mercoledì 10 gennaio 2024

Arthur C. Clarke: Viaggiate via cavo, 1973


Non potete avere un’idea dei guai e delle difficoltà che abbiamo dovuto superare prima di perfezionare il radiotrasporto. Non che adesso sia perfetto, se è per questo. La difficoltà principale – proprio come era successo trent’anni prima per la televisione – era quella di migliorare la definizione, e per cinque anni ci toccò lavorare su questo problema secondario.
Come avete senz’altro visto al Museo della Scienza, il primo oggetto che riuscimmo a trasmettere fu un cubo di legno: arrivò in perfette condizioni, a parte il fatto che invece di essere un blocco di materia solida ed omogenea era fatto di piccolissime sfere. In effetti sembrava proprio la versione tridimensionale di una delle prime rozze immagini televisive. Infatti, gli analizzatori che usavamo allora non erano in grado di risolvere gli oggetti molecola per molecola, o meglio ancora, elettrone per elettrone: li spedivano invece a piccoli pezzi per volta.
Questo fatto in certi casi non aveva importanza, ma se si volevano trasmettere opere d’arte, per non parlare di esseri umani, bisognava assolutamente migliorare il processo in misura considerevole. Ci riuscimmo usando analizzatori a raggi delta posti tutto intorno all’oggetto: sopra, sotto, destra, sinistra, davanti e dietro. Fu un bell’affare sincronizzarli tutti e sei, ve lo assicuro, ma quando ci riuscimmo scoprimmo che l’oggetto veniva suddiviso in particelle ultramicroscopiche e poi spedito: il che andava benissimo nella maggior parte dei casi.
A questo punto approfittammo di un momento in cui quelli del reparto biologia, al 37° piano, guardavano da un’altra parte e prendemmo in prestito un porcellino d’India, che spedimmo con la nostra apparecchiatura. Arrivò in condizioni eccellenti, a parte il fatto che era morto stecchito. Lo restituimmo allora ai legittimi proprietari unitamente alla cortese richiesta di una autopsia. In un primo momento i biologi strillarono un po’, perché avevano inoculato in quella sventurata creatura gli unici esemplari di certi microbi che avevano allevato amorosamente in provetta per mesi e mesi. In effetti, erano così seccati che rifiutarono nel modo più reciso di soddisfare la nostra richiesta.
Che dei semplici biologi si permettessero una tale impertinenza era naturalmente impensabile: così investimmo subito il loro laboratorio con un campo ad alta frequenza e per dieci minuti ebbero tutti un febbrone da cavallo. Dopo mezz’ora ricevemmo i risultati dell’autopsia, il succo dei quali era che la cavia era in condizioni perfette tranne che era morta per lo shock. C’era anche un’annotazione in cui si diceva che se avessimo voluto fare altri esperimenti, sarebbe stato meglio bendare gli occhi delle nostre vittime. Ci dissero anche che ora il 37° piano era chiuso con una serratura a combinazione, in modo da proteggerlo dalle razzie di certi meccanici affetti da cleptomania che non si capiva bene perché non se ne stessero nelle loro rimesse a lavare automobili. Naturalmente l’affronto non si poteva ignorare, e così controllammo immediatamente con i raggi X la loro serratura e li lasciammo completamente costernati quando dicemmo loro la combinazione che l’apriva.
Questo è il buono del nostro lavoro, che possiamo fare il bello e il cattivo tempo. Gli unici rivali di un certo peso che avevamo erano i chimici che stavano al piano di sopra, ma di solito eravamo noi che la spuntavamo. Sì, d’accordo, una volta riuscirono a infiltrare nel nostro laboratorio, attraverso un buco praticato nel soffitto, certa roba organica dal puzzo spaventoso. Per un mese ci toccò lavorare con i respiratori addosso, ma ci prendemmo la nostra rivincita. Ogni notte, quando tutti se ne erano andati, innaffiavamo il loro laboratorio con una dose di raggi cosmici a bassa intensità, così che i loro bei precipitati cagliavano e inacidivano e andavano tutti a pallino: finché una notte non ci accorgemmo che il vecchio professor Hudson si era fermato a finire un lavoro, e per un pelo non ci rimise la pelle.
Ma, a parte questo, per tornare alla mia storia, ci procurammo un’altra cavia, la anestetizzammo e la spedimmo col trasmettitore. Il porcellino d’India riprese i sensi benissimo, e ne fummo tutti contentissimi: lo uccidemmo e lo imbalsamammo per la posterità, come si può vedere nel Museo insieme al resto delle apparecchiature.
Ma se volevamo mettere in piedi un servizio passeggeri, non potevamo assolutamente proseguire in questo modo: assomigliava troppo ad un’operazione per poter piacere alla maggior parte delle gente. Ma riducendo il tempo di trasmissione ad un decimillesimo di secondo e diminuendo così lo shock, riuscimmo a trasmettere un’altra cavia nel pieno possesso delle sue facoltà: anche questa venne imbalsamata.
Era chiaro che era venuto il momento in cui uno di noi dovesse provare l’apparecchiatura: ma ci rendemmo conto che se qualcosa fosse andata storta sarebbe stata una perdita enorme per tutta l’umanità. E così pensammo che il soggetto più adatto fosse il professor Kingston, che insegnava greco o qualcosa di altrettanto assurdo al 197° piano. Lo attirammo nel trasmettitore usando come esca un Omero, accendemmo il campo e dallo strepito che si sentì dal ricevitore capimmo che era arrivato sano e salvo e in pieno possesso delle sue facoltà, quali che fossero. Ci sarebbe piaciuto imbalsamare anche lui, ma non si riuscì a combinare.
Quando fummo tutti passati attraverso il trasmettitore, potemmo affermare che l’esperienza era del tutto indolore e decidemmo di lanciare la nostra invenzione sul mercato. Penso che ricordiate la sensazione che fece il nostre aggeggio la prima volta che le presentammo alla stampa. Naturalmente dovemmo sudare sette camicie per convincere i giornalisti che non c’era nessun trucco, ma non ci credettero fino a che non li spedimmo tutti col trasmettitore. Rifiutammo di spedire lord Rosscastle, che avrebbe senz’altro fatto saltare i fusibili anche se fossimo riusciti a farlo entrare nel trasmettitore.
Questa dimostrazione ci fece una pubblicità tale che costituimmo una società commerciale senza incontrare difficoltà. Dicemmo arrivederci –anche se con una certa riluttanza – all’istituto di Ricerca, e a quelli che rimanevano dicemmo che forse un giorno o l’altro si sarebbero pentiti dei loro misfatti nei nostri confronti quando, restituendo loro bene per male, gli avremmo mandato qualche milione in regalo, e cominciammo a progettare i primi trasmettitori e ricevitori commerciali.
Il servizio venne inaugurato il 10 maggio 1962. La cerimonia avvenne a Londra, al terminal di trasmissione; il ricevitore era a Parigi, ed una folla enorme era in attesa di vedere arrivare i primi passeggeri, o forse sperando che non arrivassero affatto. Tra gli evviva della folla entusiasta, il Primo Ministro premette un pulsante (che non era collegato a nessun circuito), il capotecnico fece scattare un interruttore (questo sì era collegato) ed una grande Union Jack svanì e comparve a Parigi, e questo seccò un poco qualche francese molto patriottico. Poi cominciarono ad arrivare i passeggeri, ed in quantità tale che i funzionari della dogana ne furono completamente travolti. Il servizio passeggeri divenne immediatamente un enorme successo, e noi facevamo pagare solo due sterline a persona. Era un prezzo molto contenuto, a nostro parere, perché ogni passaggio consumava elettricità con una spesa di un centesimo di penny.
In poco tempo ci collegammo con tutte le principali città europee: via cavo, non per radio. Questo perché il sistema via cavo era più sicuro, anche se fu terribilmente difficile posare i cavi poliassiali, che costavano 500 sterline al miglio, sotto la Manica. Poi, in collaborazione con le Poste, cominciammo a sviluppare una rete nazionale tra le città più importanti della Gran Bretagna. Forse ricorderete i nostri slogan « Viaggiate per telefono » e « Via cavo è più veloce », che nel 1963 si vedevano dappertutto. Ben presto, praticamente, tutti cominciarono ad usare la nostra rete, e ogni giorno spedivamo migliaia e migliaia di tonnellate di merci.
Naturalmente ci furono degli incidenti, ma vi faccio notare che siamo riusciti a fare quello che nessun Ministro dei Trasporti è mai riuscito, e cioè ridurre gli incidenti stradali a non più di dieci all’anno. Allora perdevamo un cliente ogni sei milioni, il che era una percentuale bassissima anche per un servizio che era agli inizi, sebbene ora otteniamo risultati ancora migliori. Qualche incidente fu davvero molto strano, ed in realtà vi furono casi di cui non si è fatto cenno ai dipendenti, e nemmeno alle assicurazioni.
Un inconveniente abbastanza comune era che la linea, talvolta, andava a massa. In questo caso, lo sfortunato passeggero si dissolveva nel nulla. Immagino che le molecole di cui era costituito venissero distribuite più o meno uniformemente su tutto il globo terracqueo. Ricordo un incidente particolarmente spaventoso una volta in cui la macchina si guastò nel bel mezzo di una trasmissione: potete immaginare quello che è accaduto... Ma forse fu ancora peggio quando due cavi fecero contatto e le due correnti si mescolarono.
Naturalmente non tutti gli incidenti erano così spaventevoli. Certe volte, quando la resistenza del circuito raggiungeva valori elevati, un passeggero poteva perdere fino a 35 chili durante il transito, il che di solito ci costava 1.000 sterline ed i pasti gratis fino a che non si fosse ripristinato lo status quo ante. Per fortuna, però, riuscimmo anche a cavar danaro da questa storia, perché chi aveva chili da perdere si faceva trasmettere al fine di tornare a dimensioni più maneggevoli. Costruimmo allora una macchina speciale che trasmetteva le matrone più voluminose attraverso una serie di bobine di resistenza e le ricomponeva al punto di partenza togliendo loro i chili in più. « Così in fretta, mia cara, ed assolutamente indolore. Sono sicurissima che ti possono togliere quei 70 chili che vuoi perdere in un attimo! O forse sono 100? ».
Abbiamo avuto molti guai anche per i fenomeni di interferenza e di induzione. Vedete, i nostri apparecchi captavano disturbi elettrici vari e li sovrapponevano all’oggetto in trasmissione. Di conseguenza molti passeggeri in uscita non avevano più nulla di umano: e nemmeno di marziano o di venusiano, se è per questo. Di solito i nostri specialisti in chirurgia plastica riuscivano a rimetterli a posto, ma certi bisognava proprio vederli per crederci.
Fortunatamente siamo riusciti a superare gran parte di queste difficoltà, ora che usiamo i microfasci per la nostra portante, ma ogni tanto capita ancora qualche incidente. Sono sicuro che ricorderete la causa che ci ha intentato l’anno scorso Lita Cordova, la star della televisione: ci chiese un milione di sterline di danni per una presunta perdita di bellezza. Sosteneva che, dopo una trasmissione, le si fosse spostato un occhio: ma io non riuscii a vedere nessuna differenza, e neanche la giuria, che ebbe anche modo di guardarla bene. Ebbe un attacco isterico in tribunale, quando il nostro capo elettricista andò alla sbarra e disse senza mezzi termini, facendo sobbalzare gli avvocati di entrambe le parti, che se qualcosa fosse andato davvero storto durante la trasmissione, miss Cordova non sarebbe riuscita a riconoscersi nemmeno se qualche sadico le avesse porto uno specchio.
Molta gente ci chiede quando estenderemo la nostra rete a Venere od a Marte. Senza dubbio ci arriveremo prima o poi, ma naturalmente vi sono parecchie difficoltà. Nello spazio c’è un mucchio di statica solare, per non parlare dei vari strati ionizzanti che riflettono le radioonde e che si trovano un po’ dappertutto. Anche le microonde rimbalzano sullo strato di Appleton a centomila chilometri, sapete. Fino a che non riusciremo a perforarlo, le azioni della Interplanetaria non crolleranno.
Bene, vedo che sono quasi le 10, e devo andare. Devo trovarmi a New York per mezzanotte. Cosa? No, no, ci vado in aereo. Io non viaggio via cavo! Vedete, io sono uno di quelli che hanno inventato tutta la cosa.
Preferisco i razzi. Buona notte!
 

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