Il nostro gioco è di far arrapare sta gente di sta città senza senso.
Quando passiamo sembriamo due aerei carichi di bellezza che vanno a schiantarsi sul corso. La gente non fiata più. Le nostre minigonne iniziano più o meno dove finiscono ma non è qui il punto. È che sti aerei sono carichi di intelligenza che da queste parti non si è mai vista. Prima o poi ce ne andremo ma per adesso dobbiamo fare gli esami di terza media. Siamo le prime della classe, anzi di tutte le classi messe insieme. Certo che non è che a scuola c’è tutto sto clima interessante, però leggiamo tutto quello che arriva alla biblioteca. Ci portiamo sempre qualche libro dietro, anche quando facciamo il défilé sul corso in modo che non ci prendano per due come loro.
Letizia dall’alto dei suoi uno e settanta per quasi quattordici anni va avanti. Si muove che sembra che sposti la città ad ogni passo. La fa ondeggiare. Quando arrivo io gli do il colpo di grazia. Faccio come se non avessi un corpo ma più faccio finta che non c’è e più si vede. Non sono io che cammino. È il mio corpo che fa tutto da solo. A quelli gli prende male.
Mia mamma mi dice sempre che dovrei nasconderlo sto corpo che mi porterà guai. «E come faccio, non si può nascondere la verità» le rispondo. Che non è una gran risposta per mia mamma, ma cosa le dovrei dire? Tanto le prende sempre la depressione prima e dopo, qualunque cosa io dico. Voglio bene a mia mamma ma non so che cos’altro potrei dire.
La cosa che mi piace di più in assoluto? La matematica. Non scherzo. Mi piace perché ci vuole potenza. E la potenza ce l’hanno in pochi. Ce l’hai o non ce l’hai. Non è una cosa che lavori e lavori e ci arrivi. Per esempio, io prendo il libro di geometria. Leggo: “Teorema b23: In un triangolo, eccetera, eccetera”.
Mi concentro e metto in moto la macchina. Ti viene o non ti viene. A me viene. Dopo un po’ ho capito come si dimostra. Non c’è niente di più eccitante al mondo. A Letizia non viene. È il suo unico limite. Ogni tanto l’aiuto a fare matematica. Mi fa tenerezza. Proprio non ci arriva. Però è lo stesso il massimo. Un giorno forse faremo una ditta: io faccio teoremi e lei li vende.
Stamattina mi sono misurata. Veramente mi controllerei tutti i giorni ma il bello è di vedere scattare i centimetri. Adesso per l’esattezza sono centosettantaquattro e nove per tredici anni, otto mesi e un giorno. Ho misurato 10 volte e ho fatto la media. Ogni tanto festeggiamo che ci siamo conosciute: tiriamo a sorte giorno e mese e non ci vede più nessuno fino alla sera. Mia mamma sospira che non è quella l’ora di tornare, alla mia età. «Avevamo da studiare, mamma». Non può mica dire che non è vero, no?
Abbiamo deciso di restare vergini, di non bere, non fumare, non scopare, non mangiare porcate, non farsi, non perdere tempo. Ci amiamo. Staremo sempre insieme. Mi sembra stupendo.
Comunque non si parla d’altro che di sti due morti ammazzati. Prima dicevano che era un maniaco, poi un serial killer. Quasi nello stesso modo, tutti e due. Da ridere. Un sacchetto di plastica trasparente fissato con il nastro isolante attorno al collo. C’avevano gli occhi spalancati. Letizia dice che sono morti dimenticandosi di spegnere la luce. A me non mi fa nessuna impressione. A mia mamma ho detto:
«Di morti ce n’è un mucchio. Non vedi? E guardati attorno». Mi ha risposto che un giorno mi pentirò di quello che ho detto. E che non devo credere che anche lei è così, e tutti quanti quelli che io disprezzo.
«Non t’ho mica detto che tu sei morta, no?»
«Però lo pensi»
Non ho risposto. Mi ha detto che sarò io a farla morire. Non c’ha un minimo di logica. Le ho risposto:
«Ragiona. Se io non ci fossi moriresti lo stesso».
Sul Corriere di suo padre Letizia ha letto che erano fatti di sedativi. In casa mia mia mamma prende En e Serenase. Mio papà Tavor. Da Letizia Minias, Roipnol, più Tavor, più En, più Seropram. Mia mamma non dorme quando c’è il vento. «E quando non c’è non dormi perché lo aspetti?».
Mi sono presa una sberla, ma non è che sia davvero riuscita a prendermi.
A scuola la prof di italiano ci ha detto che è il secondo in due mesi. «Uno al mese!» abbiamo fatto tutti in coro. Lei ci ha detto che c’era poco da scherzare e che c’è qualche maniaco in giro. Allora Letizia le ha chiesto ma che cos’è un maniaco e tutti ridacchiavamo. La professoressa ha cominciato a non sapere più bene che cosa poteva dire, come dirlo, eccetera. Alla fine è entrato il bidello a chiamarla perché la voleva il preside. «E tre!» abbiamo esclamato. Ma non era così. Siamo andate alla pineta. A mia mamma ho detto che andavo da Letizia e Letizia ha detto a sua mamma che veniva da me. Abbiamo cominciato a baciarci. Letizia ha delle labbra che sembrano un divano. Ti ci puoi sdraiare. Credo che a questo mondo ci siamo solo noi due. È pieno di maschi che ci vengono dietro, vecchi e giovani. E anche di donne. Due mesi fa quella che hanno trovato morta che occhieggiava dal sacchetto di plastica le aveva regalato un libro scritto proprio da lei. Non ce lo siamo letto di certo. Si aspettava di mettere la lingua tra le gambe di Letizia. Quando le ha restituito il libro la signora le ha detto: «Tienilo pure. Voglio che tu lo tenga». Ha detto anche che presto le avrebbe fatto un altro regalo. Ma quel presto non è mai arrivato.
È una città in cui ci si dà da fare. A volte mi chiedo come fa la gente come mia madre che non si dà da fare e che forse non sa neanche cosa voglia dire. E mio padre? Magari si dà da fare con una simile a mia madre che a casa sembra una morta come mia madre. E magari mia madre si dà da fare di nascosto con uno che assomiglia a mio padre. Ma la signora del libro era diversa. Faceva solo quello nella vita. Scriveva favole per bambini e si dava da fare. Da piccola mia mamma me le ha lette una volta. Erano sul giornale locale.
Quello che hanno trovato per secondo anche ci aveva provato, ma più con me che con Letizia. Mi ha messo un bigliettino in mano. Mi voleva dare un mucchio di soldi. Ci siamo dette con Letizia: ce li mettiamo da parte e poi ce ne andiamo a vivere insieme. Il giorno dopo mi ha messo in mano un altro bigliettino. Ho fatto finta di niente. «Allora?» mi ha chiesto. Gli ho dato del lei:
«Quanti anni ha?»
«Trentacinque»
«Allora ne voglio il doppio». Non stava più nella pelle:
«Quando?»
«Non so. Devo studiare. E poi non voglio che mi vedano con lei». Non avevo nessuna intenzione. Però ero curiosa. Tre giorni dopo me lo sono visto davanti con la sua Bmw. Non c’era nessuno. Mi ha detto: «Sali?». Insomma sono salita. Mi ha portato lungo la litoranea, verso sud. Cercava di toccare.
«Non è che ti viene un malore alla tua età?» gli ho detto. In quel momento mi ha telefonato Letizia: «Che fai?». Le ho risposto in codice “effe” come “fuck” ma esageravo.
«Chi era?»
«Mia madre. Mi tiene sempre sotto controllo». Si è preoccupato, così l’ho tenuto a bada per un po’. Non è stato un granché. Dato che ero vergine non gli ho lasciato fare proprio tutto quello che voleva. Mi sono messa i soldi nel reggiseno. Al ritorno ho chiamato Letizia “ipsilon” che era co me dire “yes”. Prima di farmi scendere mi ha detto che mi amava. «Io no» gli ho risposto. E poi ho aggiunto: «Il mio prezzo va come la successione di Fibonacci».
«Cioè?»
«1, 2, 3, 5, 8, 13,… Devi sommare quello che hai pagato la volta prima con quello della volta prima ancora».
Quando sono tornata a casa ho fatto una doccia. Ma cercavo di non lavarmi. Ero attratta da quel nuovo corpo. Per una settimana non ci siamo fatte vedere. Avevamo da studiare. Non era ancora successo niente. Nessun omicidio. La signora dei racconti per bambini ci stava ancora provando e pensavamo che saremmo diventate ricche e saremmo andate a vivere insieme.
La seconda volta col trentacinquenne ha voluto venire anche Letizia. Gli abbiamo dato appuntamento fuori, in pineta. Gli abbiamo detto che avevamo solo un’ora di tempo e che doveva pagare tutte e due. Non ha fatto storie.
«Vuoi che ci baciamo?»
Gli abbiamo fatto vedere un po’ di cosette così si è arrangiato da solo.
Poi gli abbiamo fatto notare che era tardi e che sarebbe stato per un’altra volta. Non ha fiatato, se non quando mi ha detto che era pazzamente innamorato di me. «Io pazzamente di lei» gli ho risposto accarezzando Letizia. Quando ci ha lasciato abbiamo camminato leggere fino in centro.
La signora che scrive favole l’ha ammazzata una donna e il trentacinquenne un uomo sui novanta chili, dicono. Abbiamo avuto persino l’impressione che non ci guardi più nessuno. I più guardati sono gli uomini sui novanta chili. Io e Letizia ci facciamo la nostra vita. Studiamo e andiamo per i fatti nostri. Letizia mi ha confessato di essere stata a casa della signora che scrive racconti per bambini. Ma che non è successo niente. Hanno trovato secco anche il prof Maniscalco. Stavolta non abbiamo sentito la prof Sibona, quella di lettere. Ci hanno mandato tutti nella sala polivalente del comune dove c’era il preside, un prete, un altro che era uno psicologo e un carabiniere. E lì state attenti qui e state attenti là.
Il professor Maniscalco mi guardava sempre le gambe. Una volta ci ha fermato me e Letizia per dirci che il preside non voleva le minigonne ma che lui era per la libertà. C’aveva quarantotto anni. «Uno così c’ha sempre la miccia accesa» mi ripeteva Letizia. «Qualche volta gli si aprono i pantaloni e scoppia tutto. E spegnili sta miccia, no?»
«E spegnigliela tu» rispondevo. Allora un giorno nel corridoio gli abbiamo chiesto, visto che era di educazione tecnologica:
«Ma come funziona la miccia?»
«Quale miccia?». Intanto Letizia aveva fatto finta di cadere e gli si era aggrappata. Lui si era sbilanciato ed era finito proprio con la mano sulle mie tette. Non avevo detto niente e neanche mi ero tirata indietro. Era rosso come un pomodoro. Adesso si è accesa la miccia abbiamo pensato e abbiamo fatto di tutto per non ridere. Lui non riusciva a staccare sta mano. Allora ho fatto un passo indietro.
Il quarto però non se lo aspettava nessuno. Letizia stava sdraiata per terra. Teneva gli occhi ben aperti. Era seminuda. Aveva la testa dentro un sacchetto di plastica trasparente. Aveva anche il rossetto. Chi aveva mai visto Letizia col rossetto? Sul giornale la madre diceva che Letizia non si era mai messa il rossetto. La sua amica Marosia diceva che qualche volta se lo mettevano, per scherzo. Tanto le avevano viste tutti, tranne sua madre. I carabinieri avevano voluto sapere un mucchio di cose su Letizia.
Ma soprattutto volevano sapere se c’era qualcuno che voleva farsela. Non potevo mica dirgli che una volta il prof Maniscalco le aveva detto che male c’è se ci vediamo? Anche a me l’aveva detto. Mia mamma sembrava più distrutta del solito. Anche lei voleva sapere un mucchio di cose ma non sapeva come fare.
«E cosa ti hanno chiesto i carabinieri?»
«Niente»
«Non so, se c’era qualcuno»
«Sì»
«E c’era sto qualcuno?»
«No»
«Ma sei proprio sicura?»
«Non c’era nessuno, ti dico»
«Ma come, una come Letizia. Ed eravate sempre insieme, no?»
E i carabinieri che mi continuavano a dire: «Certo una carina come te. E una carina come Letizia. E che dico carina? Bella. Bellissima. Chissà quanta gente ti guarda quando cammini. Ci sarà stato qualcuno che qualche volta vi ha detto qualcosa a te e a Letizia, no? E poi, sto professore Maniscalco. Magari lo conoscevate bene, no? Lo conoscevi sto professor Maniscalco?»
«Lo conoscevano tutti a scuola».
«Sì, ma era uno»
«Uno come?»
Al funerale c’era un mucchio di gente. Tutta la scuola e tutta la città.
Comunque non volevo piangere ma poi ho pianto lo stesso.
Ho passato quindici giorni a prepararmi per gli esami. A Letizia non voglio pensarci. Il prossimo anno vado al liceo e questa è l’unica cosa a cui voglio pensare. Mi guardano tutti come se fossi una che sa un mucchio di cose. Prima o poi me ne vado da sto posto e così non dico più niente a nessuno. Non mi va più bene sto reggiseno. Mi piace guardarmi allo specchio. Mi tolgo tutto e mi guardo. Mi chiudo bene a chiave. Mia mamma ci prova sempre “Cosa fai chiusa in camera? Che fai sempre chiusa in camera?” Tengo lo stereo alzato. Ascolto Nick Drake e studio. Studio e studio. Più studio e più mi piace studiare.
Ho preso un altro centimetro.
Io lo so chi è stato ma non glielo dirò mai.
Adesso c’è anche una psicologa perché sono minorenne. La psicologa mi dice sempre: «Certo che sei proprio bella». Io penso: «Puoi ben dire». Allora le rispondo: «Non mi sono mai accorta di essere bella. Io non mi sento per nulla bella. Non so se gli altri mi vedono bella, a me non me l’hanno mai detto».
La frego sempre. C’ha dei denti lunghi e se li mastica mentre cerca di sorridere in continuazione e di dire stronzate che io non dovrei accorgermi che lei dice per inchiappettarmi.
«Però ti vesti come»
«Cioè?»
«Beh, si vede che ci tieni alla tua figura»
«Ma se si vestono tutte così, anche le racchie»
«Allora pensi che tu non sei una racchia»
«Perché, vuol dire essere belle?»
Insomma, si mastica sti denti e si digerisce tutto per finta. Poi mi dice:
«A venerdì».
«A venerdì». Mi alzo e cammino con le gambe strette e piegate come se mi scappasse. E mi tiro giù in continuazione la minigonna. Adesso lo faccio anche fuori così i carabinieri che mi spiano sono costretti a guardarmi ancora di più. Chissà quante pippe si fanno. Ho detto alla psicologa:
«Altro che farmi guardare dagli altri. Saranno sti carabinieri che mi guardano e mi spiano tutto il giorno».
Ha preso una bella boccata d’aria da masticarsi per un po’ e poi ha fatto la più bella faccia come se si stupisse e mi ha detto:
«Ti senti perseguitata?»
«No, ma me lo dicono tutti»
«Chi?»
«Tutti»
«E tu ci credi?»
«A cosa devo credere, allora? A lei che non lo sa?»
Si è masticata ancora un po’ d’aria e poi mi ha detto: «A venerdì». Ho fatto finta di essere spaventata: «Ho paura». Allora si è illuminata: «Ci sono io. Ci sono io mia cara». Ha fatto per prendermi le mani. Che schifo.
Istintivamente le ho ritirate. Allora le ho rifilato un: «Beata lei che sorride sempre». L’ho fregata. Adesso non vorrebbe più sorridere ma è troppo abituata a farlo e allora si ricorda di colpo che non deve sorridere come una scema e poi subito dopo si dimentica che non deve sorridere come una scema.
Intanto il mio corpo si allontana da questo mondo. Possono solo guardarselo e morire di invidia. Come canta Nick Drake in Pink Moon: «la luna rosa è in cammino/ e nessuno di voi potrà mai stare così in alto».
Adesso mi fanno spiare da due donne carabiniere, così almeno non si fanno le pippe. A meno che. Adesso invece di tirarmi giù la minigonna me la tiro sempre più su così ’ste chiattone vedono cos’è un corpo. La psicologa mi ha detto:
«Ti piace andare in giro?»
Allora faccio finta di no: «Non mi piace ma se sto a casa mi sento male».
«Interessante»
«Ho paura che i mobili si suicidino»
«Cioè?»
«Si suicidano»
«Interessante. Veramente. E come fanno?»
Allora le racconto che il frigo si spara e il letto si impicca. Non sa proprio cosa dire. L’ho definitivamente fregata. E davvero stavolta non le viene quel sorriso idiota. Poi si è fatta seria: «C’era qualcosa tra te e Letizia?»
Era divertente. Facevo finta di non capire. Cercava di girarci attorno.
Ad un certo punto mi ha detto: «Vi mandavate strani messaggi. Tipo ND. E un mucchio di sms vuoti. Che significavano?»
«E come lo sa?»
«Dai tabulati»
«Ci piaceva Nick Drake»
«Nick Drake?»
«È un cantante»
«Americano?»
«Inglese»
«È giovane?»
«Sì»
«Quanti anni ha?»
«È morto»
«Quando?»
«Saranno trent’anni»
«E come è morto?»
«Ha preso troppe medicine»
«Ah. E di cosa parla nelle sue canzoni?»
«Delle solite cose. Ci piaceva la musica»
«Ah. Sai, noi siamo convinti che tu sappia molte cose ma che non ce le voglia dire»
«Se sapessi qualcosa che non ho ancora detto ve lo direi così mi lascereste finalmente in pace»
«E cosa faresti se ti lasciassimo in pace?»
«La mia vita»
«E qual è la tua vita?»
«Studiare»
«Cosa?»
«Matematica»
E così sono finiti i nostri colloqui. Io ho cominciato davvero a studiarla giorno e notte e a diventare sempre meglio e a non uscire più.
Hanno dovuto lasciarmi in pace per forza.
Con la scrittrice di favole per bambini non siamo andate lì con l’intenzione. Era insopportabile quanto fosse arrapata. Puzzava di alcol.
Ad un certo punto le ho chiesto se voleva che le facessimo vedere qualcosa.
Non mi sarei fatta toccare con un dito. Le ho detto che doveva pagarci.
«D’accordo» ha risposto. Poi ha cominciato ad allungare le mani. Ci siamo guardate.
Abbiamo cominciato a far finta di scappare. Lei si avvicinava. Stavamo lì ad aspettarla. Appena era vicina che stava per sfiorarti facevamo come si fa con il toro nell’arena: «Olè». Si sforzava di ridere ma era fuori di sé dalla voglia. Mi sono fermata. Le ho detto, dura: «Facciamo un patto. Se mi prende le concedo i primi due minuti gratis. Poi paga. Ogni minuto raddoppiamo la cifra. Cominciamo da 1 euro. Ci vuole poco a sapere che dopo due minuti fanno 2 euro, dopo tre 4 euro, dopo quattro 8, dopo 20 una cifra: 2 alla 19, 524288. Ce l’ha 8 euro?». Mi guardava senza capire. Mi sono fermata:
«Ha capito cosa le ho detto? 524288! Sennò ce ne andiamo». Volevo andarmene. Non capiva. Era furiosa. Mi ha afferrato. Le ho dato un vaso di bronzo sulla testa. Era lì, a portata di mano. È rimasta stordita ma non si fermava. Sembrava un automa in foia. Si è buttata verso di me. Le è arrivato un secondo colpo. È caduta in ginocchio. Invece di calmarsi mi ha placcato le gambe. Le ho dato un terzo colpo ed è andata giù. Ho sentito i polmoni come se si svuotassero: «woofff». Allora Letizia ha preso una boccetta di Darkene che era sul tavolino e gliel’ha versata tutta in bocca.
Invece di addormentarsi si è svegliata. Cercava di sputare debolmente.
Letizia le ha messo il cappuccio di plastica. Io le tenevo i polsi. Lei non aveva la forza di divincolarsi. Letizia le ha girato il nastro isolante attorno al collo. Poi l’abbiamo tenuta giù. La signora che scriveva racconti per bambini adesso si era ripresa e cercava di liberarsi. Muoveva la testa a sinistra e a destra e cercava di urlare. Sembrava la voce di una radio sotto le coperte. Non riusciva a respirare. Ho cominciato a contare ad alta voce: uno, due, tre. Non c’è voluto tanto, cinquanta o sessanta.
Per sicurezza ho contato fino a duecento, ma non ce n’era proprio bisogno.
Sti vecchi non hanno niente dentro, né nei muscoli e né nella testa. Non avevamo toccato niente da nessuna parte. Guanti di lana, sono il nostro distintivo. Naturalmente i carabinieri avevano trovato segni di scarpe da donna con i tacchi, numero trentanove e numero trentanove. Stesso modello, stessa marca, stesso peso, quasi. Ci voleva poco a stabilire che c’era una donna che le ha dato una botta in testa. Va a scoprire che sono due ragazzine che c’hanno il corpo da donna. Non vorrei che pensassero che c’è qualcuno tipo giustiziere che va a ripulire il mondo delle sue brutture. Niente di tutto questo. È semplicemente andata così. Faceva semplicemente schifo. Se fai un giro d’orizzonte non vedi essere umani, solo vecchi e scemi che si lamentano e si lamentano.
Il trentacinquenne facevamo finta che fosse il modo giusto per farci un po’ di soldi. Ma anche con lui era come con la signora che scriveva libri per bambini. Era come andare a scuola, nel laboratorio di scienze a fare esperimenti. Poi un giorno mi ha detto che non gli andava più in quel modo.
Che mi amava, eccetera. «Va bene» gli ho detto, «Addio». Fine dell’esperimento, abbiamo pensato io e Letizia. In effetti non ne avevamo più voglia. Invece ha cominciato a rompere. Te lo trovavi da tutte le parti. Abbiamo cambiato posto, in pineta. Però un giorno ci ha trovato. Ci aveva seguito. Noi alla pineta e lui dietro di noi che implorava e minacciava. Per tenerlo buono gli ho detto: «Cosa credi, che io non soffra?
Ma lo sai quanti anni ho? Tredici». «Ti prego» ho ancora aggiunto «Dammi il tempo di riflettere». Cercava di baciarmi ma non gliel’ho permesso. Era tardi. Ho inventato che avevo un appuntamento: «Ci accompagneresti in macchina?». Errore fatale. Ha fatto un paio di chilometri dalla parte opposta. Era fuori di testa. Allora ho finto di sentirmi male. Volevo prendere tempo. Letizia mi ha detto:
«Vuoi la tua medicina?». Geniale! «Grazie, sì». «Che medicina?» Mi ha domandato lui. «Sono malata» gli ho risposto. Letizia ha riempito un bicchiere di due boccette intere di Roipnol che aveva fregato a sua madre.
Io intanto facevo finta di avere bisogno di dormire. Ma non avevo idea di cosa sarebbe successo. Neanche Letizia. Ci ha provato. Gli ha detto: «Vuoi un po’ di coca-cola?» Gli ha dato il bicchiere con le gocce nella coca-cola. Istintivamente gli ho detto: «Al nostro» Ma non sono riuscita a pronunciare la parola amore neanche per finta. Mi sono sforzata di sorridergli. «Uno, due, tre, tutto d’un fiato, dai!» Ho toccato col mio bicchiere di plastica il suo. «Dai! Tutto di un fiato!». Abbiamo buttato giù tutto d’un fiato. «Ha uno strano sapore» ha detto lui.
«È un nuovo tipo» ha risposto Letizia. «Baciami» ho detto io. Mi veniva da vomitare. L’ho baciato e l’ho baciato. Avevo paura di avvelenarmi.
«Ne volete ancora?» Aveva riempito altri due bicchieri. Ho dovuto continuare a baciarlo e a farmi toccare finché abbiamo capito che non ce la faceva più a stare sveglio. Allora abbiamo aspettato. Abbiamo provato a svegliarlo. Così Letizia ha potuto mettergli il sacchetto.
Erano le sette. Era buio. Sono scesa. Per terra era asfaltato. Letizia è salita sulle mie spalle. Insieme saremo state sui novanta chili. Ho lasciato un paio di impronte in un punto dove c’era la terra. Camper alte di due numeri più grandi. Poi abbiamo raggiunto la spiaggia di ghiaia e di lì la passeggiata che andava verso la città.
Il prof Maniscalco mi ha sibilato: «Che ci facevate in macchina con un uomo?»
«Chi?»
«Non era certo un ragazzino. Una Bmw».
«Lei non ce l’ha la Bmw?» ha detto Letizia strafottente. Avevo paura. L’ho zittita: «Ci porta a prendere un gelato un giorno?» ho detto al prof.
«Oggi?»
«Dove?»
«A casa mia»
«Meglio domani. Oggi ho da studiare». Invece ci siamo andate alle quattro.
Pioveva e c’era poca gente in giro. Abitava in un postaccio dietro la scuola. Era guardingo. Letizia aveva tutte le sue cose da bere ma non sapevo se avrebbe funzionato. Se non funzionava dovevamo fargli qualcosa che se ne stesse zitto perché gli conveniva. Era teso e imbarazzato. Gli ho detto: «Però al massimo ti posso fare un pompino. Sono vergine». Poi non gli ho dato altro tempo. Mi sono tirata su la maglia che mi vedesse ben bene le tette. Poi mi sono tirata giù i pantaloni, me li sono tolti e mi sono levata le mutandine. Avevamo vestiti da maschio, grandi e senza forma. Si era arrapato. Gli ho fatto vedere ben bene il pelo. Non si chiedeva più se eravamo vestite da maschio o da femmina. Di fronte allo spettacolo si è dimenticato che era in allerta.
«E lei?»
«Anche lei te lo fa». Si è spogliata anche Letizia. Continuava a guardare. Letizia non ha quasi pelo. Lo ha fulminato. Continuava a guardare. Lei gli ha fatto uno spettacolo di andirivieni mentre metteva la sua roba a posto e la piegava per bene. Gli ho detto: «Spogliati. Però devi lavarti». Letizia lo ha aiutato. Ma lui continuava a guardarmi. Facevo finta di niente.
«Vatti a lavare, dai». È andato nel suo bagno cieco. Gli sono andata dietro. «Se non ti dispiace faccio pipì». «Dai, fa in fretta» gli ho ripetuto. Letizia mi ha detto: «Sbrigati, devo farla anch’io». Si è fatta un giro in cucina. Avevamo pensato ad una possibilità. Quando è tornata in bagno lui era sul bidè. Dallo sguardo di lei ho capito. Gli ho detto «Dai, ti lavo io». Non gli era venuto duro. Nessun commento. Letizia si è piazzata dietro di lui. Li aveva nascosti sotto la maglietta. Ho cominciato a succhiarlo. Poi ha cominciato lei. Mi aveva passato un coltello da cucina.
Avevo un secondo. Lei glielo ha stretto. Lui si è concentrato su quello e io ho contato solo fino a uno. Tutti i pesi che ho fatto si sono rivelati provvidenziali. Gliel’ho piantato in gola. Letizia si è alzata di scatto e si è spostata di fianco. Lui si è portato le mani alla gola. Non ha detto niente. Si è tirato su come un bufalo e lì ho avuto paura. Eravamo pronte tutte e due. Zampillava. Poi è andato giù. Eravamo nude. Letizia aveva una macchia sulla gamba. Io ero pulita. Abbiamo tenuto sotto controllo la scena fino all’ultimo. Avevo il suo schifosissimo sapore in bocca. Non volevo che restasse nessun segno. Gli ho versato l’Ace tra le gambe. Non volevo che restasse la mia saliva, o le mie cellule di lingua. Abbiamo infilato i coltelli in una pentola e gli abbiamo versato sopra Omino verde.
Non avevamo toccato nulla e non ci eravamo tolte mai i guanti, anche se erano da cambiare. Ma ne avevamo un paio nuovo. Prima di uscire abbiamo cosparso nella sua camera tinello cucinino bagno tutti i detersivi che abbiamo trovato. Abbiamo fatto una poltiglia. Erano passati solo una trentina di minuti. Dovevamo andare a farci vedere sul corso.
Non c’era nessuno per le scale. Il vero problema era di non farsi vedere.
Per fortuna pioveva. Avevamo una sciarpa che ci copriva praticamente la faccia. Ci siamo nascoste sotto l’ombrello. In quel postaccio non c’era nessuno. Ci siamo divise. Avevo io tutta la roba da buttare, cioè i guanti.
Li ho buttati in un cassonetto, lontano. Ci siamo ritrovate a casa mia.
Abbiamo fatto la doccia, ci siamo conciate da strafighe e dieci minuti dopo abbiamo fatto il solito defilé sul corso.
Però lo sentivamo, era finita. Il mondo faceva schifo lo stesso, come prima. Mia mamma continuava a prendere i suoi ettolitri di Minias, En, Serenase eccetera. La prof di italiano dopo un po’ ha smesso di dire cazzate però non aveva nient’altro da dire. Il gioco era finito. Nonostante la gente si fosse infervorata al nuovo gioco, era giunto il momento di toglierglielo. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo ma poi tutto sarebbe tor nato a qualche forma di rassegnata normalità. Sarebbero tutti tornati ad essere quei morti che erano. Mica puoi ammazzare metà della popolazione perché l’altra metà si senta viva. Se vuoi una cosa è cambiata. Ho davvero capito cosa farò nella vita: la matematica. E anche che mi sono stufata di fare arrapare tutti sul corso. Fine della nostra prima classe nella scuola della vita. Avevamo un diploma ma non c’era il lavoro corrispondente se non quello di andarsene da quel posto.
Il mio unico gioco è diventato quello di farmi tutto il libro di geometria di mio fratello che fa le superiori ma senza guardare come si dimostrano i teoremi. Ci voglio arrivare da sola. Finora ci sono riuscita. Sono al ventisettesimo teorema. Poi ho preso un altro centimetro. Poi ancora mi sono comprata un libro di matematica nuovo. Passavo i miei pomeriggi a leggerlo. Anche le sere e le notti. Mia mamma rompeva sempre: «Ma non ti guardi la televisione?».
Non avevo più voglia di uscire. Così, di colpo, ho visto che è bastato un metro di una strada nuova ed è come se avessi già fatto dieci chilometri.
Letizia non diceva niente. Ogni tanto la pensavo ma ero confusa. Però avrei voluto che anche lei venisse con me. Quando facevamo l’amore io non smette vo di pensare. Pensavo alla matematica e vedevo la mia strada e la sua. Che me ne sarei andata il più presto possibile e che lei sarebbe rimasta a fare magari l’impiegata, e alla fine chissà. Letizia si vedeva che soffriva. Mi mandava i soliti sms vuoti, ma uno dopo l’altro. Non mi veniva voglia di rispondere. Veniva a studiare a casa mia ma non riusciva a studiare. Voleva solo che la baciassi, che lo facessimo sempre. Ma io più me lo chiedeva e più avevo voglia di studiare. Se io studiavo lei sbuffava e diventava triste. Non sopportavo la sua tristezza. Facevo finta di no ma era finita. Poi un giorno gliel’ho detto. Non potevo neanche guardarla in faccia. Volevo andare lontano. Ho detto a mia mamma che avrei fatto il concorso per avere una borsa di studio da qualche parte. Passavo le mie giornate a studiare tutto. Non solo matematica. Ero diventata la super prima della classe. Letizia non stava neanche più nel mio banco. Stavo da sola.
Stavo benissimo.
Mi ha chiesto un appuntamento in pineta. «Alle quattro. Prima non posso, le ho detto». Mi è arrivato un sms vuoto alle due. Non ho risposto. Me ne ha mandato un altro alle tre. Non ho risposto. Non era nel solito posto, in pineta. Era sdraiata sulla riva, sui ciottoli. Da lontano si vedeva il sacchetto di plastica che faceva da specchio, come un vetro. L’ho chiamata.
Non ha risposto. Mi sono tolta le scarpe e ho camminato verso lei con i piedi nell’acqua. Aveva gli occhi aperti. Anche lei non aveva spento la luce. Si era spogliata. Voleva lasciare qualche dubbio, forse. Che anche lei fosse stata vittima del maniaco? Accanto però c’era una boccetta di Roipnol. Ho pensato: magari ha scritto tutto su un diario o ha un biglietto in tasca. Ho aperto il suo zaino. Sul suo diario solo sigle, le solite, che volevano dire qualcosa solo se lo sapevi. In tasca niente. Solo una foto di classe. Eravamo vicine. Non mi aveva tradito. Ho rifatto la strada verso casa. Adesso potevano venire da me. Non avevo niente da raccontare. Per il resto avevo solo tredici anni. E un dolore che potevo curare solo con la matematica.
Adesso ho ventisei anni. Insegno all’università: matematica. Sono sempre una strafiga. Sempre di più. Non mi sono sposata. Non mi sono neanche mai fidanzata.
Il mio campo d’indagine è quello dei fondamenti. La matematica non ha fondamenti, questa è la sua ferita che non si rimargina. Ho imparato dai matematici che si va avanti lo stesso, sulla via dell’imperfezione, spinti come insetti da una specie di istinto. Mi vengono i brividi a pensare che la questione dei fondamenti sia magari una questione di biologia e di leggi contingenti. Però non lo so e non credo che lo sapremo mai. Ogni tanto vado da un dottore, uno psicodottore. È innamorato di me e si arrampica sui vetri per dimostrarmi che c’è una soluzione a tutte le cose. Mi piace assistere all’inutilità dei suoi sforzi. Qualche volta mi viene voglia di fargli un regalo: andarci a letto. Sarebbe un regalo andarci a letto una sola volta? O due o tre? Comunque non riuscirò mai a fargli questo regalo.
In qualche modo Letizia ha vinto. Mi ha insegnato che devi avere il coraggio di fermarti in tempo e di non abituarti ad alzare la soglia del dolore così tanto da vanificare lo stesso concetto di dolore. È quello che mi è successo? Non so rispondere. Forse sta qui la questione dei fondamenti? Sapere dire di no? Non so rispondere. La verità è che non so rispondere a niente.
Se Letizia fosse viva vivrei con lei. Non sapendo niente cercherei di non sapere niente. Non andrei a caccia di fondamenti. Però, mentre dico queste cose mi rendo conto che non so esattamente quello che dico. Ho l’impressione di tirare un filo infinito. Non so cosa ci sia all’altro capo del filo. Passo il tempo che mi resta durante la giornata a tenere vi vo il ricordo. Non ho più nessun ritegno: parlo con lei, le spiego quello che faccio, la sgrido, le rispondo male, e poi le faccio tante coccole.
So che non la rivedrò più.
Mi sono comprata dei sacchetti di plastica trasparenti e nastro isolante nero, largo un centimetro appena. Come quello di Letizia. Non ho ancora le gocce. Ma quelle non ci vuole niente a trovarle, quando servirà. Devo solo abituarmi all’idea che non la troverò più, da nessuna parte. È per questo che sopravvivrò ancora per un po’ di tempo.
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