giovedì 30 gennaio 2025

Roberto Santini: L'assaggiatore di caffè


Com’era diventato assaggiatore di caffè? Guardò avanti. La vecchia foto alla parete, l’immagine ingiallita della drogheria genovese di suo padre.
Alla scelta aveva contribuito l’odore di quella bottega che Nunez si era tenuto nel naso per almeno vent’anni, quando non era ancora assaggiatore: profumo di caffè boliviano, soprattutto, il famoso “suave”, senza dimenticare la fragranza inconfondibile della moka d’Arabia. Comunque nella decisione c’entrava senza dubbio anche il suo talento per la ricerca del particolare. C’entrava pure l’aver studiato agraria, per lo meno per un certo periodo alla fine degli anni sessanta; non ultima ragione un viaggio in Sud America. Poi succede che il destino ti assegna un’indole, una capacità, un’attitudine e tu la puoi adoprare o no. Il fato ti apre una porta. O meglio ad un tratto ti accorgi che c’è una porta che puoi aprire.
A te la decisione.
In Guatemala si coltiva l’arabica, una delle più pregiate qualità di caffè.
I chicchi trattati ad umido sono fra i migliori del mondo, hanno forma allungata e appiattita, il loro colore è verde intenso. Il caffè guatemalteco ha basso contenuto di caffeina ed è sicuramente fra i più buoni esistenti. In Guatemala Nunez aveva fatto anche il raccoglitore di caffè nelle fincas per un anno, quando ancora credeva nell’avventura, poi si era deciso a cambiare vita ed era diventato assaggiatore, o meglio, provador. Ogni azienda produttrice ha i suoi analizzatori di fiducia che, con il rito dell’assaggio, dicono l’ultima parola sulla qualità del caffè.
Il provador di caffè ha l’obbligo di non bere alcolici e di non fumare. Ne vanno di mezzo il gusto e l’olfatto. L’impronta del liquido caldo risucchiato con sapienza, deve giungere incontaminata da altre sostanze e ha bisogno di trovare il giusto terreno dove allargarsi.
Grosse gocce cremose, un concentrato d’aroma, sacro calore del fuoco, luce del sole. Nero latte a bollore. Nunez era stato un buon provador. Il fumo che gli spennacchiava il naso era una fonte di innumerevoli informazioni per lui che con le narici lavorava duro. Ci vuole anche l’acqua se l’acqua è una porcheria, hai voglia di essere bravo. Cenere in bocca. E basta. Smettere con l’alcol era stato meno difficile di quanto non avrebbe mai sospettato. Aveva smesso praticamente da un giorno all’altro. Tutto sommato non era mai stato un ubriacone. Sapeva quando arrivava l’ultimo bicchiere. Non gli piaceva andare fuori di testa e tutti lo rispettavano per questo. Aveva ripreso a bere da un po’ di tempo e le sue famose qualità di assaggiatore si erano di molto affievolite, così lui non era più in grado di giudicare come una volta le partite di caffè, sbarcate nel porto di Genova. Gran brutta faccenda e alla multinazionale del fottutissimo caffè per la quale lavorava, cominciavano ad accorgersi delle sue diminuite capacità come provador. Tutto lì.
Tanto valeva farsi un ultimo Coffee Cobbler con il cognac, crema caffè e zucchero. Dopo una pistola in bocca e crepare così, lasciando teatralmente il mondo, smettendola di morire lentamente come una vecchia pianta. Ormai la sua vita sbagliata e solitaria non aveva più senso, era diventata un pe so e anche l’alcol non l’aiutava più come un tempo. Pensava a tutto questo con il naso infilato nel bicchiere, poi ad un tratto, seguendo una traiettoria leggermente arcuata, il suo sguardo andò avanti. Dalla finestra, all’ombra rosa che il tramonto proiettava sul pavimento di legno, si mosse lentamente fino al cesto colmo di segale ed erica, carezzando il paniere portapane, spostandosi indolente al vecchio tavolo in tarsia di marmo, contando i libri, le statuette, raggiungendo infine la solida porta punteggiata di chiodi, abbellita dalla serratura di ferro battuto inserita nel vano sagomato. Qualcuno là dietro stava suonando con insistenza il campanello. Quel modo di suonare fatto apposta per innervosire, quel premere continuo, cadenzato fino a rendersi eccessivo, insopportabile, perfino indiscreto.
Nunez non si sarebbe voluto alzare dalla poltrona di vimini nella quale stava semisdraiato. Così si tirò su a fatica, strascicò i piedi, calpestò il tappeto, ricordo del Sud America, raggiunse la porta e sospirò.
Aprì. Il viso del capo contabile Filippo Toma, gli apparve diviso in due da una linea di luce bianca che si rifletteva da qualche parte sul muro di calce accanto alla porta. Filippo Toma gli somigliava fisicamente, stessi occhi, stessa bocca, uguale pettinatura. Solo il naso un po’ aquilino lo differenziava: sembravano fratelli e tutti lo dicevano. Si somigliavano anche nel modo di vivere. Tutti e due rigorosamente solitari, senza donne, né parenti. Nunez aveva solo una vecchia zia che viveva a Padova, poi nessuno. Tutti morti, Filippo Toma lo guardò arrossendo leggermente.
«Mi fai entrare, Nunez?»
«Mi chiamo Giovanni Corso», gli rispose spazientito «Nunez è il nome che mi davano in Sud America.»
«Scusa, mi fai entrare?»
Nunez fece un cenno con la testa e il contabile scivolò dentro, chiudendosi la porta alle spalle. «Ti chiederai perché sono qui…», disse subito un po’ imbarazzato.
Già, perché era lì? Nunez si ricordava vagamente di averci parlato durante un’orrenda gita aziendale, una decina di anni prima. Tutti si erano divertiti a scherzare sulla loro somiglianza. Lui e Toma avevano riso dandosi delle pacche sulle spalle. Basta. Quella volta Nunez aveva anche ballato, fra i boati mostruosi fatti passare per musica, che si diffondevano in mezzo alla nebbia delle sigarette. Una delle due gemelle si pettinava i capelli biondi ritti come stecchi. Si era dipinta gli occhi di verde e il suo volto sembrava un incubo. Aveva un labbro gonfio. “O era una bolla o l’avevano menata”, pensò Nunez, che cominciò a fissarla. Quando lo guardò, lui le fece l’occhiolino. «Non mi romper i coglioni», disse lei d’un fiato, carezzandosi la pancia floscia con entrambe le mani. Nunez si scosse da quel ricordo e tornò ad interessarsi del capo contabile che lo fissava e piegava la bocca in una buffa espressione imbronciata. «Lo sai che in Italia si consumano .000 tonnellate di caffè ogni anno?» domandò Toma ad un tratto. Nunez lo scrutò serio.
«Sei venuto per dirmi questo?»
L’altro non l’ascoltò. «Hai mai calcolato di che giro d’affari si tratta?»
«No.»
«Sono tanti miliardi, un’esagerazione, un’enormità.» Nunez scosse la testa.
«Io non mi sono mai occupato delle tonnellate», disse, «la mia attività si limita all’assaggio di semplici tazzine di caffè, non ho mai fatto il conto di…»
Toma lo interruppe con un gesto della mano. «Per il loro sudicio caffè ci siamo svenati per anni, tu con le tue tazzine, io con le cifre che continuavano a passarmi sotto il naso.»
«E allora?» Toma sbatté gli occhi come se si fosse svegliato in quel momento e cercasse di capire dove si stava trovando.
«Allora», disse, «nessuno avrà qualcosa in contrario se lira dopo lira, conto dopo conto, giorno dopo giorno, mi sono fottuto quasi dieci miliardi e li ho con cura versati in una banca della mia città. A proposito, lo sai che sono originario di Savona?»
Nunez si era dipinto sulla faccia un sorriso ebete, ma con la coda dell’occhio aveva intravisto la pistola sulla scrivania. «Stai scherzando?» domandò facendo un passo di lato, mettendosi così davanti al contabile, che se ne stava in piedi fra lui e la scrivania.
«Quale scherzo? È tutto rigorosamente vero…» Toma, rosso in faccia, continuò a parlare guardandosi intorno, come per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando: «Non mi possono trovare, è stata un’operazione condotta con il massimo scrupolo e, se mi permetti la definizione leggermente impropria, con… professionalità.»
«Queste cose alla fine si scoprono.»
«Cazzate. Mi ci sono voluti sette anni, è stato un lavoro di pazienza e di tattica, non mi hanno beccato fino ad oggi, non mi scopriranno nemmeno in seguito, fra l’altro per loro quella cifra è roba da ridere, si tratta di nulla, dammi retta.»

Nunez fece un passo indietro e si appoggiò sul bordo della scrivania. Non voleva che Toma vedesse la pistola. Si grattò il mento e abbozzò un’espressione incerta. «Perché mi stai raccontando tutto questo?» Lo aveva detto con calma, con una voce quasi ispirata. Il capo contabile si sedette sul divano. «Perché, ritirati i soldi me ne voglio andare via e tu conosci bene il Sud America.»
«Ah, per quello …»
«Tu conosci sicuramente un indirizzo, un nome, un cazzo di posto dove mi posso tranquillamente ritirare con i soldi. Ti ricompenserò per questo.»
Già il Sud America. Immagini cominciarono a roteare davanti agli occhi di
Nunez, che ripensò al mare, ai sorrisi di donne lontane, a un vivere diverso, più pieno, più appagante. Quante volte aveva sognato di tornare laggiù? Per ritrovare la gioventù, come aveva detto una volta al suo analista che non aveva risposto e si era limitato a sospirargli alle spalle. Si sentì d’un tratto triste e imprecò fra sé. Mentre Toma continuava a parlare di soldi, di idee di grandezza, di lusso, Nunez iniziò a concepire un’idea assurda alla quale mai e poi mai, in una situazione normale, avrebbe pensato, ma che in quelle circostanze diventava un’eventualità accettabile, se non logica e naturale.
Toma seguitava a blaterare di un imbarco, o di un aereo, era lo stesso, poi là in Sud America avrebbe preso i giusti contatti e la sua vita sarebbe cambiata. Ville, piscine, benessere. I progetti del capo contabile, riuscivano miracolosamente a rendere sempre più chiaro il piano che lucidamente si stava congegnando nella mente di Nunez. La pistola.
Dov’era la pistola? Sorridendo comprensivo allungò un braccio. Eccola. «Ma non è stato un rischio mettere i soldi in una banca della tua città?» chiese ad un tratto.
«Savona?», Toma ridacchiò, «ci manco da vent’anni, lì praticamente non conosco nessuno.»
Perfetto. Nunez si era tolto anche quest’ultimo dubbio. Davanti a lui c’era un ladro bastardo che gli stava porgendo su un luccicante vassoio la soluzione di tutti gli infami problemi della vita. Miliardi nascosti in una banca, bastava presentarsi e portarli via, non occorreva altro che prendere il posto del contabile che tanto gli somigliava. Non doveva essere così difficile, dopo tanti anni passati a crogiolarsi in un’esistenza tranquilla, ecco che il destino gli dava di nuovo l’opportunità di sfidare la vita. Bastava andare là dov’erano i soldi, sostituire il contabile e intascarli. Licenziarsi al posto suo. Imbarcarsi e trasferirsi in Sud America. Diventare Filippo Toma, L’idea gli sembrò magnifica e si sentì perfino orgoglioso di averla avuta. Dieci minuti prima stava per spararsi, ora tutto cambiava. Alla fine il nuovo piano differiva poco dal precedente, perché un Giovanni Corso, conosciuto come Nunez, doveva morire lo stesso… Questo almeno per la gente, per il mondo e per i giornali locali che ne avrebbero parlato. Lui poi, il vero Giovanni Corso, l’assaggiatore, avrebbe assunto l’identità di Filippo Toma e se ne sarebbe andato via con i soldi. Grandioso.
Essenziale per la riuscita del piano, far trovare un Giovanni Corso morto, e chi meglio del suo sosia, poteva recitare la parte? Lo aveva a disposizione, addirittura a domicilio. Un’occasione irripetibile. Sparare a Toma, farlo trovare dalla polizia in casa sua, la casa di Giovanni Corso, con ancora la pistola in mano. Per tutti la verità sarebbe stata una sola: l’assaggiatore di caffè si era sparato. Lui intanto, il vero assaggiatore, una volta trasformato in capo contabile, si sarebbe licenziato e avrebbe ritirato i soldi prima di fuggire. Toma era uno che viveva da solo, un senza famiglia, nessuno l’avrebbe mai cercato. Tornava tutto alla perfezione. Stringeva ormai la pistola da alcuni minuti, ora bastava tirar fuori la mano da dietro la schiena e far fuoco. Mirare la faccia da pochi centimetri. Avrebbero trovato il cadavere con il viso deturpato dallo sparo. Ci sarebbero cascati tutti. Fu preso da una sorta di auto esaltazione, quel giorno stava dimostrando di essere un genio, ora non restava che attuare senza esitazioni il piano. Il suono melenso di un sassofono cominciò a levarsi da chissà dove, Nunez si mise ad ascoltarlo, smettendo nel contempo di occuparsi di quanto stava dicendo Toma. Quella musica gli ricordava qualcosa, ma ora non era il momento adatto per occuparsene. Doveva uccidere un uomo.

Si sorprese della freddezza e della lucidità che stava dimostrando, pensò che evidentemente non si finisce mai di conoscersi. Fece due passi. Si avvicinò al divano. Puntò la pistola, restò per alcuni istanti con l’espressione stupita del contabile fotografata dentro gli occhi e sparò.
Un colpo solo e un fracasso del diavolo. Gli sparò in piena faccia. Toma non fece in tempo ad alzarsi, ricadde a sedere rovesciando la testa indietro, rimanendo esanime con le braccia lungo il corpo e le mani appoggiate sul divano, con le palme rivolte verso l’alto. Ecco fatto. Il sassofono si era zittito, ma dopo pochi istanti riprese la sua litania.
Nunez guardò con attenzione Toma riverso sul divano. Per prova gli mise subito la pistola in mano. Le impronte digitali? Il problema non esisteva. Chi è che si prende la briga di rilevare le impronte ad un suicida?
Slacciò il colletto e allentò la cravatta del morto. Eccolo lì, Giovanni Corso, il provador che si era sparato. Lui intanto era diventato da pochi secondi, a tutti gli effetti, Filippo Toma il capo contabile. Cercò di riordinare le idee. Prima cosa spogliare e rivestire il morto, poi lo scam bio dei documenti, dopo scrivere un biglietto d’addio. Doveva semplicemente “imitare” la calligrafia di se stesso e firmare per l’ultima volta con il suo vero nome. Andò in cucina, prese un sacco di plastica e tornò svelto in salotto. Appoggiò il sacco sul divano e cominciò a spogliare con cura il cadavere. Gli tolse tutto, compreso l’orologio e la catenina che mise da una parte. Ficcò gli abiti nel sacco, incluse le scarpe, poi corse in camera. Tornò con una delle sue magliette e con la camicia a righe rosse. Gli tolse di nuovo la pistola di mano e fece la massima attenzione a non sporcare di sangue la maglietta bianca. Con la camicia fu più facile. Poi tornò in camera: pantaloni, mutande, pedalini e scarpe. Lo rivestì con cura. Doppio nodo alle scarpe come faceva sempre lui. Poi l’orologio. Con non poco rimpianto gli sistemò al polso l’orologio d’oro vinto nella manifestazione internazionale dei provador, poi gli mise di nuovo la pistola in mano. La destra. Toma era mancino, ma lui stava sceneggiando il suicidio di se stesso, dunque mano destra. Si infilò al polso l’orologio del contabile e al collo la catenina con la croce. La giacca. Frugò nella giacca del morto, trovò il portafoglio che appoggiò sulla scrivania, poi trovò la pistola. Il contabile Filippo Toma era armato, portava con sé una calibro 22 in buono stato. Nunez si grattò la zucca, mise la pistola accanto al portafoglio e tirò fuori dalla giacca le chiavi della macchina. Rimirò il risultato. Certo che poteva essere lui… Chiunque avesse trovato Toma sul divano in quella stanza, in quella casa, col viso sfigurato e la pistola in mano, avrebbe pensato che si trattava del provador Giovanni Corso. Tornò in camera, prese dalla sua giacca il portafoglio e tornò in salotto. Tirò le tende e accese la luce da tavolo. Non senza fatica spostò il morto e gli mise il portafoglio nella tasca dei pantaloni. Ora era perfetto. Aveva anche i documenti di riconoscimento… Nunez tirò il fiato, c’era però un dubbio che continuava a girargli nella testa: perché quella pistola? Cominciò a pensare che forse tutto il piano di fuga organizzato dal contabile comportasse dei rischi.
Chi, oltre a Toma, sapeva dei soldi? Non c’era una risposta.
Probabilmente il contabile temeva il viaggio verso il Sud America, o forse aveva paura di trovarsi in un paese straniero con un sacco di soldi. Sì, la ragione doveva essere quella. Toma aveva paura. Era un solitario, non aveva parenti, né amici che lo potevano aiutare. In quelle condizioni una pistola era importante. Nunez si girò verso la scrivania. Doveva decidersi a scrivere un biglietto d’addio, poi era necessario esercitarsi sulla firma del contabile e per quello bastava imitare la firma della carta d’identità.
Si sedette, spostò la calibro 22, aprì il cassetto, tirò fuori un foglio bianco e cominciò a scrivere. Iniziò con un “chiedo perdono a tutti”, che gli parve abbastanza banale e retorico da sembrare vero. Alla fine appoggiò il foglio sul divano accanto al morto. Si spostò verso la finestra e scrutò fuori. Nella piazzetta ormai avvolta dall’oscurità, c’era solo un’altra auto oltre la sua. Doveva essere per forza quella di Toma.
Prese il sacchetto di plastica con i vestiti, si mise in tasca la pistola e agguantò la giacca del contabile. Si guardò intorno. Tutto era a posto.
Una strana sensazione di vuoto gli serrò la gola. Non ci pensò. Si girò di scatto verso la porta e, senza più voltarsi indietro, uscì. In quel momento i lampioni della piazza cominciarono a lampeggiare tutti insieme, poi si accesero.
Era la macchina di Toma. Infilò la chiave e lo sportello si aprì. Una volta dentro cominciò a frugare nel cruscotto. La lettera venne fuori subito.
Aprì la busta e lesse. Uno che si chiamava Aldo copriva di offese Filippo Toma, gli diceva che il loro amore era finito e lo minacciava di morte.
Toma omosessuale? Era la prima volta che lo sentiva. Ripensò alla pistola. Ecco perché il capo contabile girava armato, c’era un suo amichetto che lo minacciava. Logicamente Nunez pensò che ormai quelle intimidazioni riguardavano anche lui, visto che da un’ora si era trasformato in Filippo Toma. Cazzo! Ti pareva che le cose andassero lisce!
Smise subito di compiangersi e pensò al da farsi immediato. Per prima cosa doveva andare a casa di Toma, radunare tutto per bene, dirigersi verso
Savona, prendere i soldi e poi un aereo. Presto. Una volta in Sud America, avrebbe cambiato nome, nessuno, nemmeno Aldo, lo poteva trovare; laggiù sapeva bene a chi rivolgersi e ora i soldi non gli mancavano di certo.
Mise in moto e guidò in una sorta di nebuloso stato alterato di coscienza. Toma abitava in collina, in una fottuta palazzina di quattro piani. Doveva salire senza che nessuno degli inquilini si accorgesse della sua presenza, qualcuno avrebbe potuto capire che lui non era il contabile. Doveva agire con prudenza e non trascurare nessun dettaglio.
Parcheggiò vicino. Attraversò di corsa e, una volta davanti al portone, cominciò ad armeggiare con le chiavi. Dopo un’eternità riuscì ad aprire.
Salì a piedi. Il contabile abitava al secondo piano. Entrò. Il buio era totale. A tentoni trovò l’interruttore e accese. C’era un breve corridoio che conduceva ad un grande soggiorno. Perquisì velocemente la casa. Poi mise sul letto una valigia e aprì l’armadio. Un paio di vestiti e via. Non chiuse la valigia, tornò nel soggiorno. In un angolo che faceva da studio notò la scrivania e la poltrona di cuoio nero. Accanto ai libri, incorniciata d’argento, c’era la fotografia di Aldo con tanto di firma. Una faccia sorridente, tutti i denti in bocca, lo sguardo intelligente. Frugò nel cassetto centrale. Subito venne fuori il libretto di assegni del Credito Savonese. Bingo! Segnò il numero del conto su un foglietto che ripiegò e mise accuratamente nel portafoglio di Filippo Toma, quello che ora era il suo portafoglio. Trovò il passaporto che il contabile teneva a portata di mano viste le sue intenzioni di fuga.
Poi passò ai cassetti di lato: primo, secondo, terzo cassetto. Giovanni Corso, il suo nome era scritto a pennarello su una cartella gialla. Non riuscì subito a capire. La mise sul tavolo e l’aprì. C’era il suo certificato di nascita, lo stato di famiglia, addirittura il certificato del casellario giudiziario. In un foglio intestato ad una società di investigazioni erano appiccicate alcune fotografie che lo ritraevano alla guida, al parcheggio, di fronte alla porta di casa. Stava cominciando a sudare. Sicché Toma l’aveva fatto pedinare e aveva preso informazioni su di lui. C’era anche una sorta di relazione, una pagina, nella quale si descriveva in breve la sua vita e i suoi viaggi in Sud America. Nunez strizzò gli occhi. Così il capo contabile si era voluto cautelare. Prima di rivelargli le sue intenzioni, si era informato sulla sua vita, sulle sue abitudini, sulle sue conoscenze. Ecco perché sapeva del soprannome. Solo chi era stato con lui in Guatemala sapeva che laggiù Giovanni Corso era chiamato Nunez. Non ci aveva fatto subito caso, era abituato a sentirsi chiamare così, ma in effetti era strano che il capo contabile, che lo conosceva appena, fosse informato su un simile particolare. Nunez si passò una mano sul viso da est ad ovest. Be’, in fin dei conti tutto ciò rendeva ancora più sicuro il piano escogitato da Toma. Si era semplicemente cautelato. In fin dei conti c’era tutta la sua vita in ballo, logica l’in tenzione di rivolgersi a qualcuno pienamente affidabile. Ora era necessario far sparire al più presto quel fascicolo; il nome di Giovanni Corso non doveva in alcun modo essere collegato con Filippo Toma. Si alzò, tornò in camera con la cartella sotto il braccio e ricominciò a frugare nei cassetti, nel comò, nei comodini. Non trovò altro. Andò in cucina, frugò anche lì, gli sportelli, perfino il frigorifero, poi accese uno dei fornelli e dette fuoco al dossier che lo riguardava.

Aprì la finestra per fare uscire il fumo, poi tornò a sedersi alla scrivania. Era sfinito, ma doveva allenarsi con la firma. In banca gli avrebbero sicuramente chiesto di firmare qualcosa e non voleva commettere stupidi errori. Tirò fuori il portafoglio e lo aprì. Estrasse la carta d’identità e la patente. Sorrise. Sembrava la sua foto. La somiglianza era impressionante. Se avesse imparato a fare la firma, nessuno si sarebbe mai insospettito. Si mise al lavoro. Riempì di firme quattro o cinque fogli. Guardò l’orologio, erano le undici. Si massaggiò gli occhi e riprese ad allenarsi. In quel momento suonò il telefono. Rimase alcuni istanti come paralizzato, alla fine udì la segreteria telefonica.
«Lo so che ci sei» disse la voce di Aldo che continuò con minacce e improperi. «Domani mattina passerò da te e guai se non ti trovo», disse ancora. Nunez prese ad agitarsi, doveva far presto e andarsene prima dell’arrivo di quel matto. Continuò a scarabocchiare firme, fino a convincersi di chiamarsi davvero Filippo Toma. Doveva anche scrivere una lettera di licenziamento. Era essenziale che nessuno dei colleghi sospettasse qualcosa per l’assenza del contabile. Accese il computer, pestò sui tasti poche righe di circostanza e stampò presto il tutto.
Cercò febbrilmente una busta, vi infilò il foglio, chiuse e scrisse l’indirizzo. Certo era possibile che Toma si fosse già licenziato. Una seconda lettera di licenziamento avrebbe destato dei sospetti? Quali? Gli si chiudevano gli occhi, sarebbe stato saggio dormire un’oretta, ma i pensieri si stavano affollando nel cervello e lo confondevano. Tirò un lungo sospiro e concluse che una seconda lettera di licenziamento, alla fine non avrebbe creato grossi guai. Lui poi sarebbe sparito entro pochissimi giorni.
Quella notte dormì poco e male. Seduto sulla poltrona, con la pistola vicino, sobbalzando ad ogni minimo rumore. Non temeva tanto per le intenzioni minacciose di quell’Aldo. Aveva paura di essere riconosciuto e Aldo era forse l’unica persona in grado di smascherarlo. Si doveva svegliare prestissimo, per questo aveva aperto le imposte e le tende.
Sognava di urtare orci colmi di caffè che cadevano e si frantumavano senza rumore, quando la luce del giorno lo svegliò. Gli dolevano le gambe. Si alzò a fatica e andò subito in camera stropicciando i piedi sul pavimento, perché il sangue circolasse di nuovo. Nella valigia che aveva lasciato aperta sul letto, ripose la pistola. Mise una camicia, dei pantaloni scuri e la giacca di Toma, quella che il contabile indossava il giorno prima. Nella tasca interna infilò la lettera di licenziamento, più i documenti. Si riempì le altre tasche di chiavi e guardò dalla finestra.
Aldo poteva aspettarlo seduto al volante di una delle auto parcheggiate davanti. Mancava un quarto d’ora alle sei. Doveva calmarsi. Aldo, forse, sarebbe passato di lì durante la mattinata, non all’alba. Sbadigliò.
Chiuse la valigia, mise sulla scrivania, in bella vista, la lettera minatoria di Aldo ed uscì. Farneticò di un ritrovamento della lettera da parte della polizia. Quelle poche righe avrebbero spiegato logicamente la sparizione di Filippo Toma. Forse ucciso, o fuggito, per quanto gli importava, era lo stesso. Con tutta probabilità sarebbero arrivati anche ai soldi. Chissà, verosimilmente, l’ammanco sarebbe stato scoperto. Alla fine giudicò il destino di Filippo Toma importante solo per un paio di giorni, dopo lui sarebbe diventato Nunez e avrebbe dimenticato il contabile e tutta quella storia. Mise in moto con un vago sorriso a fior di labbra, cominciava a sentirsi tranquillo e la giornata luminosa che si preparava gli sembrava di buon auspicio.
Era presto. Aspettò più di un’ora l’apertura dell’ufficio postale. Ebbe così il tempo di ricordare la sua vita passata e di immaginare il futuro.
Appoggiato al volante ripensò alla piccola Rosalita, alle sue mani sciupate dalle piantagioni di caffè e a quelle parole che con dolce mestizia gli risuonavano ancora dentro come allora: «Còmo te llamas?»
«Me llamo Nunez…».
Lei era un sogno e per dimostrarlo non aveva certo bisogno di alzare la sua lunga gonna a fiorami. Il vento quel giorno sferzava la faccia. Nunez appiccicò il naso alla finestra e la vide alle prese con quei due tizi proprietari terrieri, i señores, che con il pretesto del lavoro, non le toglievano gli occhi dal culo.

Quanto tempo era passato? Fantasticò di tornare laggiù ricco e di strappare l’unica donna della sua vita alla povertà. Non si soffermò sull’assurdità di quella fantasia e sui trent’anni passati da allora. Si sentiva forte, inattaccabile, pieno di soldi. Rivide la pianta di caffè arabica che lei gli aveva regalato per tenere come ornamento sul terrazzo, e sentì di nuovo il profumo di quei fiori simili al gelsomino.
Entrò nell’ufficio postale con la sensazione di essere osservato da tutti. Sbagliò un paio di volte a compilare il tagliando della raccomandata e alla fine firmò per la prima volta col suo nuovo nome.
L’impiegata, un donnone con i baffi, non fece logicamente una piega e Nunez lo prese per un buon segno, ormai si sentiva perfettamente compenetrato nella parte del capo contabile Toma. Uscì raggiante dall’ufficio brandendo la ricevuta come fosse un trofeo. Salì in macchina e si diresse verso l’autostrada. Si ripeté innumerevoli volte le parole che avrebbe dovuto pronunciare nella banca e ogni volta che le ripassava si sentiva più sicuro di sé. Arrivò suppergiù all’ora di apertura. Parcheggiò vicino alla stazione e decise di farsi una vodka, ottimo ricostituente della prima mattina. Uscì dal bar e si incamminò per Via Paleocapa con un difficilmente spiegabile struggimento nel cuore. Spinse la porta a vetri e si diresse verso il banco delle informazioni. Disse all’impiegato che era lì per chiudere un conto, che si trattava di una grossa cifra e che voleva tutto in contanti. L’impiegato gli chiese il numero del conto e un documento. Nunez tirò fuori la carta d’identità. L’uomo prese il tutto e si allontanò. Tornò poco dopo con una strana faccia mogia che a Nunez non piacque affatto.
«Signore, mi scusi, ma ci sono dei problemi…»
«Quali problemi?»
«Forse sarebbe il caso che lei parlasse con il direttore, si tratta solo di pochi minuti, se si vuole accomodare». Con un cenno della testa gli indicò il divano giallo alla sua destra. Nunez si avviò da quella parte senza capire.
Quali problemi c’erano? Non poteva aver trovato differenze fra lui e la foto riprodotta sulla carta d’identità.
Estrasse di tasca il libretto degli assegni e riguardò il numero, 120605.
No, non aveva sbagliato nulla. Se gli facevano storie per via della cifra avrebbe creato un casino. Si sentì avvampare per l’indignazione. Stai a vedere che quei bastardi cercavano di traccheggiare per non tirar fuori i soldi. Stava aspettando da un quarto d’ora. Si alzò e tornò dall’impiegato facendogli presente che non aveva tempo da perdere con quel cazzo di banca e che voleva subito i suoi soldi.
Il direttore comparve da una porta a vetri sul fondo. Si lisciò i baffetti e gli venne incontro.
«Così lei vorrebbe chiudere un conto?»
Vaffanculo. A Nunez quel tono non ispirò nulla di buono, perché fra le parole si sentiva un’intenzione difficile da capire, ma che sembrava una specie di neanche troppo nascosta irrisione. Sospirò con impazienza, pensò un rivaffanculo, e rispose:
«Chiudere un conto, non mi sembra che si tratti di nulla di eccezionale».
Il direttore arrossì leggermente. «Il fatto è che il conto20605, non è intestato a suo nome». L’aveva detto con il tono di prima, quello da presa in giro.
Nunez sbatté gli occhi e non riuscì prontamente ad accennare nulla di sensato. Quelle parole gli sembrarono qualcosa di assurdo che assomigliava fin troppo da vicino ad uno schiaffo sulla faccia.
Il direttore si sistemò gli occhiali a mezzaluna sul naso, guardò un foglietto che aveva tirato fuori dal taschino e si schiarì la voce. «A noi risulta, e quando dico risulta intendo dire siamo certi, che quel conto è intestato a un certo Giovanni Corso.»
«Giovanni Corso?»
«Esattamente.»
Nunez rimase a bocca aperta. Principesse prese dal magico sonno centenario cominciarono a volteggiargli sorridenti davanti agli occhi. Il conto corrente su cui Toma aveva versato i miliardi rubati era intestato al suo nome, o meglio, al suo ex nome.

Il direttore stava cominciando un lungo discorso pieno di giri di parole nel quale cercava di spiegare che lì c’erano tutti gli estremi per avvertire i carabinieri.
Nunez non l’ascoltava. Con quella specie di bolla di sapone che continuava a girargli davanti, pensava alla pistola nella tasca della giacca di Toma. Il contabile aveva versato per anni i soldi su un conto intestato a lui, a Giovanni Corso, perché aveva intenzione di intascarli dopo averlo ucciso. Il contabile voleva prendere il suo posto. Non c’era un’altra spiegazione. Ora tutto gli appariva chiaro e logico, finalmente cominciava ad afferrare la verità e quello che capiva era assolutamente inconfutabile, quanto semplice. Il contabile, quel figlio di puttana, aveva avuto la sua stessa idea, ecco perché si era così bene informato su di lui, ecco la ragione di quella cartella piena di notizie e foto che lo riguardavano. Forse tutto era cominciato durante quella gita aziendale, dove i colleghi avevano notato la somiglianza fra loro due. Toma lo voleva uccidere e una volta commesso il delitto, avrebbe portato il cadavere a casa sua, lì simulare il proprio suicidio sarebbe stato semplice. Poi, ritirati i soldi, poteva prendere il volo per il Sud America con il nome dell’assaggiatore di caffè Giovanni Corso. Nel caso fosse stato scoperto l’ammanco e qualcuno fosse risalito a lui… be’, avrebbe dovuto vedersela con un suicida, morto da tempo. Intanto il contabile se la sarebbe spassata in Sud America con il nuovo nome. Sistemata la polizia, sistemato Aldo, si stemati tutti. Un piano perfetto rovinato da un coglione assaggiatore di caffè.
Mentre il direttore tirava su la cornetta del telefono e cominciava a comporre un numero. Nunez indietreggiò fino alla porta ed uscì.
Muovendosi come in un sogno, attraversò la strada e s’incamminò a forza di passi pesanti, fra le tremanti creature che si muovevano intorno a lui fredde come il marmo.
Sentì un brivido nella schiena. Risate di ragazze lo riportarono per un istante lontano lontano, a rivedersi giovane mentre la sua Rosalita gli carezzava la mano con le piccole mani rovinate dalle piantagioni di caffè, e lo guardava muta con i suoi grandi occhi pieni di segrete speranze per un domani che forse, un giorno grazie a lui, sarebbe potuto finalmente arrivare.
Mentre le risate delle ragazze si allontanavano attraversò la strada e cercò di specchiarsi in una delle vetrine sotto i portici, ma c’era poca luce e l’immagine che il vetro gli rimandò fu troppo incerta e fluttuante, perché la potesse distinguere con esattezza.
 

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