sabato 9 dicembre 2023

Robin Cook: Epidemia


Prologo

L'alba del 12 giugno 1991 annunciò una giornata di tarda pri­mavera quasi perfetta, mentre i raggi del sole lambivano le co­ste orientali del continente nordamericano. Stati Uniti, Canada e Messico si aspettavano cieli limpidi e sereni. Le uniche va­riazioni annunciate dal servizio meteorologico erano una serie di temporali che potevano estendersi dalle pianure verso la val­lata del Tennessee e qualche scroscio di pioggia in arrivo dallo Stretto di Bering sulla Penisola Seward, in Alaska.
Sotto quasi tutti gli aspetti, quel dodici giugno era simile a tutti gli altri dodici giugno, tranne per un fenomeno curioso. Accaddero tre avvenimenti del tutto privi di collegamento che però avrebbero fatto intrecciare tragicamente fra loro le vite di tre delle persone coinvolte.
 
Ore 11.36 - Deadhorse, Alaska
 
«Ehi, Dick! Di qua!» gridò Ron Halverton. Agitò un brac­cio, frenetico, per attirare l'attenzione del suo ex compagno di stanza. Non si fidava a lasciare la jeep nel caos del minuscolo aeroporto. Era appena atterrato il 737 del mattino proveniente da Anchorage e gli addetti alla sicurezza erano severi riguardo ai veicoli lasciati incustoditi nella zona delle operazioni di cari­co. Autobus e furgoni aspettavano i turisti e il personale della compagnia petrolifera che tornava al lavoro.
Udendo il proprio nome e riconoscendo Ron, Dick agitò a sua volta un braccio e iniziò a farsi largo verso di lui attraverso la folla che gli turbinava attorno.
Ron lo guardò avvicinarsi. Non lo vedeva da quando si era­no diplomati al college l'anno precedente, ma Dick aveva il suo solito aspetto: era l'immagine della normalità con la sua camicia Ralph Lauren e la giacca a vento, i jeans Guess e uno zainetto che gli pendeva da una spalla. Eppure Ron conosceva il vero Dick: l'ambizioso aspirante microbiologo che non ci pensava due volte a farsi un volo da Atlanta all'Alaska nella speranza di scoprire un nuovo microbo. Ecco qua un tipo che adorava i batteri e i virus. Li collezionava come gli altri colle­zionano le figurine del baseball. Ron sorrise e scosse la testa nel ricordarsi di come Dick tenesse le capsule di Petri con i microbi nel frigorifero comune, all'università del Colorado.
Quando si erano conosciuti erano entrambi matricole e a Ron era occorso un po' di tempo per abituarcisi. Anche se era indubbiamente un amico fidato, Dick era soggetto a stravagan­ze particolari e imprevedibili. Da un lato era un agguerrito par­tecipante alle attività sportive che si svolgevano al college e di sicuro il tipo che si vorrebbe aver vicino se ci si trovasse per errore a passeggiare nella parte sbagliata della città, dall'altro non era in grado di sacrificare una rana nel laboratorio di bio­logia del primo anno.
Ron si ritrovò a ridacchiare fra sé nel ricordare un altro mo­mento sorprendente e imbarazzante. Era stato durante il secon­do anno, quando un intero gruppo di studenti si era pigiato dentro una macchina per una gita sciistica durante il weekend. Guidava Dick; senza volerlo aveva investito un coniglio e co­me reazione era scoppiato in lacrime. Nessuno aveva saputo che cosa dire. La conseguenza di quell'episodio fu che alcuni cominciarono a parlargli dietro le spalle, soprattutto quando si seppe in giro che aveva l'abitudine di raccogliere gli scarafaggi che circolavano nel pensionato studentesco e metterli fuori, an­ziché schiacciarli e poi buttarli nel cesso come facevano tutti gli altri.
Nell'avvicinarsi alla jeep, Dick gettò la borsa sul sedile po­steriore, prima di afferrare la mano tesa di Ron.
Si salutarono con grande entusiasmo.
«Non ci posso credere!» esclamò Ron. «Voglio dire, tu qua! Nell'Artico!»
«Ehi non me lo sarei perso per tutto l'oro del mondo. Sono proprio eccitato. Quanto dista da qui l'accampamento eschi­mese?»
Ron si guardò attorno nervoso e riconobbe diverse persone dell'apparato di sicurezza. Girandosi di nuovo verso Dick, ab­bassò la voce. «Calmati», gli mormorò. «Ti ho avvertito che la gente qua è davvero permalosa al riguardo.»
«Oh, via!», lo schernì Dick. «Non puoi dire sul serio!»
«Sono tremendamente serio, invece. Potrei essere licenziato per aver fatto trapelare la cosa. Non c'è da scherzare. Voglio dire, dobbiamo farlo di nascosto, oppure non lo facciamo per niente. Non devi dirlo a nessuno, mai! Lo hai promesso!»
«Va bene, va bene», disse Dick, con una breve risata di pa­cificazione. «Hai ragione. Ho promesso. Solo, non pensavo che si trattasse di una cosa talmente importante.»
«È molto importante», confermò Ron. Cominciava a pensa­re di aver fatto un errore a invitare Dick, nonostante il grande piacere di rivederlo.
«Il capo sei tu», lo rassicurò l'amico, dandogli un pugno sulla spalla. «Ho le labbra cucite per sempre. Adesso calmati e rilassati.» Salì sulla jeep con un balzo. «Ma fiondiamoci subito a vedere questa scoperta.»
«Non vuoi prima vedere dove vivo?»
«Ho la sensazione che lo vedrò più di quanto me ne impor­ti», rispose Dick con una risata.
«Suppongo che non sia il momento sbagliato, mentre tutti sono indaffarati con il volo da Anchorage e si danno da fare con i turisti.» Ron allungò una mano e mise in moto la macchina.
Uscirono dall'aeroporto e si diressero a nordest lungo l'uni­ca strada. Era di ghiaia. Per parlare dovevano gridare, superan­do il rombo del motore.
«È a circa undici miglia verso Prudhoe Bay», spiegò Ron, «ma ci dirigeremo a ovest per altri due chilometri circa. Ricor­dati, se qualcuno ci ferma, ti sto solo portando a vedere il nuo­vo giacimento petrolifero.»
Dick annuì. Non riusciva a credere che il suo amico fosse così teso per quella faccenda. Guardandosi attorno per la tundra piatta, monotona e acquitrinosa e con il cielo di un grigio metallico, coperto di nuvole, si chiese se Ron non stesse su­bendo l'influsso di quel luogo. Immaginava che la vita non fosse facile sulla pianura alluvionale del versante settentrionale dell'Alaska. Per distrarlo osservò: «Il tempo non è male. Quan­ti gradi ci sono?»
«Sei fortunato. Prima c'era un po' di sole, per cui siamo sui dieci gradi. Qua non fa mai più caldo di così. Goditelo, finché dura. Probabilmente più tardi ci sarà qualche tempesta di neve. Di solito lo fa. La battuta perpetua è se sia l'ultima neve del­l'inverno passato o la prima neve dell'inverno che viene.»
Dick sorrise e annuì, ma non poté fare a meno di pensare che se la gente, lassù, la considerava divertente, allora era pro­prio messa male.
Qualche minuto dopo, Ron svoltò per una strada più piccola e più recente, che puntava verso nord.
«Com'è che hai trovato questo igloo abbandonato?» gli do­mandò Dick.
«Non era un igloo. Era una casa costruita con blocchi di tor­ba, rinforzati con ossi di balena. Gli igloo li facevano solo co­me ripari temporanei, per esempio quando andavano a caccia sul ghiaccio. Gli eschimesi Inupiat vivono in capanne di torba.»
«Ho capito. E come mai ti ci sei imbattuto?»
«Per puro caso. L'abbiamo trovata avanzando con il bulldo­zer per costruire questa strada. Abbiamo sfondato l'ingresso della galleria principale.»
«È ancora tutto lì?» domandò Dick. «Mi preoccupavo pro­prio di questo, mentre volavo qua. Insomma, non vorrei aver fatto il viaggio a vuoto.»
«Non temere. Non è stato toccato niente. Questo te lo posso assicurare.»
«Forse ci sono altre abitazioni nella zona. Chi lo sa? Potreb­be trattarsi di un villaggio.»
Ron alzò le spalle. «Forse. Ma nessuno vuole scoprirlo. Se qualcuno del governo ne avesse sentore, interromperebbero la costruzione della tubatura di alimentazione verso il nuovo gia­cimento. Sarebbe un disastro gigantesco, perché dobbiamo mettere in funzione la tubatura prima dell'inverno, e da queste parti l'inverno inizia in agosto.»
Ron iniziò a rallentare, mentre osservava un lato della stra­da. Alla fine si fermò di fianco a un mucchietto di pietre. Met­tendo una mano sul braccio di Dick, per farlo rimanere seduto, si voltò a guardare lungo la strada. Quando si convinse che non stava arrivando nessuno, scese dalla jeep e fece cenno all'ami­co di fare altrettanto.
Dalla parte posteriore del veicolo prese due giacche a vento vecchie e sudicie e dei guanti da lavoro. Ne porse un paio a Dick. «Ne avrai bisogno», spiegò. «Ci troveremo sotto lo strato di ghiaccio permanente.» Poi prese una pesante lampada a pile.
«Bene», aggiunse Ron, con un certo nervosismo. «Non ci potremo stare a lungo. Non voglio che passi qualcuno lungo la strada e si chieda che cosa diavolo sta succedendo.»
Dick lo seguì mentre lui si dirigeva a nord, allontanandosi dalla strada. Si materializzò come dal nulla una nube di zanza­re che li attaccò senza pietà. Guardando avanti, Dick poteva scorgere un banco di nebbia alla distanza di circa sette, otto­cento metri e intuì che segnava la costa dell'Oceano Artico. In tutte le altre direzioni non c'era nulla che spezzasse la monoto­nia della piatta tundra spazzata dal vento, sempre uguale a se stessa, che si stendeva fino all'orizzonte. Sulle loro teste vola­vano in cerchio i gabbiani, emettendo un rauco stridio.
A una dozzina di passi dalla strada, Ron si fermò. Dopo un'ultima occhiata per vedere se si stesse avvicinando qualche veicolo, si chinò e afferrò il bordo di un foglio di compensato che era stato dipinto in modo da mimetizzarsi con i variegati colori del territorio circostante. Lo spostò da una parte, rivelan­do una buca profonda poco più di un metro. Nella parete set­tentrionale della buca si celava l'ingresso a una piccola galleria.
«Sembra che la capanna sia stata sepolta dal ghiaccio», os­servò Dick.
Ron annuì. «Pensiamo che il pack, il ghiacco della banchisa polare, sia stato soffiato dalla costa durante una delle tremende tempeste invernali.»
«Una tomba naturale.»
«Sei sicuro di volerlo fare?»
«Non essere sciocco», borbottò Dick, infilandosi la giacca a vento e i guanti. «Ha fatto migliaia di chilometri per arrivare qua. Andiamo.»
Ron scese nella buca, poi si chinò carponi. Abbassandosi il più possibile, entrò nella galleria e l'amico gli fu alle calcagna.
Mentre avanzava strisciando, Dick riusciva a vedere molto poco, tranne la strana silouhette di Ron davanti a sé. Più si al­lontanava dall'ingresso, più l'oscurità gli si avvolgeva attorno come una coltre pesante, glaciale. Nella luce morente, notò il proprio respiro che si cristallizzava. Ringraziò Dio di non sof­frire di claustrofobia.
Dopo quasi due metri, le pareti della galleria si allargarono e il pavimento si abbassò un po' di più, facendo guadagnare lo­ro altri trenta centimetri di spazio sopra la testa. Si era creato uno spazio un po' maggiore di un metro. Ron si spostò di lato e Dick strisciò fino a metterglisi accanto.
«Fa un freddo cane qua sotto», osservò.
Il raggio della pila elettrica di Ron si spostò negli angoli a illuminare dei brevi montanti di costole di beluga.
«Il ghiaccio ha spezzato quegli ossi di balena come se fos­sero stuzzicadenti», commentò Ron.
«Dove sono gli abitanti?» chiese Dick.
Ron indirizzò il raggio di luce davanti a sé, verso un largo pezzo triangolare di ghiaccio che aveva sfondato il soffitto del­la capanna. «Dall'altra parte di quello», rispose e porse la pila all'amico.
Dick la prese e iniziò ad avanzare. Anche se non lo voleva ammettere, stava cominciando a sentirsi a disagio. «Sei certo che questo posto è sicuro?» domandò.
«Non sono certo di niente», rispose Ron. «Solo che è rima­sto così per settantacinque anni o giù di lì.»
Attorno al blocco di ghiaccio lo spazio era ridottissimo. Quando Dick arrivò a metà strada, indirizzò il fascio luce verso lo spazio che si apriva dall'altra parte.
Trattenne il respiro, mentre un piccolo ansito gli saliva alle labbra. Anche se pensava di essere preparato, l'immagine illu­minata dalla pila era più mostruosa di quanto si fosse aspettato. Aveva di fronte il viso esangue di un uomo bianco congelato, con la barba e vestito di pellicce. Stava seduto diritto. Gli oc­chi erano spalancati e azzurro ghiaccio e lo fissavano con aria di sfida. Attorno alla bocca e al naso c'era della bava rosa con­gelata.
«Li vedi tutti e tre?» domandò Ron dall'oscurità.
Dick fece scorrere il raggio di luce per la stanza. Il secondo cadavere giaceva supino, con la metà inferiore completamente circondata di ghiaccio. Il terzo si trovava in una posizione si­mile al primo, appoggiato semiseduto contro una parete. Erano entrambi eschimesi, con i lineamenti caratteristici, capelli e oc­chi scuri. Anche loro avevano la bava rosa congelata attorno al naso e alla bocca.
Dick rabbrividì, preso da un'improvvisa ondata di nausea. Non si era aspettato una reazione simile, ma passò in fretta.
«Hai visto il giornale?» gli chiese Ron.
«Non ancora.» Dick puntò la pila verso terra. Vide ogni ge­nere di rimasugli congelati tutti assieme, comprese piume di uccello e ossi di animali.
«È vicino al tizio con la barba», gli disse Ron.
Dick indirizzò il fascio di luce ai piedi dell'uomo seduto e vide immediatamente il giornale di Anchorage. I titoli parlava­no della guerra in Europa. Anche da dove si trovava riusciva a leggere la data: 17 aprile 1918.
Indietreggiò strisciando fino nell'anticamera. Il suo orrore iniziale era passato. Adesso era eccitato. «Penso che tu abbia ragione», disse. «A quanto pare, tutti e tre sono morti di pol­monite, e la data è esatta.»
«Lo sapevo che avresti trovato la cosa interessante.»
«È più che interessante. Potrebbe costituire l'occasione di tutta una vita. Mi servirà una sega.»
Dal viso di Ron il sangue parve defluire. «Una sega», ripeté sconcertato. «Stai scherzando.»
«Credi che mi lascerò scappare questa occasione?» gli do­mandò Dick. «Nemmeno per sogno. Mi serve un po' di tessuto dei polmoni.»
«Gesù Cristo!» mormorò l'amico. «È meglio che mi pro­metti ancora di non dirlo mai a nessuno!»
«Te l'ho già promesso», ribatté Dick, esasperato. «Se trovo ciò che penso di trovare, sarà per la mia collezione privata Non ti preoccupare. Non lo saprà nessuno.»
Ron scosse la testa. «A volte penso che tu sia uno strano tipo.»
«Prendiamo la sega», ripeté Dick Porse la pila a Ron e si avviò verso l'uscita.
 
Ore 18.40 - Aeroporto O'Hare, Chicago
 
Marilyn Stapleton guardò colui che da dodici anni era suo marito e si sentì straziare. Sapeva che i cambiamenti convulsi che avevano travagliato la loro famiglia avevano avuto l'im­patto maggiore su John, eppure doveva continuare a pensare alle figlie. Guardò le due bambine sedute sulle poltroncine nel­la zona delle partenze, che guardavano nervose verso di lei, in­tuendo che la loro vita, così come l'avevano conosciuta, era in bilico. John voleva che si trasferissero a Chicago dove stava iniziando un nuovo internato in patologia.
Marilyn indirizzò di nuovo lo sguardo verso il viso suppli­chevole del marito. Negli ultimi anni era cambiato. L'uomo ri­servato e sicuro di sé che aveva sposato, adesso era insicuro e amareggiato. Aveva perso undici chili e le guance un tempo piene e rubiconde si erano incavate, dandogli un aspetto scarno ed emaciato, in sintonia con la sua nuova personalità.
Marilyn scosse la testa. Era troppo duro ricordare che solo due anni prima erano stati l'immagine della famiglia suburbana di successo, dove lui gestiva il suo fiorente studio di oftalmolo­gia e lei aveva l'incarico di letteratura inglese all'università dell'Illinois.
Ma poi era apparso all'orizzonte il gigante dell'assistenza sanitaria, l'AmeriCare, imperversando su Champaign e altre numerose città dell'Illinois, ingoiando studi medici e ospedali con una velocità sorprendente. John aveva cercato di tener du­ro, ma alla fine aveva perso i pazienti. Si trattava di arrendersi o di fuggire e lui aveva scelto la fuga. Dapprima aveva cercato un altro posto come oftalmologo, ma quando era divenuto chiaro che di oftalmologi ce n'erano troppi e che sarebbe stato costretto a lavorare per l'AmeriCare o per una mutua simile, aveva deciso di prendere un'altra specializzazione.
«Penso che vi piacerà vivere a Chicago», disse John con to­no implorante. «E mi mancate terribilmente!»
Marilyn sospirò. «Anche tu ci manchi», disse. «Ma non è questo il punto. Se rinuncio al mio lavoro, le bambine dovran­no frequentare una scuola pubblica. Non ci possiamo permette­re una scuola privata, con il tuo stipendio di interno.»
Gli altoparlanti gracchiarono, annunciando che tutti i passeggeri con i biglietti per Champaign dovevano salire a bordo. Era l'ultima chiamata.
«Dobbiamo andare», disse Marilyn. «Perderemo l'aereo.»
John annuì e si asciugò una lacrima. «Lo so. Ma ci penserai?»
«Certo che ci penserò», sbottò Marilyn. Poi si dominò. So­spirò ancora. Non intendeva avere un tono adirato. «Non sto pensando ad altro», aggiunse con tenerezza.
Sollevò le braccia ad abbracciare suo marito e lui la strinse con forza.
«Attento», ansimò lei. «Mi romperai una costola.»
«Ti amo», le disse John con voce soffocata. Aveva sepolto il viso nell'incavo del suo collo.
Dopo avergli mormorato i propri sentimenti, Marilyn si staccò da lui e radunò Lydia e Tamara. Diede le carte d'imbar­co all'addetto ai biglietti e guidò le bambine giù per la rampa. Camminando, lanciò un'occhiata a John attraverso il vetro. Mentre svoltavano nel corridoio di collegamento, lo salutò con la mano. Sarebbe stata l'ultima volta.
«Dovremo trasferirci?» chiese Lydia con voce lamentosa. Aveva dieci anni e faceva la quinta elementare.
«Io non mi muovo», dichiarò Tamara. Aveva undici anni ed era dotata di una forte volontà. «Andrò da Connie. Ha detto che posso stare da lei.»
«E sono certa che ne ha parlato con sua madre», commentò Marilyn con sarcasmo. Stava ricacciando indietro le lacrime e non voleva che le figlie se ne accorgessero.
Permise loro di precederla sul piccolo aereo a elica. Le indi­rizzò ai posti assegnati e dovette sedare una lite su chi avrebbe dovuto stare da sola. I sedili erano a due a due.
Rispose alle loro suppliche appassionate su che cosa avreb­be portato il futuro, dando loro risposte molto vaghe. In realtà, non sapeva che cosa fosse meglio per la famiglia.
I motori furono messi in moto con un rombo che rese più difficile la loro conversazione. Mentre l'aereo lasciava il termi­nal e si spostava lentamente verso la pista di decollo, mise il naso al finestrino. Si chiese se avrebbe avuto la forza di pren­dere una decisione.
Un lampo di luce a sudovest fece sobbalzare Marilyn, strap­pandola ai suoi pensieri. Le ricordava sgradevolmente la prevenzione che aveva per i voli dei pendolari. Verso gli aerei pic­coli non nutriva la stessa fiducia che aveva per i jet di linea. Inconsciamente strinse più forte la cintura di sicurezza e con­trollò di nuovo quelle delle figlie.
Durante il decollo tenne stretti i braccioli con forza, come se pensasse che il suo sforzo avrebbe aiutato l'aereo a salire. Soltanto quando la terra si fu allontanata in modo significativo sotto di lei, si rese conto di aver trattenuto il respiro.
«Per quanto tempo dovrà vivere a Chicago papà?» domandò Lydia dall'altra parte del corridoio.
«Per cinque anni», rispose Marilyn. «Fino a che non finirà la specializzazione.»
«Te l'ho detto», gridò Lydia a Tamara. «Per allora saremo vecchie.»
Un sobbalzo improvviso fece riprendere a Marilyn la posi­zione di prima, con le mani strette sui braccioli. Si guardò at­torno per l'abitacolo. Il fatto che nessuno si lasciasse prendere dal panico le diede un po' di sollievo. Guardando fuori del fi­nestrino, vide che erano completamente avvolti dalle nubi. La luce vivida di un fulmine rischiarò il cielo in modo spettrale.
Mentre si dirigevano verso sud, la turbolenza aumentò, co­me pure la frequenza dei lampi. Il succinto annuncio del pilota che avrebbero cercato una zona più tranquilla a una diversa al­titudine servì ben poco ad alleviare i timori crescenti di Mari­lyn. Desiderava tanto che il volo fosse già terminato.
Il primo segno del vero disastro fu una strana luce che riem­pì l'aereo, seguita all'istante da un tremendo sobbalzo e da vi­brazioni. Parecchi passeggeri si lasciarono sfuggire grida sop­presse a malapena che fecero gelare il sangue nelle vene a Mari­lyn. Istintivamente allungò un braccio e strinse a sé Tamara.
La vibrazione aumentò di intensità, mentre l'aereo iniziava un disperato rollio verso destra. Allo stesso tempo il rumore dei motori si trasformò da un rombo a un lamento assordante. Sentendosi schiacciare contro il sedile e perdendo l'orienta­mento nello spazio, Marilyn guardò fuori del finestrino. Dap­prima non vide altro che nuvole, ma poi rivolse lo sguardo in avanti e il cuore le balzò in gola. La terra stava correndo loro incontro a una velocità pazzesca! Stavano volando a capofitto verso il basso...
 
Ore 22.40 - Manhattan General Hospital, New York
 
Terese Hagen cercò di deglutire, ma era difficile; aveva la bocca secca come la polvere. Qualche minuto dopo gli occhi le si spalancarono e per un momento fu disorientata. Quando si rese conto di trovarsi nella sala di risveglio in chirurgia, tutto le tornò alla memoria in un lampo.
Il problema era iniziato senza preavviso quella sera, proprio quando lei e Matthew stavano per uscire a cena. Non c'era sta­to dolore. La prima cosa di cui si era accorta era stato il bagna­to, in particolare all'interno delle cosce. Andando in bagno, era rimasta allibita nello scoprire che stava sanguinando. E non so­lo a tratti, era una vera e propria emorragia. Dato che era incin­ta di cinque mesi, si era preoccupata.
Da quel momento gli eventi si erano svolti rapidamente. Era riuscita a contattare il suo medico, la dottoressa Carol Glanz, che si era offerta di incontrarla al pronto soccorso del Manhat­tan General Hospital. Una volta lì, i sospetti di Terese erano stati confermati e si era delineata la necessità di un intervento chirur­gico. Secondo il medico l'embrione si era impiantato in una tu­ba anziché nell'utero: una gravidanza extrauterina.
Entro pochi minuti da quando aveva ripreso conoscenza, le fu al fianco un'infermiera a rassicurarla che tutto andava bene.
«E il mio bambino?» domandò Terese. Percepiva un'ingom­brante medicazione sul suo addome preoccupantemente piatto.
«Il suo medico ne sa più di me», le rispose l'infermiera. «Le farò sapere che è sveglia. So che vuole parlare con lei.»
Prima che l'infermiera se ne andasse, Terese si lamentò per l'arsura in gola e ricevette qualche cubetto di ghiaccio: la fre­scura che le procurò fu una vera benedizione.
Poi chiuse gli occhi. Dovette pisolare, perché a un certo punto sentì la voce della dottoressa Carol Glanz che la chiama­va per nome.
«Come si sente?» le domandò la dottoressa.
Terese la rassicurò che stava bene, grazie ai cubetti di ghiac­cio. Poi le domandò del bambino.
La dottoressa Glanz respirò a fondo, quindi allungò una mano e gliela pose sulla spalla. «Purtroppo devo darle due brutte notizie.»
Terese si accorse di irrigidirsi.
«Era una gravidanza edipica», disse la dottoressa, cadendo nel gergo medico per rendere un po' più facile un compito dif­ficile. «Abbiamo dovuto porre fine alla gravidanza e, natural­mente, il bambino non poteva vivere.»
Terese annuì, senza mostrare emozione. Questo se lo era aspettato e aveva cercato di prepararsi. Ciò per cui non era pronta era l'altra cosa che le disse il medico.
«Purtroppo l'operazione non è stata facile. C'erano delle complicazioni, era quello il motivo per cui sanguinava così ab­bondantemente quando è arrivata al pronto soccorso. Abbiamo dovuto sacrificare il suo utero. Abbiamo dovuto praticare una isterectomia.»
Dapprima il cervello di Terese fu incapace di comprendere ciò che le era stato detto. Annuì e guardò il suo medico come se si aspettasse altre informazioni.
«Sono certa che questo è molto penoso per lei», continuò la dottoressa Glanz. «Voglio che sappia che è stato fatto tutto il possibile per evitare questa sfortunata conclusione.»
L'improvvisa comprensione di ciò che le era stato detto sconvolse Terese. La sua voce silenziosa ruppe i legami che la soffocavano e le salì alle labbra in un grido: «No!»
La dottoressa Glanz le strinse la spalla in un gesto di com­prensione. «Dato che doveva essere il suo primo figlio, so che cosa significa questo per lei», le disse. «Mi spiace tremenda­mente.»
Terese gemette. Era una notizia talmente sconvolgente che per il momento si trovò al di là delle lacrime. Era insensibile. Per tutta la vita aveva pensato di avere dei figli. Era una cosa che faceva parte della sua identità. L'idea che le fosse diventa­to impossibile era troppo difficile da afferrare.
«E mio marito?» riuscì a domandare. «Gli è stato detto?»
«Sì. Ho parlato con lui appena è finita l'operazione. È di sotto, l'aspetta nella sua camera dove sono certa che verrà ri­portata fra poco.»
La conversazione con la dottoressa Glanz continuò, ma Te­rese ricordò ben poco di essa. L'effetto di quelle due notizie, che aveva perduto il bambino e che non poteva mai più averne altri, era devastante.
Un quarto d'ora dopo arrivò un inserviente per riportarla in camera sua. Il percorso fu rapido. Terese non si rendeva conto di ciò che la circondava, la sua mente era in subbuglio, aveva bisogno di essere rassicurata e sostenuta.
Quando raggiunse la sua camera, trovò Matthew che stava parlando al telefonino. Come agente di cambio, quello era il suo inseparabile compagno abituale.
Le infermiere del piano trasferirono con perizia Terese nel suo letto e appesero una fleboclisi a un sostegno dietro di lei. Dopo essersi assicurate che tutto era a posto e averla incorag­giata a chiamarle se aveva bisogno di qualcosa, se ne andarono.
Terese guardò Matthew, che aveva distolto lo sguardo appe­na finita la telefonata. Si preoccupava della reazione che avreb­be avuto a quella catastrofe. Erano sposati da soli tre mesi.
Con un definitivo clic lui chiuse il telefono e lo infilò nella tasca della giacca. Si voltò verso la moglie e la fissò per un momento. Aveva la cravatta allentata e il colletto della camicia sbottonato.
Terese cercò di interpretare la sua espressione, senza riuscir­ci. Vide che si stava masticando l'interno della guancia.
«Come stai?» le chiese lui alla fine, mostrando poca emozione.
«Come ci si può aspettare», riuscì a rispondere lei. Deside­rava disperatamente che le venisse vicino e la stringesse, ma lui manteneva le distanze.
«È una situazione curiosa», commentò Matthew.
«Non sono sicura di capire che cosa intendi.»
«Semplicemente che il motivo principale per cui ci siamo sposati si è appena dissolto. Direi che il tuo piano è andato storto.»
Terese rimase a bocca aperta. Sbalordita, dovette lottare per trovare la voce. «Non mi piacciono le tue insinuazioni», riuscì a dire. «Non sono rimasta incinta di proposito.»
«Be', tu hai la tua versione e io ho la mia. Il problema è: che cosa facciamo adesso?»
Terese chiuse gli occhi. Non riusciva a rispondere. Era come se Matthew le avesse affondato un coltello nel cuore. In quel momento seppe che non lo amava. Anzi, lo odiava...

 

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