E’ una serata d’inverno e il cielo è di un grigio triste. Mi ritrovo a passare in quello che era il mio vecchio quartiere. Tutto è cambiato, osservo e ricordo.
Quegli alti palazzi di cemento grigio, edilizia popolare di periferia.
Quella strada che aspettava da anni di essere finita, arrivava dal nulla e finiva nel nulla contro mucchi di ghiaia, era in terra battuta, cordone perimetrale del nostro palazzo.
Da un lato mura di cemento, dall’altro in lontananza si poteva vedere la città, con le luci e i suoi colori, di fianco una fila interminabile di baracche di lamiere e di assi di legno, piccoli orti coltivati con cura, testimoni di quel cordone ombelicale mai tagliato con l'anima contadina.
Lì vicino una vasta area che era servita come deposito di terra, discarica ora abbandonata, tagliata in due da un profondo canale, una fogna a cielo aperto, tra quei mucchi di terra e rifiuti passavamo le nostre giornate.
Quelle colline erano per noi fortini da espugnare, vette da conquistare, posti da esplorare: ciò che era rimasto dopo lo scoppio della terza guerra mondiale, o l’arrivo dei marziani. Quell’acqua nera e putrida per noi era il Rio delle Amazzoni, il Rio Grande, o solo il posto dove gareggiare con le barche di carta e tirare i sassi ai ratti, e tutti prima o poi ci siamo finiti dentro fino alle ginocchia.
Una cosa di cui solo noi che abitavamo in quel posto potevamo godere era la “Fonderia Arcelli” che, a dispetto degli anni Ottanta, che erano ormai prossimi, funzionava ancora a pieno ritmo e la fornace era alimentata a carbone, guardare Aldo, il proprietario, che ha mani nude buttava lingotti di ghisa nella bocca della fornace, era come guardare da vicino la porta dell’inferno, la sua figura spiccava nera contro la luce abbagliante della fornace. Dal capannone usciva un denso fumo nero, la fuliggine che la nebbia rendeva più spessa si depositava su ogni cosa e nei nostri polmoni; nelle calde giornate estive si poteva scegliere: tenere le finestre chiuse e arrostire in quei forni di cemento, o lasciare entrare quel poco d’aria e il grigio fumo della fonderia.
Ma nessuno nato nel quartiere si lamentava più di tanto, Aldo e sua moglie Mariuccia erano persone cordiali e sempre disponibili, era impossibile non amarli.
Noi ragazzini sbirciavamo all’interno di quei vetri sporchi, ricordo le sagome di quegli uomini: braccia robuste, i loro occhi rossi come braci, che spiccavano sui volti neri come il carbone.
Quando si apriva la bocca del forno era come un orrido mostro che vomitava ghisa incandescente che fuoriusciva con un bagliore accecante, tagliava il buio come un coltello. I lapilli infuocati toccavano il basso soffitto, il rumore assordante e le grida degli uomini al lavoro davano a quell'ambiente un aspetto infernale.
Il piazzale usato come deposito del carbone era l’unico posto abbastanza ampio per giocare una partita a pallone, alla fine eravamo impolverati e neri come corvi.
II basso capannone di lamiera esiste ancora, la fonderia è ormai chiusa da un pezzo, la neve ha reso bianca ogni cosa, anche il piazzale del carbone, il canale è stato chiuso e le nostre colline spianate per far posto a un ampio parcheggio di un centro commerciale.
Gli orti sono diventati giardini e oltre una fila di villette, la strada non è più bianca, è stata asfaltata e non finisce più contro un mucchio di ghiaia, ma arriva direttamente in centro, è ora una via di intenso traffico.
Un’auto passando mi schizza sui piedi della fanghiglia scura e trent’anni di vita.
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