, per una volta, il destino di una di quelle voci senza volto lo ha deciso lui. Anche la fortuna è stata dalla sua parte. Ce n’è voluta un bel po’, per fare in modo che quei nastri, di cui ha manipolato le trascrizioni, finissero “per errore tecnico” in mezzo ad uno stock di vecchie registrazioni da distruggere.
Ma la soddisfazione è stata di breve durata. Tutto quello che lui ha fatto, non è servito a niente. A ricordarglielo, mentre scende le scale della stazione della metropolitana, è quel foglietto ormai sgualcito che la sua mano stringe ancora con forza. La folla dell’ora di punta, che incalza da ogni parte, non fa che accentuare il suo senso di solitudine. Quelle quattro parole di addio, fredde e sprezzanti, lo hanno ferito ancora più dell’abbandono, riaprendo la piaga aperta da quel nastro maledetto, ascoltato in un giorno che ora gli sembra lontanissimo. Si fa largo a gomitate in mezzo a quel mare di sconosciuti. Molti gli lanciano sguardi furibondi, qualcuno lo insulta. Un uomo dai capelli biondi si scosta per lasciarlo passare. Ora è in prima fila sulla banchina, grato al treno in arrivo che col suo rumore copre quell’intollerabile brusìo di voci senza volto.
Ma quel nastro, quel nastro che da giorni e giorni gira ininterrottamente nella sua mente, neppure il treno riesce a sovrastarlo. Anche mentre cade sospinto da una mano protetta dalla folla, davanti al treno troppo vicino per potersi fermare senza travolgerlo, quelle voci non lo lasciano.
Fino all’ultimo istante, quando muore portando con sé la voce di lei che parla, poi geme, poi grida e la voce di Bauer, ansimante, che ripete all’infinito quel nome: «Angela… Angela… Angela…».
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