Qualcosa d’assurdo sta per accadere, Alex rimembra i primi momenti di quel fatto accaduto in una notte di primavera tra le montagne. Aveva appena finito di vedere in televisione una serie di film sulla macchina del tempo: Time Machine, L’uomo che visse nel futuro e Timeline. Così tutto carico per i viaggi nel tempo era finalmente andato a coricarsi…
Tre della notte. Non ho sonno, è più di un’ora che mi rigiro nel letto. Basta! Ho deciso, esco. Metto il guinzaglio al cane, un po’ di compagnia è quello che ci vuole. Lo carico in auto e mi dirigo verso il castello. Mentre salgo per le curve un rumore assordante proviene di fronte a me. Rallento e vedo un paio di NH90, due elicotteri in dotazione al nostro esercito che sembrano volare troppo bassi, uno di loro ha un rumore strano, perde quota, poi sempre più giù. Un boato, una densa nube di fumo sale dal terreno. Ho visto dov'è caduto. La paura è tanta ma la curiosità è più forte. Scendo dall'auto, la cagnolina, quasi impaurita, mi segue come un’ombra. Alberi tranciati, vedo il velivolo, ma nel frattempo anche l'altro elicottero è atterrato un po’ più in là. Arrivo sul posto, mantenendomi nascosto. Il pilota del secondo elicottero è già arrivato sul luogo dell'incidente. Controlla il compagno, è morto! Senza perdersi d'animo entra per alcuni secondi nel velivolo semidistrutto e ne esce con un contenitore dal quale estrae due strani tubi metallici. Prende un telefono e compila un numero …
«Qui Havoc 28 x, a comando! Rispondete!»
Solo alcuni secondi, un'altra voce in lontananza risponde a quell'ordine:
«Qui Mainstay, parla pure!»
Quello che fa? Alza il primo tubo poi continua:
«Qui Havoc28 x, ho recuperato il materiale top secret, vi riporto numerazione.»
Nella giacca a vento avevo una penna e un taccuino, lo estraggo, sono troppo teso ma questa storia mi sta prendendo, il militare intanto continua:
«Qui Havoc28 x, il primo elemento è integro, questo è il codice, 7 Milano, Roma, 568, Firenze 0...» attende due minuti, intanto io sempre più spaventato scrivo quei numeri e quelle lettere «Qui Havoc28 x, secondo elemento integro, anzi no, nella parte alta vi è un foro, sta perdendo qualcosa, aaaghh!»
Non sento più nulla, vedo fuoriuscire una polverina gialla. Preso dalla paura, agguanto il mio cane e correndo per un centinaio di metri torno alla macchina. Sento mancare le forze, ma resisto, arrivo a casa, salgo e cado di peso sul divano. Cos’era quello che avevo appena visto? Boh!
Ancora rumori, mi alzai, elicotteri continuavano a svolazzare sopra la cittadina, qualcosa doveva essere accaduto dopo quella notte in cui avevo assistito all'incidente del NH90 nel bosco su al vecchio maniero. Il mio grande paese era diventato una città fantasma, perché? Cos'era accaduto in quelle poche ore? Dov'erano finiti gli abitanti del paese? Le strade tutte controllate a vista da militari visibilmente coperti da maschere antigas e tute antiradiazione. Sono solo! Perché su 17.000 abitanti ero rimasto solo io? Impossibile! Sto sognando, mi do un pizzicotto, ‘Ahi!’ Allora è tutto vero. E se uscissi? Dal terrazzo al terzo piano, nascosto dietro a una pianta d’alto fusto, considero quel momento paradossale. Un militare mi nota e indica ai compagni la mia figura. Da un elicottero, due uomini si calano verso di me! Quello più alto scende sul balcone intimandomi di uscire. Mi segue, mentre il velivolo s’allontana. Sono sotto casa, un Lince LMV Hummer, un camion militare, si ferma d’innanzi a me. Un capitano m’indica di salire sul mezzo. Non parlo, eseguo l’ordine dato, come impaurito. Perché conosco tutto l’armamento militare in uso? Io che nemmeno avevo fatto la naja essendo stato obiettore. Che sta succedendo? Come faccio ad avere tutte queste nozioni? Attraverso gli occhiali del milite noto occhi profondi, seri, quasi arrabbiati.
«Dove mi portate?» chiesi visibilmente contrariato. La risposta fu una botta al fianco con un Arx 160, un fucile da combattimento. Mi piegai in due dal dolore, lo sguardo cadde comunque sui cinque militari che fiancheggiavano la jeep, avevano tutti guanti e maschere anti radiazioni.
«Ma che succede?» pensai salendo sul mezzo.
Un chilometro, rimasi atterrito, centinaia di sacchi neri erano posizionati ai bordi della strada, con militari che continuavano a coprire corpi privi di vita.
«Non è vero! Non può essere reale!»
Lungo la provinciale che portava verso la montagna, auto abbandonate, messe di traverso con corpi all’interno. In una addirittura una donna con un bambino riversi, lei sul volante, il piccolo con la testa appoggiata alla spalla della madre. Dopo alcuni chilometri il fuoristrada si fermò. Mi fecero scendere per farmi risalire quasi immediatamente su una corriera con i vetri oscurati. All’interno, sedute, vi erano altre persone visibilmente terrorizzate. L’uomo alla guida m’intimò di prendere posto, sotto lo sguardo vigile di un altro militare che aveva lo stemma della Nato appiccicato sulla spalla destra. “Ma che succede?” Pensai sedendomi per non farlo arrabbiare. Il veicolo ripartì. Contai venti persone tra uomini e donne più due bambini dall’età apparente di dieci anni. La corriera parve scendere sulla strada affrontando parecchie curve; dopo mezz’ora, finalmente, si fermò. Il traballare del mezzo stava a significare, probabilmente, una strada sterrata. Proseguiamo ancora, in sottofondo il rumore di acqua. “Siamo in fondovalle ai margini del fiume, ne sono convinto” pensai. Una frenata brusca. La porta del mezzo si aprì. Fummo fatti scendere in una piana ricoperta ai lati da fitta vegetazione. Non riuscii a percepire il luogo ma attorno avevamo tanti container abitativi. Ad attenderci una miriade di persone bardate dalla testa ai piedi con tute protettive e caschi.
«Ma sono divise contro i virus!» disse una giovane donna che mi seguiva. Non risposi, la cosa non so perché non mi sembrava una novità. Conoscevo a memoria ogni tipo di armamento, io che nemmeno sapevo che cosa volesse dire la parola ‘militare’. Girai lo sguardo attraverso la selva e verso alcune rocce lì accanto. Si intravedevano cecchini in mimetica dotati di fucili di precisione, tipo BARRETT M82, in dotazione all’esercito. A cosa serviva tutta questa disposizione militare? Perché ci avevano trasportato in luogo semisconosciuto? Io ero del posto ma non conoscevo assolutamente quel luogo, mi sembrava strano poiché conoscevo a memoria il territorio. Altre persone stavano scendendo da altrettante corriere e camionette. Continuavo a girarmi intorno. Impossibile! Non riuscivo a capire dove eravamo, non sembrava nemmeno più il mio paese, eppure avevamo viaggiato si e no per una mezz’ora.
Venne notte. Uno, due spari. Nella camerata in cui mi avevano alloggiato vi erano altri due giovani uomini che come me si alzarono per vedere dalla finestra cos’era accaduto. Nulla! Il buio non aiutava a vedere. Ancora spari. Una decina, poi il silenzio. Il sonno era passato. Seduto sul letto attesi l’alba. La porta della stanza si aprì. Uscimmo. Solo morti a terra. Ma che succede? Le facce di quei poveretti avevano strane deformazioni, tutti o quasi mostravano la metà del cranio spappolata. Mi accorsi immediatamente i fori d’entrata e quelli d’uscita dei proiettili, piccoli dove erano penetrati ma grandi da dove erano usciti. Io e gli altri due ragazzi rimanemmo sbigottiti, poi un rumore da dietro un capanno. Quattro militari si stavano avvicinando.
«Guardate le loro facce!» urlò uno dei miei compagni di avventura. I loro volti non avevano nulla di umano, camminavano lentamente e in modo strampalato annusando l’aria, si avvicinavano pian piano. Avevo visto tanti film di questo genere, ma la realtà era ben diversa, questi erano zombie. All’accampamento non vi era rimasto più nessuno, a terra notai anche i due bambini riversi uno sopra l’altro. Fu un attimo! Fuggimmo in direzione del bosco. Il silenzio divenne assordante. Camminammo per circa un’ora. Poi una strada, alcune auto ferme ai lati, all’interno non vi era nessuno: “Ma che sta succedendo?” Sembra un sogno. Un rumore provenne dall’alto, un paio di elicotteri passarono a tutta velocità sopra le nostre teste. Continuammo a camminare.
«Ci sono delle case lì!» borbottò il più giovane dei miei compagni di viaggio. Entrammo in una con la porta spalancata. Tutto era a terra rovesciato, come se qualcuno fosse fuggito da quel luogo maledetto. La fame stava bussando allo stomaco. L’istinto fu di dirigersi verso il frigo.
«Wow! Ma qui c’è un supermercato!» abbozzò Kim, uno dei miei nuovi amici. Infatti il frigo era pieno di ogni ben di Dio. Alzai il tavolo della cucina che era rovesciato a terra. Donovan, l’altro giovane, sparpagliò tutto quello che il frigo aveva nel suo interno, anche due bottiglioni di vino rosso. Ci buttammo su quel pasto fino a saziarci. Riscese la sera. Per essere più tranquilli chiudemmo la porta e le finestre con pezzi di legno e chiodi trovati nel garage dell’abitazione. Il letto si avvicinava, la tensione e la stanchezza mi resero innocuo all’inverosimile. Notte piena. Un continuo grattare alla porta d’accesso dell’abitazione mi svegliò. Mi alzai dal letto, ero rimasto vestito, non si sa mai. Scesi le scale senza far rumore, mi avvicinai all’uscio, ancora lo stesso rumore, qualcuno stava raschiando al vecchio portone. Mi fermai come per ascoltare, un guaito. Staccai un listello della parte bassa dell’accesso, un musetto tutto nero s’infilò in quel pertugio.
«Non ci credo! Non è possibile!»
Nel frattempo arrivarono i due giovani amici. In fretta e furia staccai gli altri listelli per aprire.
«Che fai? Sei impazzito?» urlò a bassa voce Kim.
«No!» risposi sorridendo. Lui mi guardò esterrefatto, i miei occhi brillavano come non mai; tolto l’ultimo travicello, una lingua iniziò a leccare la mia mano, era Ombra, la mia cagnolina, che non so per quale forza della natura era riuscita a ritrovarmi.
Una strana nebbiolina era scesa in quel luogo desolato. Il silenzio era assordante, il sonno inevitabilmente passato.
«Che si fa?» chiese Kim mentre si rinfilava la giacca.
«Non possiamo rimanere qui!» abbozzai mettendomi a tracolla un fucile che avevo preso a uno dei militari morti all’accampamento.
«Dobbiamo proseguire, trovare altre persone, sapere cosa è accaduto» queste furono le mie parole.
Ci rimettemmo in viaggio. Costeggiammo il bosco per cercare di mimetizzarci il più possibile. L’alba. Scorgemmo le luci di un paese, ci avvicinammo con cautela, nessuno era sulla strada, forse era ancora troppo presto. A piccoli passi entrammo in quel borgo, un rumore, altri elicotteri ci sorvolarono per l’ennesima volta. Svoltammo sulla destra, una piazza. Pazzesco! Sacchi neri messi in fila davanti alla chiesa, si notavano le sagome umane all’interno. Mi feci coraggio, mi chinai su un sacco, ne strappai un pezzetto, la faccia del malcapitato era letteralmente esplosa, il collo mostrava deformazioni impensabili.
Lamenti, Donovan urlò:
«Alex, quel sacco si è seduto!»
Per evenienza imbracciai il fucile, uno sfregamento, il sacco si aprì e lentamente una figura uscì da quell’involucro.
“Forse l’hanno creduto morto!” pensai. Mi avvicinai, il terrore mi assalì. “I mostri non sono nulla confronto a questo!” Deformato, la bocca colma di sangue, un occhio a penzoloni, si alzò trascinando un piede, dalla bocca uscì come un rumore gutturale profondo, allungò le braccia verso di me, l’istinto mi fece tirare il grilletto, lo colpii in pieno petto all’altezza del cuore. Cadde a terra. Passarono un paio di minuti di ansia, Kevin colto da compassione afferrò uno straccio tolto da un filo appeso per posarlo sul corpo del malcapitato, non fece in tempo a rialzarsi, quella creatura gli afferrò un polso coi denti, un urlo, mi girai, gli corsi incontro e lasciai partire una miriade di colpi sulla testa di quel posseduto, sventrandogli il cranio. Ora avevo capito perché tutti avevano la testa spappolata, solo così potevi finirli, sparare sulle altre parti del corpo era inutile, non faceva effetto alcuno. Donovan si strappò un lembo della camicia per tentare di fasciare il polso al nostro amico.
«Mamma mia se brucia la ferita!» borbottò Kevin.
Venne il giorno. Uscimmo dal paese, il sole iniziava a scaldare le ossa.
«Ho fame!» mugugnò Donovan. Ci fermammo sotto a un albero, ognuno di noi aveva qualcosa da mangiare all’interno degli zaini tolti a quei poveri malcapitati la sera prima. Kim non parlava, sembrava stanco, forse la ferita al polso si era infettata. Gli tolsi la benda, “impossibile!” dissi dentro di me, la mano e l’avambraccio erano totalmente neri, come in cancrena. Non dissi nulla, cambiai la pezza. I nostri passi erano diventati più pesanti. Ci fermammo all’interno di un capanno posto al centro di un campo. Pomeriggio inoltrato, la stanchezza prese il sopravvento. Ci addormentammo. Uno strano rumore, Ombra la mia cagnolina ringhiava. Alzai lo sguardo verso i miei compagni d’avventura, Kim era chinato su Donovan che non si muoveva.
«Non ci credo!» urlai. Kim aveva brandelli di carne tra i denti, erano pezzetti del collo di Donovan. Mi alzai di scatto, presi il fucile, Kim si girò verso di me, annusò l’aria, si alzò e mi venne incontro, l’istinto mi fece puntare l’arma verso di lui, chiusi gli occhi e lasciai partire due, tre, quattro colpi all’altezza del cranio del mio amico che stramazzò al suolo. Ero rimasto solo con il mio cane. Avevo scaricato l’adrenalina, iniziai a tremare, uscii di corsa da quel posto e mi misi a correre. Poi, dopo circa dieci minuti di corsa forsennata, rallentai e il mio cervello cominciò a lavorare. Se Kim era diventato così, un motivo ci doveva essere e come già pensato precedentemente mi tornò alla mente il più classico dei film sugli zombie, ossia che se sei graffiato o morso diventi anche tu simile a loro. La ferita prodotta da quel morso lo aveva reso inevitabilmente uno di loro. Annusando l’aria plausibilmente sentivano l’odore dei non morti, quindi di conseguenza potevi diventare il loro pasto e la cosa a cui pensavo mi riportava a quel giorno dove vidi cadere l’elicottero, ma ancora di più a quella polverina gialla che usciva da quel tubo metallico. Tutto tornava e cominciai a unire il puzzle: irrimediabilmente quella polverina era un virus creato in un qualche laboratorio, nell’incidente aereo il pilota del secondo velivolo ne era venuto a contatto, quindi era diventato il soggetto ‘0’, ossia da dove tutto era cominciato. Per quale scopo? Le domande che mi facevo non avevano risposte, ma quella era la realtà oggettiva delle cose. In nemmeno un paio di giorni qualcosa si era insinuato tra gli umani, qualcosa di terribile che aveva cambiato per sempre il mondo in cui vivevamo. Ripresi fiato e coraggio. Devo cercare qualcuno o questa cosa mi ucciderà dentro. Mi rimisi in viaggio sempre accompagnato dalla mia unica amica, Ombra, la cagnolina. Se vi era qualcosa di diverso lei lo avvertiva, sicché iniziai la ricerca di qualche sopravvissuto. Il luogo in cui ero appariva di un altro mondo.
«Impossibile, avrò fatto sì e no una cinquantina di chilometri da casa mia!» dissi ad alta voce «come mai non so dove siamo?» L’animaletto che avevo con me si fermò guardandomi come se fossi da un’altra parte, scodinzolò saltandomi sulle cosce, l’accarezzai. Verso l’imbrunire un altro paese accese le luci. Elicotteri continuavano imperterriti a sorvolare sopra la mia testa. Entrato nella cittadina non vidi nessuno, ma almeno qualcuno faceva avanti e indietro da un bar, sembrava l’unico locale in quel piccolo contesto cittadino. Entrai, tutti mi guardarono dalla testa ai piedi, poi un signore dal portamento distinto si avvicinò.
«Ha per caso qualche novità dall’esterno?» mi chiese mentre alcuni suoi compaesani si avvicinarono; allargai le braccia:
«Sì, i due paesi che ho oltrepassato sono andati, non c’è più nessuno, solo mostri.»
Una giovane donna cominciò a piangere «Lo sapevo!!!» esclamò «sono sicura che presto li avremo addosso.»
«Dobbiamo andarcene!» disse un giovane. Un altro uomo mi chiese se vi era la possibilità di poter uscire da quel posto e se potevo diventare la loro guida. Li guardai perplesso, erano una cinquantina di persone, tutte lì davanti a quel bar, non vi erano bambini e chiesi come mai. Una signora corpulenta rispose che alcuni militari con grossi elicotteri avrebbero portato via solo i bambini e sarebbero tornati a riprenderli, ma erano passati tre giorni e degli elicotteri nessuna traccia. A quel punto annuii, tutti si prepararono con zaini colmi di ogni cosa e armi, semplici fucili da caccia e qualche rivoltella. All’alba prendemmo la via. A passi veloci una giovane donna si avvicinò.
«Ma tu sei di qui?» mi chiese. Io sorrisi, scuotendo la testa in senso positivo. Il suo passo reggeva bene, era una bella ragazza e sicuramente dal fisico poteva anche sembrare un’atleta. Salimmo per chilometri lungo una collina; quando scollinammo, la paura divenne parte integrante del momento. Alcune abitazioni in fondo alla vallata erano assalite da zombie, le persone cercavano di fuggire ma per lo più erano anziani e presto furono sopraffatti. I più giovani di noi si buttarono a folle velocità verso quel gruppo di morti viventi cercando di abbatterne il più possibile, fortunatamente tornò la calma. Ci organizzammo e qualche uomo fu messo ai confini di quell’appezzamento di terreno, gli altri si riunirono per riposare in vista della notte che stava sopraggiungendo.
«Mi chiamo Elois» disse la ragazza che avevo avuto al fianco quasi tutto il giorno.
«Piacere, io sono Alex!» risposi con un sorriso. La notte parve passare tranquillamente. Il mattino seguente fui il primo a destarmi. Gli uomini di guardia, una decina circa, non erano al loro posto. Svegliai gli altri, insieme ci avviammo alla ricerca dei compagni. Li trovammo vicino a un fienile che giravano su loro stessi come invasi da qualcosa che li aveva resi schiavi
«Sparate!» urlai «Sono all’inizio del cambiamento, sono stati morsi, tra un po’ verranno a cacciarci!»
«Ma come?» disse un ragazzo col fucile a tracolla, alquanto impaurito.
«Spara!» urlai di nuovo.
Fece fuoco e fu subito seguito dagli altri. Ma al susseguirsi di colpi una miriade di zombie sbucò da sotto un terrapieno.
«Sono troppi!» gridò Elios cercando di indietreggiare. Erano troppi davvero, più di un centinaio, i fucili e le pistole non bastarono, iniziammo a usare forconi, falci, coltelli, i nostri cadevano come fuscelli, quelli invece che non erano stati colpiti alla testa si rialzavano, la lotta fu impari, rimanemmo in cinque. Tentammo la fuga ma altri ci comparvero davanti.
«La vedo nera» disse un giovanotto accigliato. Elois si appoggiò con la schiena alla mia, erano sempre più vicini; poi qualcosa attirò la loro attenzione, il rumore di un elicottero, una sventagliata di colpi ben mirati ne atterrò parecchi. Il velivolo atterrò sul campo di grano, un militare urlò:
«Forza, muovetevi, ne stanno arrivando altri!»
Una corsa sfrenata, ma finalmente tutti e cinque riuscimmo a salire sul mezzo che riprese quota. La tensione calò, ma all’improvviso uno dei nostri compagni si voltò verso di me, il suo viso era mostruoso, non fece in tempo nemmeno a emettere un suono che con il fucile che gli diedi una botta, facendolo volare giù dall’elicottero militare. La tensione era calata, mi assopii. Mi svegliai perché Ombra mi stava leccando una mano.
«Impossibile!» dissi a voce alta. Ero nel mio letto, guardai verso la finestra, era giorno. Mi sedetti «Mamma mia che brutto sogno.»
Andai in bagno a sciacquarmi il viso, ero in una pozza di sudore, quell’incubo era stato troppo forte. Mentre mi asciugavo Ombra cominciò ad abbaiare.
«Che c’è da abbaiare, smettila!»
Lei continuò imperterrita, mi avvicinai alla sala dove aveva la cuccia, apri la serranda del terrazzo, un rumore assordante, aprii il finestrone, un grosso elicottero era fermo lì al terzo piano che sembrava attendesse me, un militare tratteneva tra le braccia un Arx 160, un fucile da combattimento.
«Non è possibile, non può essere, non ci credo!»
Mi fece un cenno e ad alta voce disse:
«Scenda di casa o la veniamo a prendere noi!»
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