giovedì 23 gennaio 2025

Angela Capobianchi: Delitto alle terme


Era il giorno del mio sessantacinquesimo compleanno, quando arrivò l’invito. Avevo deciso di trascorrere la giornata nell’orto, di consumare un pranzo leggero dalla vicina che occasionalmente si occupava di me quando ero lì in vacanza e di cenare al Ceppo in compagnia di un buon libro, della mia pipa e di una bottiglia di Bordeaux. Volevo brindare a me stesso, giunto a quell’insospettabile traguardo, e al mio pensiona mento. Dopo una vita convulsa dedicata al giornalismo, sentivo per la prima volta un impellente desiderio di quiete: e sapevo in cuor mio che solo in quella casa di campagna, comperata in tempi non sospetti, l’avrei trovata. Ma mi sbagliavo. Il postino mi trovò chino su un filare di cespi di insalata, che i miei sforzi invernali avevano reso turgidi e perfetti come orchidee: mi raddrizzai con un po’ di fatica ed esaminai la busta sotto il sole di giugno. Era un invito su carta pergamenata, e annunciava il piacere della direzione del Centro Termale B&S di avermi fra i suoi ospiti per la sua inaugurazione, che avrebbe avuto luogo di lì a una settimana. Il pretenzioso cartoncino era accompagnato da un opuscolo con la descrizione delle meraviglie offerte da quel paradiso per obesi, intossicati e malati di stress; ma la notazione più significativa era che le acque termali scoperte in quel luogo avevano rivelato prodigiose possibilità terapeutiche per tutte le affezioni della gola e delle prime vie respiratorie.
Tutto questo avrebbe potuto risvegliare in me solo un moderato disinteresse, se non mi fossi soffermato sull’ultima pagina della brossura: testimonial della manifestazione sarebbe stata Lucia Valli, nota al grande pubblico di tutto il mondo come soprano eccezionalmente dotato ma ancor più come personaggio eccentrico, dalla tumultuosa vita sentimentale: quarantacinque anni e ben quattro matrimoni alle spalle. L’avevo intervistata l’anno prima: come vecchio lupo della carta stampata, mi ero accomodato sulla poltrona di velluto della sala d’aspetto del suo albergo con il distacco dell’opinionista rotto ad ogni esperienza. Quando mi ero alzato, però, ero inquieto e frastornato, come se fossi reduce da un reportage in zona di guerra. Il nostro colloquio era durato un’ora e mezza, ma quello che apparve sul mio giornale era solo una piccola parte delle confidenze che avevo raccolto e che mi erano state elargite a prezzo del mio silenzio, e solo sulla mia parola d’onore. Alla quale, in verità, non sono mai venuto meno.
Mi sono sempre chiesto il perché di quella improvvisata intimità: l’unica spiegazione che sono riuscito a darmi è che quella donna, così famosa e osannata, si sentiva in quel momento profondamente sola ed infelice. Il suo quarto matrimonio con l’imprenditore Franco Cortesi era appena nau fragato in un mare di pettegolezzi da rotocalco, e lei covava un cupo desiderio di vendetta nei confronti del mondo in generale e del suo ex marito in particolare.
E proprio lui, appresi dall’opuscolo, era il presidente del Consiglio di
Amministrazione nonché azionista di maggioranza del Centro Termale.
La curiosità – da sempre mia perfida consigliera – mi spinse a fare qualche telefonata: nessuna riconciliazione, mi fu comunicato da un mio collega veterano della cronaca rosa. Per di più, il settimanale per il quale lavorava aveva di recente pubblicato un servizio fotografico che immortalava una misteriosa donna bionda insieme all’ex marito della Valli.
Mi ritrovai così, la mattina del 15 giugno, sull’impiantito assolato della piccola stazione, in attesa del treno che mi avrebbe portato verso le montagne e quella che ancora reputavo un’innocente parentesi mondana nell’austerità della mia nuova vita.
Il Centro Termale era una mostruosa creatura in cemento armato, qualcosa a metà fra un istituto di pena di massima sicurezza e la fastosa residenza di un proconsole romano in un film storico degli anni cinquanta. Appena arrivato fui condotto in un salone centrale dove, fra colonne corinzie e ruscelletti gorgoglianti, era stato allestito un lungo buffet con gli aperitivi di benvenuto. Riconobbi alcuni colleghi, con i quali condividemmo il piacere di tartine dai sapori scono sciuti, e qualche operatore televisivo.
Franco Cortesi fece il suo ingresso dopo un po’, scortato da buona parte del Consiglio d’Amministrazione: era alto, con le tempie appena brizzolate e il fisico asciutto e nervoso dell’uomo di successo. Si avvicinò e mi saluto con una certa deferenza: «Siamo onorati di averla qui, dottor Martini. Spero che il soggiorno da noi sarà di suo gradimento».
«A dire il vero, non mi aspettavo un simile bagno di mondanità. Ho sempre pensato alle terme come a luoghi pieni di vapore e di silenzio.»
Rise, sorseggiando una coppa di champagne. «Quando Lucia sarà arrivata e avrà cantato per noi, di silenzio ce ne sarà fin troppo, mi creda. E quanto al vapore, domani stesso potrà sperimentare in prima persona l’efficacia delle nostre acque.»
Si congedò con eleganza: guardandolo andar via tra la folla, mi interrogai fugacemente sulla punta d’ansia o di malessere che avevo notato in lui, nonostante l’aria dinamica e disinvolta che ostentava. Un’avvenente hostess di sala mi distolse da quelle estemporanee riflessioni, per offrirsi di condurmi nella mia stanza. «È adiacente a quella della cantante» mi sussurrò compiaciuta. Salimmo al terzo piano su un ascensore a soffio con pareti rivestite di specchi mentitori, che avrebbero allungato e snellito figure ben più imponenti della mia. In un vestibolo in fondo al corridoio, ci fermammo dinanzi a due porte affiancate: istintivamente mi arrestai dinanzi alla prima, ma la mia accompagnatrice mi indicò l’altra con un cenno della mano. «La sua è la 332: la migliore delle due, perché affaccia sul fronte principale.»
«E questa?» chiesi incuriosito, indicando la seconda porta.
«La 333 dà sul retro. Particolare trascurabile per la Valli: è molto scaramantica e non alloggia mai in stanze con numeri diversi dal 3.»
Accettai la spiegazione senza particolari commenti: le stravaganze degli artisti erano le uniche che avessi sempre tollerato senza irritazione, a condizione che fossero direttamente proporzionali alla loro bravura.
Trascorsi così un pomeriggio piacevole in quella che definire stanza sarebbe stato incongruo e poco rispettoso nei confronti delle recenti statistiche sul sovrappopolamento della terra: era piuttosto una suite, con salotto, camera da letto e un bagno grande più o meno come il miniappartamento che occupavo a Roma, quando ero lì per lavoro. Il tutto finemente arredato e predisposto per la soddisfazione del più incontinente edonismo.
Il balcone era perimetrale, interrotto in un punto da una grata metallica che delimitava il mio tratto di pertinenza esclusiva; al di là, una porta finestra ancora chiusa, quella della stanza adiacente.
E proprio da quel balcone, al culmine di un tramonto infuocato che sembrava avere accordato la propria spettacolarità a quella dell’avvento, assistei all’arrivo della diva, su una limousine nera il cui cofano rimandava gli ultimi bagliori di sole sul pubblico accorso nel giardino d’ingresso.
Era vestita di bianco, con un cappello a tesa larga, una collana di perle a più fili e guanti di pizzo al polso. Scese con una coppia di pechinesi fra le braccia, uno per parte, e si avviò verso l’ingresso con lentezza, certo per consentire ai fotografi di inquadrarla con comodo; poi consegnò i cani al suo accompagnatore, un tizio di mezz’età che si era materializzato accanto a lei, e si produsse in uno scenografico saluto al suo ex marito, abbracciandolo sulla porta e baciandolo sulla bocca. La distanza mi impedì di cogliere le sfumature di quella scena inaspettata ma, osservandolo attraverso quell’avido sfolgorare di flash, Cortesi mi parve imbambolato e sconvolto. Forse era arrossito, ma questo non avrei potuto giurarlo.
Mi rifiutai di infoltire l’adorante codazzo che scortò la Valli fino all’ingresso della sua stanza, e restai pazientemente in attesa dell’ora di cena. Al di là del muro della mia camera da letto mi arrivavano rumori indistinti e, a tratti, l’abbaiare isterico dei due pechinesi, ai quali per tutto il pomeriggio continuai ad augurare un destino triste e, soprattutto, breve. Verso le sei, però, l’abbaiare improvvisamente cessò. Si propagò allora nell’aria la magia di una voce che, più che tale, sembrava uno strumento suonato dagli dei. Erano semplici vocalizzi, ma sufficienti per dare la misura dell’arte e del talento: così mi accoccolai su una sdraio del balcone, in deferente ascolto.
La porta finestra oltre la grata era aperta, e girandomi in volontariamente in quella direzione vidi la sagoma della donna riflessa nel vetro del battente. Era di spalle, in piedi, e si stringeva addosso un accappatoio come se avesse freddo. Finalmente si mosse, girandosi verso la finestra.
Sbattei le palpebre, incredulo. La sua voce continuava a gorgheggiare, ma la bocca sembrava chiusa. Mi alzai dalla poltrona avvicinandomi alla grata metallica, ma in quel momento la finestra venne chiusa e la voce tacque.
Abbandonai il balcone, perplesso e confuso: più tardi, sotto un getto di acqua calda e solforata, arrivai a convincermi di essere stato ingannato dal riflesso del vetro.
Alle otto, la sala da pranzo si riempì di signore in abito da sera e uomini in blu. Non ero preparato ad una cena in quello stile, ma rifiutai di sentirmi a disagio nel mio spezzato grigio. Mentre avanzavo con circospezione fra gli invitati, mi venne incontro Cortesi in persona, il quale mi condusse a un tavolo apparecchiato per tre. «Lucia tiene molto alla sua compagnia» mi annunciò. Dovevo sembrare stupefatto, perché si sentì in dovere di precisare: «È stata lei stessa a suggerirmi di invitarla, dottore. Io, da parte mia, non avrei mai pensato che un avvenimento di questo tipo potesse interessarla: so che abitualmente si occupa di fatti di ben altra portata…».
Un improvviso brusio ci segnalò che Lucia Valli era entrata nella sala da pranzo, al braccio dello stesso uomo che avevo visto scendere dalla limousine. Indossava un lungo abito verde e le sfavillava sul petto una collana di smeraldi che, valutai, doveva avere più o meno il valore della mia liquidazione. Si avvicinarono al mio tavolo: non mi ero mai espresso in un baciamani, ma vi fui costretto dal gesto perentorio di lei.
«Caro dottor Martini…» mi salutò a voce alta, con un sorriso radioso che giudicai francamente esagerato. Tutti si erano girati verso di noi e cominciavo a sentirmi a disagio: perciò mi affrettai a scostare la sua sedia dal tavolo per farla accomodare. Ma mi ignorò: era sempre lei a dare il tempo, e non solo sul palcoscenico. «Le presento Giorgio Salvati. È il mio manager da tanti anni». Ci scambiammo una stretta di mano. «È anche il mio migliore amico. Deve esserlo per forza, visto che è terribilmente esoso…» disse, nella parodia di un sussurro che fu udito da tutta la sala.
Ridemmo tutti per compiacenza, poi la Valli decise che era arrivato il momento di uscire di scena e finalmente riuscimmo a sederci.
La cena si avviò così verso il suo interminabile svolgimento: il menu era composto da innumerevoli portate, una più insolita e invisibile dell’altra, così ebbi modo di osservarla a lungo. Dall’ultima volta che l’avevo incontrata era molto dimagrita, e sul viso la pelle si era scomposta in piccole rughe disordinate che le popolavano le guance e gli angoli della bocca. I capelli, lunghi e neri, erano diventati opachi e ribelli, come quelli di una maga televisiva su un canale di quart’ordine.
Ne restai sconcertato: sembrava molto più vecchia della donna che avevo incontrato appena dodici mesi prima. Solo i grandi occhi nocciola erano gli stessi, profondi e luminosi, anche se a tratti brillavano di una luce strana, che avrei potuto definire sinistra se fossi stato un soggetto più incline alla suggestione: di certo, non era quello lo sguardo che ricordavo.
Per quasi due ore chiacchierammo di musica, e le chiesi cosa avrebbe cantato l’indomani. «La Butterfly. Sarò Cho Cho San» mi rispose distratta.
Poi, come ricordando all’improvviso qualcosa di importante, si rivolse a
Salvati. «Caro, è ora che tu faccia quella telefonata». Lui esitò: per tutta la sera era stato cupo e laconico, fatto insolito per un professionista delle pubbliche relazioni. La fissò con uno sguardo implorante.
«Vai, Giorgio, ti prego…». Era un ordine, non una preghiera. Salvati si alzò senza una parola e sparì dalla porta principale.

Lucia Valli mise la sua mano sulla mia: non sorrideva più, ora.
«Lei è un gentiluomo, dottor Martini. Uno dei pochi che la vita mi abbia dato occasione di conoscere. Quello che le ho detto un anno fa deve essere sepolto per sempre. Mi dà la sua parola?»
«Gliel’ho già data a suo tempo. E mi sembra di averla mantenuta.»
«Deve darmela di nuovo. Ne ho bisogno.»
Era davvero una strana donna, pensai. Forse aveva paura che le mie rivelazioni avrebbero potuto guastare la ripresa della sua relazione con Cortesi. Istintivamente lo cercai con gli occhi: per tutta la sera si era mantenuto a distanza di sicurezza dal nostro tavolo. Ben strano comportamento, per un ritorno di fiamma. Lei parve leggermi nel pensiero.
«Il nostro rapporto è ancora segreto» sussurrò. Ripensai al plateale bacio del suo arrivo: la segretezza per lei doveva essere una nozione molto relativa. «Ha bisogno di tempo per parlare con quella donna…»
La misteriosa bionda: evidentemente dava per scontato che fossi al corrente della tresca.
«Lei lo ricatta» mi confidò con aria complice. «Lo sa che è la direttrice di questo Centro?»
Mi guardai intorno, incuriosito, ma ancora una volta lei prevenne la mia domanda. «Non è qui. Logico, ha boicottato l’iniziativa. Mi odia perché sa che presto io e Franco saremo di nuovo insieme.»
Uno speaker improvvisato ci interruppe, chiamando la Valli al centro della sala per un breve discorso. Poi venne assalita dai giornalisti e non ebbi più occasione di parlarle. Approfittai della confusione per tornare nella mia stanza: quella donna aveva il potere di fiaccarmi, e mi sentivo stanco.
La notte era quieta e stellata: mi affacciai dal parapetto del balcone, e così restai fino a quando le mie ossa cominciarono a protestare. Mi infilai fra le lenzuola e chiusi gli occhi: le ultime immagini che la mia coscienza vigile mi rimandò furono di Cortesi, che parlottava nel giardino con una donna bionda, e di Salvati, che si allontanava rapido con un fagotto tra le braccia verso l’ombra di una quercia lontana. Poi profondai nel sonno.
Alle nove del mattino dopo ci avviammo tutti in processione verso i locali interrati adibiti a stazione termale. Cortesi conduceva la fila e Lucia Valli lo affiancava, maestosa come una matrona in un vestito rosso lungo fino ai piedi: era ingioiellata al limite del buon gusto e i suoi capelli abboccolati con cura denunciavano un’antelucana messimpiega.
All’ingresso ci accolse una signora alta e bionda: aveva un viso dai lineamenti austeri e straordinari occhi verdi, la cui bellezza era appena offuscata dagli occhiali da vista che portava sul naso. Non doveva avere più di trentacinque anni, calcolai. Cortesi la presentò a tutti come la dottoressa Maria Romagnoli, direttrice del Centro: fu lei a condurci nella sala macchine e a illustrarci il loro funzionamento. Per tutta la durata della visita, non mancai di osservare la Valli: sembrava rilassata e attenta e per la prima volta non si fece notare. Salvati, al mio fianco nella fila, aveva un colorito terreo.
Seguimmo la direttrice in un lungo corridoio piastrellato, sulle pareti del quale si fronteggiavano due file di cabine per le inalazioni di zolfo. Il tutto era di un bianco abbagliante, spezzato solo dai numeri luminosi in cima alle porte delle cabine. Ci venne mostrato l’interno della prima: uno sgabello, un lavandino e, al posto del rubinetto, un’ampolla di plastica con un bocchettone di gomma dal quale sarebbe uscito il fiotto caldo di vapore sulfureo. Sulle pareti rivestite di specchi c’erano una piccola griglia a maglia larga, probabilmente per il passaggio dell’aria fra le cabine che sarebbero state ermeticamente chiuse e, appesi a un gancio, un accappatoio e una cuffia di gomma. La dottoressa ci raccomando di usarli, poiché il vapore avrebbe bagnato capelli e vestiti, e di premere poi un pulsante verde alla destra dell’ampolla: era quello che avrebbe azionato il meccanismo di fuoriuscita dell’idrogeno solforato.
Eravamo pronti: Lucia Valli era la prima della fila, ma superò con decisione le prime due porte ed entro nella cabina numero tre.

«Come tutti sapete, è il mio numero» disse a voce alta, con una risatina.
Salvati sgomitò con decisione e si infilò rapido nella numero due. Non mi restò che arretrare nella numero uno, quella che era servita per la dimostrazione. Udii porte che si chiudevano e commenti divertiti che si propagavano attraverso le griglie, poi silenzio. Silenzio e vapore, e per dieci minuti mi sentii davvero alle terme. Quando il getto si fermò, mi asciugai il collo e il viso e mi liberai dall’accappatoio, quindi aprii la porta della cabina. Presto il corridoio si affollò di nuovo, e tutti ci radunammo vicino alla direttrice che ci aspettava rigida vicino a un quadrante luminoso. Notai che Salvati, particolarmente pallido, continuava ad asciugarsi la fronte con un fazzoletto. Forse aveva la pressione bassa, pensai con una punta d’apprensione.
«Si sente bene?» gli chiesi avvicinandomi. Assentì con un filo di voce.
«Allora, se ci siamo tutti, possiamo proseguire» ci esortò la voce di Cortesi dal fondo del corridoio.
«La signora Valli è ancora in cabina» feci notare io, e tutti si girarono verso la porta chiusa.
«Ha premuto il pulsante poco fa» disse la dottoressa guardando il monitor. «Ha ancora cinque minuti.»
Li impiegammo chiacchierando, e chiacchierammo ancora senza guardare l’orologio. Ad un certo punto ci giunsero dei rumori confusi, che interpretammo come i tentativi maldestri della Valli di rivestirsi in uno spazio così angusto. Allora Cortesi si avvicinò alla cabina. «Lucia, qualche problema?» Nessuna risposta, solo risolini e qualche commento sulla lentezza delle donne nel ricomporsi a dovere. La dottoressa si mosse dalla sua postazione. «Tutto bene, signora?» chiese freddamente attraverso la porta.
Stavolta le voci tacquero: Maria Romagnoli bussò al battente con energia, ma dall’interno non venne fuori il minimo rumore.
Fu Cortesi a spalancare la porta: Lucia Valli era riversa per terra, nel suo vestito rosso che si era allargato su di lei come una corolla. Cortesi si inginocchiò e le sollevò il busto, come per rianimarla. «È svenuta» disse.
Maria Romagnoli le tastò il polso, poi la gola. «No. È morta.»
«Ma come? Come?!!» strillò Cortesi, quasi piangendo.
«Cianuro» dissi io, dalla soglia della cabina. Per molti anni ero stato cronista di nera, e conoscevo bene quell’odore di mandorle amare.
«Lei è pazzo» mi aggredì Cortesi. «Chi avrebbe mai potuto…». Poi seguì il mio sguardo: sullo specchio appannato, a trenta centimetri da terra, un’accusa senz’appello, lanciata con la punta di un rossetto: M A R I A.
Cortesi fissò la sua amante, che era bianca come uno spettro e tremava visibilmente. «Quella donna era pazza» disse lei con un filo di voce, poi si fece largo fra i presenti e sparì da una porta in fondo al corridoio. Un fotografo la immortalò mentre correva via, poi rivolse l’obiettivo verso la cabina. Cortesi gli sferrò un pugno sulla faccia e gli strappò via la macchina fotografica. La confusione che seguì prese le proporzioni del caos, e ci volle del tempo prima che qualcuno pensasse a chiamare la più vicina stazione dei carabinieri.
Il maresciallo che comandava le operazioni, catapultato di colpo dalla relativa quiete degli illeciti di paese al teatro di un incubo, ordinò di avvisare immediatamente il procuratore: nel frattempo venimmo tutti interrogati sommariamente e rispediti nelle rispettive stanze.
Tornai in fretta al terzo piano e uscii sul balcone: attraverso la grata, vidi che la finestra della stanza della Valli era socchiusa. Allora salii su una sedia e scavalcai la grata. Sapevo che avrei potuto pentirmi amaramente di quello che stavo facendo, perché da un momento all’altro al maresciallo sarebbe venuto in mente di mandare qualcuno nella stanza della morta. Se i carabinieri fossero arrivati mentre ero lì, avrei po tuto trovarmi in guai molto seri: ma dovevo sapere. Mi trattenni qualche minuto soltanto, poi tornai di corsa sul balcone. Non potevo rientrare nella mia stanza se non passando in equilibrio sullo stretto parapetto: se avessi accostato una sedia alla grata, avrei dovuto lasciarla lì e la mia irruzione sarebbe stata scoperta.

Mi feci il segno della croce, che riservavo alle occasioni estreme, e mi aggrappai alla grata senza guardare giù: un secondo dopo ero atterrato sul mio balcone, illeso ma con una tachicardia che temetti mi avrebbe fatto raggiungere la Valli nel breve volgere di qualche minuto. Allora mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi, in attesa che l’emozione passasse. Dopo un quarto d’ora, udii un trambusto e voci concitate: erano arrivati, anche prima del previsto. Non so dire quanto tempo passò: forse un’ora, forse più. Mi Sollevai dal letto e feci una telefonata con il mio cellulare; poi aprii la porta della stanza e me la richiusi alle spalle con un gesto disinvolto e deciso. Due carabinieri montavano la guardia dinanzi alla stanza 333, e mi chiesero dove avessi intenzione di andare. Risposi con tranquillità che volevo scendere nella hall. Si scambiarono uno sguardo incerto ma non osarono trattenermi: ero un ospite dell’hotel, e non in stato di fermo. Andai in cerca di Cortesi: alla reception mi dissero che era ancora nel seminterrato con il procuratore. Allora mi accomodai su una poltrona, accesi la pipa e aspettai.
Dopo un po’ vidi sfilare dinanzi a me i barellieri venuti a prelevare il cadavere, e tornare di lì a poco con il macabro sacco verde sulla lettiga.
A distanza di qualche minuto la dottoressa Romagnoli mi passò vicino, scortata dal commissario e da tre carabinieri. Saltai in piedi, ma lei non mi notò: pallida e impettita, si muoveva con la rigidità di un automa. Cortesi seguiva il gruppetto a breve distanza, ma giunto alla macchina d’ordinanza parcheggiata all’ingresso venne allontanato.
Si passò una mano fra i capelli e a testa china rientrò nell’atrio.
Gli mossi incontro. «Posso parlarle un momento?»
Per un attimo mi guardò come se non mi riconoscesse, poi assentì debolmente.
«Mi tolga una curiosità: come mai la sua ex moglie ha deciso di venire qui? Da quel che ne so, tra voi non correva buon sangue negli ultimi tempi.»
«Mi ha telefonato un mese fa: aveva saputo da un amico comune che mi ero impegnato con molti istituti di credito per questo centro. Affermò che nel corso della separazione legale ero stato corretto con lei dal punto di vista economico, e si offrì di aiutarmi. La sua presenza avrebbe dato una spinta decisiva all’iniziativa, disse; dello stesso parere erano anche i consiglieri di amministrazione, così mi lasciai convincere…»
«Parla come se non ne fosse contento anche lei…»
«Non lo ero, infatti. Temevo che volesse usare il favore che mi faceva per convincermi a ricominciare. Il nostro matrimonio era stato un inferno e non avevo alcuna intenzione di tornare con lei.»
«E invece, dopo un po’…»
Mi guardò perplesso. «Dopo un po’ cosa, scusi?»
«Dopo un po’ avete ripreso la vostra relazione.»
«Vuole scherzare, dottore? Io non ho ripreso un bel niente!» Restai zitto, aspirando il fumo dalla pipa. Cortesi ora guardava per terra torcendosi le mani. «Sono rovinato» sbottò di colpo. «Se è vera questa faccenda del cianuro – e pare proprio che lo sia – nessuno vorrà più venire qui. Ma le pare? Un centro dove i pazienti vengono spediti nelle camere a gas! Le banche mi chiuderanno la porta in faccia, e tanti saluti. Ma non è questo che mi angoscia di più…»
«Quello che l’angoscia di più è che la sua donna, la dottoressa Romagnoli, sia accusata di questo crimine…»
«Non tanto che ne sia accusata. Che abbia potuto commetterlo.»
«Ed è possibile secondo lei?»
Mi guardò con occhi smarriti. «Non lo so. Maria è una donna misurata e intelligente, ma ultimamente era tesa e gelosa. Quel bacio che Lucia mi ha dato all’arrivo l’aveva sconvolta. E poi aveva aperto lei il reparto, quella mattina, perché il personale non era stato convocato. Era l’unica a poter manomettere l’impianto…» concluse cupamente.
Non commentai. «È stata trovata la fialetta del cianuro?» Scosse la testa.
«No. Non è stato trovato niente. Ragione di più per credere che sia stata proprio Maria a versarlo nel tubo dell’ampolla prima del nostro arrivo.»
«E come avrebbe fatto a sapere che la Valli sarebbe entrata proprio nella cabina numero tre?»

«È quello che ha detto lei. Ma Salvati ha fatto osservare al procuratore che la fissazione di Lucia per il numero tre era di dominio pubblico…»
«Salvati, già…» dissi fra me e me. Poi mi alzai.
«Venga, andiamo da lui.»
Cortesi mi fissò stranito. «Veramente, mi aspettano di sopra per fare il punto…»
«Venga con me, le ho detto. Abbiamo un punto più importante da fare.»
Mi seguì senza fiatare fino al terzo piano. Bussammo alla porta e dopo un po’ Salvati in persona venne ad aprirci. La stanza era in penombra e alle sue spalle il letto sembrava aver ospitato una battaglia campale. Fra le lenzuola aggrovigliate e sul pavimento, una miriade di fazzoletti di carta usati. Che avesse pianto era comunque lampante: aveva gli occhi gonfi e cerchiati, con i radi capelli spettinati e la camicia fuori dai pantaloni.
«Possiamo entrare?» chiesi.
Approfittai dell’attimo di indecisione dovuto alla sorpresa per infilarmi dentro, seguito da Cortesi.
«Cosa volete?» domando Salvati.
«Fare un po’ di luce…» risposi. Lui si diresse verso le tende e le aprì.
«Non in questa stanza, Salvati. Su questa brutta faccenda.»
«A questo penserà la procura. Cosa vuole da me?»
«La verità… che lei conosce benissimo.»
«Io non so niente. So solo che Lucia è morta.»
«Ah sì? E non trova che la sua morte sia stata, per così dire, provvidenziale?»
Mi guardava ostile, cupo. «Non capisco cosa voglia dire.»
«Che forse le ha evitato sofferenze maggiori. Non è vero forse che la signora Valli aveva un tumore? E che aveva poco da vivere?»
Si era voltato verso la finestra e mi dava le spalle.
«Come fa a dire una cosa del genere?»
«Perché ho visto le medicine che aveva con sé e so a cosa servono…».
L’amico medico a cui avevo telefonato dopo il mio sopralluogo clandestino era stato molto chiaro sul punto.
«Lei sta improvvisando.»
«E che il tumore le aveva colpito proprio le corde vocali?» Stavolta stavo davvero improvvisando. Ma l’immagine riflessa nel vetro della bocca serrata della donna mentre la sua voce cantava mi diceva che avevo ragione.
Per di più nella sua stanza avevo trovato il registratore.
«Non ne so nulla.»
«Andiamo, Salvati. Lucia stessa ha dichiarato davanti a cento persone che lei era il suo migliore amico. E mi vuole dare a bere che proprio lei ne era all’oscuro?»
Si girò verso Cortesi, implorante. «Franco, diglielo tu di lasciarmi in pace. Sono stremato.»
Ma Cortesi non raccolse. Salvati mi guardò con il viso in fiamme. «E va bene, era malata. E Allora?»
«E allora deve spiegarmi come avrebbe potuto cantare qui stasera. Con corde vocali straziate dal tumore.»
Si chiuse in un silenzio ostinato.
«Non è forse vero che voleva dare a intendere a tutti di non poter cantare ancora?»
«Può darsi.»
«E come se la sarebbe cavata, stasera?»
«Forse avrebbe inventato una scusa?»
«No, caro. Non aveva bisogno. Perché sapeva perfettamente che all’ora del concerto sarebbe già stata all’altro mondo.»
«Lei non sa quello che dice.»
Lo ignorai. «Solo una persona avrebbe potuto manomettere l’impianto di aerosol, a parte la dottoressa. E quella persona voleva far ricadere la colpa su un’innocente, scrivendone il nome sullo specchio.
Malauguratamente, però, quella scritta era troppo precisa per provenire dalla mano di una persona in crisi convulsiva da cianuro. E troppo netta, per essere stata tracciata su una superficie bagnata dal vapore. Perché era stata fatta prima, sullo specchio asciutto. E così il signore qui presente sarebbe stato definitivamente rovinato, sotto ogni punto di vista: Lucia Valli voleva uscire di scena a modo suo, e far morire Sansone con tutti i Filistei. Un bel piano, non c’è che dire.»

Cortesi impallidì e strinse i pugni.
«Un piano predisposto con cura, con la sua complicità, Salvati» proseguii.
«È stato lei a far sparire la fialetta del cianuro, che Lucia le ha passato attraverso la griglia dopo averne versato il contenuto nell’ampolla. Lei ha fatto sparire le prove di un suicidio e ha concorso nella simulazione di un omicidio. È un reato grave, sa?»
«Non è vero!» urlò Salviati. «Vada via di qui. Uscite tutti e due.»
«Lo faremo subito, non tema. Ma solo per andare a vedere cosa ha seppellito ieri notte sotto quella grande quercia laggiù». E indicai il fondo del giardino, oltre la finestra. Allora Salvati crollò. Pianse amaramente come un bambino, e quando arrivò il maresciallo piangeva ancora. Confessò tutto, ma sostenne di sentirsi colpevole solo di aver tradito la fiducia di una donna che amava più della sua vita.
Più tardi, col maresciallo, andammo sotto la grande quercia. I due pechinesi erano lì, stretti insieme come bambini abbracciati nel sonno.
Erano ancora bagnati, perché la Valli li aveva lasciati nell’acqua dopo averli affogati: quando ero entrato nella sua stanza, i loro peli erano ancora sparsi sul fondo della vasca. Poi, durante la cena, Salvati era stato mandato a completare il lavoro.
Probabilmente non voleva che restassero soli, dopo la sua morte; o forse non sopportava l’idea che qualcun altro potesse godere della compagnia dei suoi figli prediletti, come li aveva chiamati davanti a me l’anno prima.
Rientrato a casa, ricevetti una lunga lettera da Cortesi, garbata e piena di gratitudine. Mi informava del rilascio della Romagnoli e mi diceva che il Centro aveva cominciato la sua attività, con un incredibile affluenza: sembrava che tutti volessero fare le inalazioni nella cabina numero 3. Ebbe il buon gusto di non invitarmi, ma si augurava di potermi incontrare ancora. Un giorno, forse.
Così tornai al mio orto e ai miei pensieri.
A ferragosto mi fu recapitato un pacco voluminoso: sul mittente della lettera acclusa c’era il nome dei miei nipotini, che si dicevano preoccupati per la mia nuova solitudine.
Così mi mandavano un dono che speravano mi avrebbe fatto piacere: un pechinese.
Evidentemente il destino aveva deciso che non dovessi dimenticare: così l’ho tenuto con me. E l’ho chiamato Cho Cho San.

N.d.a.
Questo racconto è frutto esclusivo della fantasia. Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone realmente esistenti o esistite – come pure eventuali omonimie – sono perciò puramente casuali.

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