giovedì 12 settembre 2024

Sandro Borgia: Una questione di stile


«Mi sembra perplesso, signor ispettore.»
Il funzionario di polizia si tolse gli occhiali e mi guardò ancora più stupito.
«Perché, secondo lei, non dovrei?» mi domandò.
«Non so, forse un poco sì; forse non sono stato del tutto chiaro…»
«Se è per questo, è stato chiarissimo: lei ha fatto un sogno, ma sostiene che non è suo. È così?»
«Esatto.»
«E allora?»
«Come allora? Il sogno, torno a ripetere, non è mio; questo è molto importante, e io…»
«E lei non vuole appropriarsene. È molto onesto da parte sua. Ma, vede, qui noi non trattiamo i diritti d’autore, per lo meno non quelli che riguardano la proprietà, diciamo così, onirica.»
Ridacchiò, compostamente come si conviene ad un britannico, ma ridacchiò.
«Signor ispettore, in altre circostanze sarei stato in grado di apprezzare il suo delicato sense of humour» mi permisi di osservare «ma qui si tratta di una cosa molto seria, si tratta di un omicidio, ed io sono l’assassino.»
«Nei sogni, prima o poi, siamo tutti criminali» disse l’ispettore a mo’ di sentenza. E questa specie di epifonema dovette sembrargli una buona conclusione perché si accinse ad alzarsi, indicando così che il nostro colloquio poteva considerarsi terminato.

«Ma nel sogno ho ucciso Pamela Winters» ripresi, ignorando l’indicazione.
L’ispettore restò a mezz’aria, poi lentamente si rimise a sedere.
Mi scrutò.
«Conosce Pamela Winters?» domandò.
«No.»
«Strano.»
Parve riflettere. Improvvisamente, come illuminato:
«Ah!» disse «ho capito, lei certamente avrà visto su qualche giornale di ieri la fotografia di questa ragazza scomparsa tre giorni fa e…»
«In effetti è così» lo interruppi «mi ha colpito il suo viso, che mi ricordava appunto…»
«Vede…»
«Ma il fatto è che questa ragazza è stata ammazzata, e in modo orrendo.»
«E che cosa glielo fa supporre?»
«Ma il sogno. Appunto il sogno che non mi appartiene.»
«Lasciamo stare questa storia dell’appartenenza» riprese l’ispettore «a noi la ragazza risulta, fino a questo momento, soltanto scomparsa. Lei» continuò «è arrivato a Londra solo ieri sera, così mi pare che abbia detto, e…»
Poi, come se avesse avuto una nuova, improvvisa illuminazione:
«Ah! ho capito» disse di nuovo, e il tono della voce assunse, mi sembrò, una leggera sfumatura d’ironia. «Lei probabilmente è un… un… come si dice… un paragnosta, ecco, e vuole mettere la sua capacità di percezione extrasensoriale o qualcosa del genere a servizio della polizia per aiutarla a risolvere questo caso. La sua disponibilità le fa onore, ma per il momento…» Stava per congedarmi ancora una volta, alzandosi e offrendomi la mano, quando:
«Non capisco, però, perché lei vuole dissociarsi dal suo sogno» disse.
«Infatti non è mio, è apocrifo.»
«Apocrifo? Un sogno apocrifo? … questa poi! E perché mai il sogno non sarebbe suo?»

«Per ragioni di stile.»
«?»
L’ispettore si rimise gli occhiali, si sistemò meglio sulla poltrona e mi guardò come se aspettasse una qualche plausibile spiegazione.
Me ne resi conto. Infatti:
«Conosce Lutoslawschi?» m’informai.
«Luto… chi?»
«Lutoslawschi.»
«Mi dispiace. Chi è?»
«Un tale che, utilizzando l’esame stilometrico del testo, è riuscito a stabilire, per esempio, la cronologia delle opere di Platone.»
A questo punto l’ispettore riprese, accentuandola, l’espressione di perplessità che aveva contraddistinto il suo atteggiamento fin dalle prime battute del nostro colloquio. Poi, come se uscisse da una sorta di stordimento:
«Ma che c’entra Platone?» esclamò «ma di che testo mi va parlando?»
«Ho citato Platone, tanto per fare un esempio» replicai ma poteva trattarsi di chiunque altro. Con la tecnica cui ha accennato, analizzando cioè gli elementi semantici, frastici e distribuzionali di un testo, enucleandone gli stilemi, è possibile attribuirlo o no a un determinato autore e perfino stabilire, con buona approssimazione, l’ambito temporale in cui detto testo fu concepito.
«Ah! sì?»
«Sì, perché, come dice Leo Spitzer, applicando il pensiero vossleriano, una particolare espressione linguistica è il riflesso e lo specchio di una particolare condizione dello spirito. Cito a memoria, naturalmente.»
«Naturalmente» convenne.
«Quanto al testo, è ovvio, si tratta del sogno.»
«Il sogno è un testo?» azzardò l’ispettore.
«Certamente. Nel sogno qualcosa parla, ça parle, direbbe Lacan. Diciamo pure che è l’inconscio del sognatore che parla. E se per lui non funzionano le leggi logiche e temporali del discorso cosciente, esso si presenta pur tuttavia strutturato come un linguaggio, con la sua grammatica, la sua sintassi, il suo stile, che naturalmente rispecchiano il suo autore. Ebbene, signor ispettore, io non mi riconosco nello stile di questo sogno. I suoi stilemi non sono, non possono essere assolutamente i miei.»
«E perché mai?»
«Dovrei raccontarle il sogno.»
«È proprio necessario?» chiese l’ispettore mostrando, nonostante il suo self-control, una leggera sfumatura di apprensione.
«Non si preoccupi, non è tanto lungo.»
«Se è così, dica pure.»
«Sì, certo. Devo però premettere» riprese «che, come nella veglia, così anche nei sogni, io faccio un uso estremamente moderato delle figure retoriche, la cui utilizzazione più o meno sofisticata è la spia più sicura per individuare una scelta di stile. Io mi servo, le poche volte che mi capita, di quelle figure che ormai fanno parte più della “langue” che della “parole”, per usare la terminologia saussuriana; in fatto di metafore, per esempio, ne utilizzo di tanto in tanto qualcuna praticamente morta o per lo meno talmente invecchiata e logora da non caratterizzare nessuno stile, nemmeno il più piatto.
«Così lei sostiene che le metafore invecchiano o addirittura muoiono. Interessante.»
«Non lo dico io, ma il “väänänen”.»
«Chi?»
«Non so come si pronunci esattamente, ma lo giuro, si scrive proprio così.»
Scrissi il nome su un pezzo di carta e glielo porsi.
«Questo signore» continuai «è l’autore di un saggio intitolato appunto
Metafore ringiovanite e risuscitate che lei potrebbe leggere in…»
«Lasciamo stare» m’interruppe l’ispettore «veniamo al suo sogno.»
«Ecco, le dico subito che il mio Super-Io non è eccessivamente esigente, la sua censura mi permette abbastanza e pertanto i miei sogni sono, in generale, sufficientemente espliciti. Il mio Es non deve ricorrere a complesse e ardite metafore, come sono indotti a fare altri Es, per fuggire all’occhiuta presenza di censure più vigili. Certo anche il mio di tanto in tanto, in qualche momento più scabroso, è costretto a utilizzare qualche metonimia, qualche sineddoche, perfino, lo ammetto, qualche ossimoro paranomastico; insomma qualche sigaro, qualche barca, qualche scala la sogno anch’io di tanto in tanto. Ma dai miei sogni, anche accuratamente analizzati, si potrebbe ricavare, tutt’al più, che so io… una leggera forma di scopofilia, mai e poi mai assurde mostruosità come quelle del sogno in questione. Dai suoi… per esempio… cosa sogna solitamente, ispettore?»
«Ma così, su due piedi…»
«Comunque sia, lei potrebbe mai sognare, faccio tanto per dire, di imboccare il suo membro con pane e formaggio?» Sembrò colpito da questa domanda, tuttavia, dopo un attimo di esitazione:
«No» disse «non direi… penso proprio di no… anche se, onestamente debbo ammettere di non conoscermi tanto bene… stilisticamente, intendo dire. Mi sembra però strano che si possano sognare cose del genere».
«Eppure qualcuno l’ha fatto. Lo attesta nel suo Libro dei sogni il grande
Artemidoro, per il quale il membro virile simboleggia tante cose: genitori, figli, fratelli, in pratica tutti i consanguinei, ma anche i discorsi e la cultura, data la sua fecondità, perfino la ricchezza, perché ora cresce e ora si ritira. In base a quest’ampia polisemia chissà quali problemi psicologici, quali turbe sessuali avrà avuto questo ignoto sognatore dell’antichità, magari della Bitinia. Ma lasciamo stare.»
«Sì, lasciamo stare» convenne l’ispettore «la Bitinia esula effettivamente dal nostro discorso. Torniamo piuttosto al sogno.»
«Cominciamo pure» dissi con una certa enfasi «e già l’inizio è estremamente significativo. Dunque: Scuri andavamo nella notte… Ha notato l’ipallage?»
«L’ipallage?»
«Le spiego. Se qualcuno dice o scrive, tanto per fare un esempio, l’ira fulva del leone, chiaramente l’ira non può essere fulva, caso mai il leone, allora costui fa uso di quella figura retorica che si chiama ipallage; ebbene, il sognatore in questione invece di “andavamo nella notte oscura” sogna appunto “andavamo scuri nella notte”.»
«E perché questa… questa… ipallage, mi sembra abbia detto, sarebbe, secondo lei, molto significativa?»
«Perché questo Tizio, che ha commesso un così orrendo delitto, nel rammemorarselo oniricamente, già nella prima lessia si preoccupa, senza alcuna necessità, di preziosità linguistiche di questo tipo, utilizzando, direi voluttuosamente, una figura retorica oggi, tra l’altro, alquanto obsoleta e si concede, nello stesso tempo, anche la finezza di una citazio ne, parafrasando un verso di Virgilio. Questo Tizio, dico, dev’essere veramente un depravato, un vizioso della lingua e, direi, non solo della lingua. Il suo modus narrandi o somniandi, che è la stessa cosa, come abbiamo visto, è la spia del suo modus operandi. Per me, non ho alcun dubbio, si tratta di un letterato raffinato e perverso. Del resto il seguito del sogno s’incaricherà di confermare questa mia convinzione.»
«Mah!» fece l’ispettore «vada pure avanti.»
«Dunque, dicevo, che andavamo scuri nella notte o, se vogliamo…»
«Ma chi andava, scuro o no che fosse?» intervenne l’ispettore.
«Ma io e la ragazza, naturalmente, o meglio, la ragazza e l’autore del sogno; e chiaramente si andava ad un convegno amoroso.»
«Questo lo capisco anch’io» disse l’ispettore con un sorriso che voleva essere di maliziosa ingenuità.
«Già, anche in Inghilterra, immagino, solus cum sola, e per di più di notte, non si presume che si accingano a recitare il rosario. Comunque, camminando abbracciati lungo uno stretto viottolo ci inoltrammo in un boschetto. Arrivati ad una piccola radura ci sdraiammo l’uno accanto all’altra, mentre da lontano veniva il suono di una tarantella. Ci furono subito delle effusioni di tenerezza e già durante questi primi trasporti, la ragazza, non so perché, mi chiamava mio caro William, quando in realtà il mio nome è Alessandro,

Sandro per gli amici, mentre io mi rivolgevo a lei chiamandola mia piccola principessa di Palestrina. Ad un tratto, vicino a me, vidi due piccoli caprioli saltellanti, ognuno dei quali aveva in qualche parte una verruca. Fui stranamente insopportabilmente affascinato da queste verruche. Estrassi il coltello e le recisi. Quindi la mia attenzione fu attratta da un mucchio di grano che aveva in qualche parte un cespuglietto triangolare. Tagliai anche quello. Poi, non so come, ebbi l’impressione di vedere una prora acuta che poi diventava il vomere di un aratro che solcava il mucchio di grano avanzando dritto lungo un preciso binario.»
Mi interruppi.
«Fin dove avanzò?» chiese l’ispettore di polizia.
«Il sogno non lo precisa. Solo che il mucchio di grano si aprì e spumeggiarono flutti di un vivido liquido rosso.»
Mi fermai.
«Continui pure» disse l’ispettore.
«Ho finito.»
«Ha finito? Tutto qui?»
«Tutto qui. Che ne dice?»
«Mah, senza offesa per nessuno» riprese l’ispettore «sia il sogno in sé che il racconto mi sembrano abbastanza melensi. A parte l’immagine dei caprioli, peraltro deturpati da verruche, seppure estirpate nel corso della narrazione, non ci vedo dietro un grande letterato e tanto meno un esempio di raffinata perversione. E soprattutto non ci vedo nessun delitto, nessun orrendo delitto di natura sessuale. Tagliar verruche e cespuglietti mi sembrano attività del tutto innocenti.»
«Questo è soltanto il contenuto palese del sogno» dissi «ma sotto che cosa c’è?»
«Sotto che cosa c’è?» ripeté meccanicamente l’ispettore.
«Qui casca l’asino.»
«Quale asino?»
«Non so, da noi si dice così. Ma lasciamo stare l’asino. Decodifichiamo piuttosto questo strano sogno.»
«Decodifichiamo pure.»
«Tanto per cominciare» ripresi «lo sa che cosa nasconde, in un contesto del genere, l’immagine dei caprioli?»

«Non so… una situazione idilliaca, suppongo.»
«Ma lei vuole scherzare, caro ispettore. L’immagine dei caprioli nasconde ben altro che un idillio. I caprioli, e il codice di riferimento culturale è l’Antico Testamento, simboleggiano nientemeno che le mammelle. È una similitudine estremamente ardita, lo riconosco, ma piaccia o no, essa tratta inequivocabilmente dal Cantico dei Cantici, dove le poppe dell’amata sono paragonate dallo sposo appunto a due piccoli caprioli gemelli che pascolano nei gigli.»
«Le mammelle… a due caprioli…» disse l’ispettore visibilmente sorpreso e, si sarebbe detto, incredulo.
«Certo» ripresi «il seno della donna ha sempre suscitato le più svariate immagini. Le mammelle in letteratura, a quanto mi risulta, sono state paragonate a tante cose: a pani, a nespole, a pesche, a poponi, a noci di cocco, perfino a carni di passeri implumi, però a caprioli…»
«Ma lei è sicuro che nelle Sacre Scritture…?» insinuò l’ispettore.
«E lei» incalzai «non la legge la Bibbia?»
«Sì, certo, ma quando l’apro a caso, come usiamo noi protestanti, mi capita quasi sempre il salmo 22 che comincia: “Il Signore è il mio pastore… in erbosi pascoli mi fa posare” etc., oppure il salmo 26 che suona: “Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; chi temerò io?” etc. etc. Niente di così ardito, come vede.»
«Certo, niente di paragonabile ai caprioli-seno. L’immagine è veramente forte, ma proprio questa arditissima figurazione utilizza il nostro raffinato e perverso letterato e in circostanze che avrebbero consigliato una ben maggiore sobrietà espressiva. Ma non basta.»
«Già, le verruche, per esempio, che c’entrano le verruche?» domandò l’ispettore che sembrava interessarsi sempre di più a questa storia.
«Ci ho dovuto riflettere molto. Il codice ermeneutico biblico non mi offriva altre possibilità esegetiche. Ma alla fine sono riuscito a capire anche il vero significato delle verruche. E la scoperta, mi creda, è stata semplicemente raccapricciante. Il nostro perverso letterato deve conoscere il tedesco, perché in questa lingua sa cosa sono le verruche dei caprioli che adesso sappiamo essere, in verità, simboli del seno?»
«No.»
«Le verruche del seno (Brustwarzen) in tedesco sono…»
«Sono?» mi interruppe l’ispettore impaziente.
«Le verruche del seno sono… i capezzoli.» L’ispettore rimase a bocca aperta.
«Comincia a rendersi conto» continuai «con che razza di tipo abbiamo a che fare? Sotto il velame di insolite immagini poetiche o strane costui, chiunque sia il destinatario del suo messaggio, comunica oniricamente che ha reciso i capezzoli di questa povera ragazza.»
Feci una pausa. Poi:
«A questo punto non c’è bisogno che le decodifichi il cespuglietto triangolare, vero ispettore?» dissi.
«No, certo… ma il mucchio di grano?»
«Ci pensi un po’.»
«No!» esclamò l’ispettore dopo un attimo di riflessione.
«E invece sì, il mucchio di grano, e il codice di riferimento culturale è ancora una volta il Cantico dei Cantici, è semplicemente una metafora del ventre.»
«Spaventoso» disse l’ispettore che cominciava a rendersi conto di ciò che si nascondeva dietro questa orribile anastomosi dei significanti.
«E non è tutto, badi bene, il perverso letterato che si cela dietro questo sogno che a lei sembra tanto insulso, va oltre e, come a volte succede a questi raffinati letterati, per strafare, per rendere il sogno stilisticamente il più ricercato possibile, cade… era quasi invitabile…»
«Cade?»
«Nel cacòzelon.»
«In che cade?»
«Appunto nel cacòzelon. E questo taglia la testa al toro.»
«Quale toro?»
«Non so, da noi si dice così. Ma il toro non ha poi tanta importanza.
Importantissima invece è questa mala affectatio perché in maniera definitiva decide la questione dell’appartenenza del sogno.»

«Il cacòzelon decide…?»
«Sì, perché io, signor ispettore, di me si può pensare tutto quello che si vuole, io, ripeto, il cacòzelon non l’avrei mai e poi mai né pensato, né scritto, né tantomeno sognato. Il cacòzelon.»
«Ma Sant’Iddio, che cos’è questo spaventoso cacòzelon?» disse l’ispettore di polizia, alzando la voce.
«È un vitium elocutionis, il peggior vizio di stile, direbbe Quintiliano, una inconsequentia rerum foedissima, peggiore del cachènfanton» gridai a mia volta, senza chiedermi se l’ispettore capisse o no il latino e il greco.
«Pure il cachènfaton adesso!» riuscì a dire l’ispettore che aveva ormai perduto quell’aria di divertita sufficienza dell’inizio ed era visibilmente provato. «Posso sapere che cos’è questo cacòlzelon e che cos’è il cachènfaton?»
«Già le stesse parole citate» ripresi «a causa della loro prima metà, suonano, almeno in italiano, in modo tale da rappresentare un esempio di cachénfaton. Un esempio peraltro assai blando. Ce ne sono di peggiori.
Sempre in italiano e sempre per esemplificare, se uno dicesse che è stata ritrovata una statua antica con il corpo di Bruto e la testa di Cassio, per certe assonanze che la testa di Cassio suscita negli italofoni, ecco un cachènfaton. Non conosco l’inglese così a fondo, ma non v’è dubbio che anche in questa, come in tutte le lingue, siano possibili simili sconvenienti giochi di parole, il cachènfata appunto. Ma debbo prendere atto che, almeno in questo sogno, il perverso letterato non è incorso in sconce difformità di siffatta natura.
«Ma nel cacòzelon sì» riprese l’ispettore «dove il perverso letterato, chiamiamolo pure così, è incorso in questa che, secondo lei, è una spaventosa ineleganza, assolutamente aliena dal suo modo di esprimersi nella veglia come nel sonno?»
«Proprio nel finale quando paragona il coltello ad una prora che poi diventa il vomere di un aratro che solca o ara il mucchio di grano avanzando addirittura su un binario. Un aratro che avanza su un binario in un mare di sangue. Incredibile! È come dire, e qualcuno l’ha detto, che il carro dello Stato naviga su un vulcano.»

«E questo non va.»
«Assolutamente no, neanche, è proprio il caso di dire, per sogno.»
«Mi tolga una curiosità» insistette l’ispettore «la prora e/o il vomere chiaramente, adesso lo sappiamo, simboleggiano il coltello che affonda nel ventre; ebbene questo coltello nel sogno avanza fino ad un certo punto che però non viene specificato. La visione si interrompe bruscamente.
Perché?»
«Ancora una finezza del perverso letterato. Un’aposiopesi. Una volta determinato il campo semantico, non è difficile stabilire che il punto d’arrivo, partendo dal cespuglietto, non può essere che l’ombelico, ma il vizioso autore del sogno si interrompe per creare un effetto speciale, un effetto aposiopesico appunto.»
«Ci sono ancora due particolari» riprese l’ispettore che ormai sembrava del tutto coinvolto» di cui non afferro la funzione… la funzione…»
«Diegetica» mi permisi di suggerire.
«Ecco appunto. La principessa di Palestrina e la musica napoletana, secondo lei, significano qualche cosa?»
«Se non è una citazione erudita voluta, credo che si tratti di una criptomnesia ecforizzata riferentesi ad un episodio del Candide di Voltaire, là dove un eunuco napoletano, in circostanze assai drammatiche, al cospetto della figlia della principessa di Palestrina, esclama: “O che sciagura d’esser senza coglioni”. In italiano nel testo. Sarebbe allora una perifrasi con cui il sognatore comunica che, in fondo, è affetto da impotenza. Sono spesso i portatori di tale handicap gli autori dei più efferati delitti a sfondo sessuale.
Mi fermai un attimo per compiacermi di questa mia osservazione. Ne approfittò l’ispettore per dire:
«Bene, mi sembra che lei sia arrivato alla conclusione del suo racconto; o c’è dell’altro?».
«Direi di no. Non le sembra che basti?»
«Bene» disse ancora una volta l’ispettore che aveva riacquistato una certa disinvoltura «questo giuoco ermeneutico mi ha alquanto intrigato. È certamente molto interessante. Ma che dire?»

«Si potrebbe dire che il sogno, così strutturato e, pur nella sua brevità, così irto di figure, simboli, metafore, rimandi tra i più soliti, arditi e ricercati, è stato praticamente firmato. Ma, ribadisco, la firma non è mia.
Io sono un modesto insegnante di lettere in vacanza in Inghilterra. In campo sessuale come in quello linguistico, nella veglia come nel sogno, io mi esprimo con estrema piattezza. Non riesco proprio a capire come mi sia occorso di sognare un concentrato di aberrazioni di tale portata e per di più risolte oniricamente con tale lezio e manierismo. In fondo, lo dice sempre Artemidoro, a gente di poco conto gli dei mandano sogni di poco conto. No, proprio no, il sogno non è assolutamente mio e me ne dissocio ancora una volta solennemente e ufficialmente. Se vuole, sono pronto a sottoscrivere in tal senso, sotto la mia responsabilità, una dichiarazione in carta bollata.»
«In carta bollata?»
«Sì, da noi si usa così.»
Feci un’altra breve pausa. Poi:
«Non so come spiegarlo» ripresi «ma sono convinto che qualcuno, in qualche modo ha fatto questo sogno attraverso di me; il ça di qualcun altro si è inserito surrettiziamente nelle strutture della mia attività oniropoietica, e sono altresì convinto che il vero autore di questo orribile sogno sia l’assassino della povera Pamela».
Dovevo aver alzato la voce ancora una volta perché l’ispettore:
«Si calmi» disse «non è successo niente. Può darsi che la ragazza si sia allontanata da casa di sua spontanea volontà e chissà dov’è ora; magari se la sta spassando in qualche parte con qualche amichetto».
«Speriamo che sia così» soggiunsi senza troppa convinzione.
«In ogni modo ho sentito il bisogno di parlare di questa strana faccenda con qualcuno della polizia.»
«Ha fatto bene. Ne prendo atto» concluse compiacente l’ispettore «e prendo atto anche della sua dissociazione, se ciò le fa piacere.»

E sempre per compiacermi prese anche il mio indirizzo. Si alzò e mi congedò, questa volta senza ripensamenti.
Me ne andai con la strana sensazione che l’ispettore non m’avesse preso troppo sul serio. In ogni caso io avevo fatto il mio dovere verso l’autorità dello Stato e la dignità della letteratura.
Rientrai nella mia pensioncina alla periferia di Londra. S’era fatto buio.
Salii in camera; dalla finestra potevo scorgere, non lontano, un boschetto con un viottolo che somigliavano stranamente a quelli del sogno. Mi sembrò tutto molto sinistro. Passai la notte inquieto, turbato da immagini che ancora una volta non erano quelle mie consuete. L’indomani mattina fui svegliato da una agitata bussata alla porta. Era la padrona della pensione che mi avvertiva, molto impressionata, che giù in basso c’erano uomini della polizia che mi cercavano. Scesi. Quando tra costoro scorsi l’ispettore, non ebbi dubbi:
«È stata ritrovata?» dissi.
«Sì» confermò l’ispettore.
«Morta?»
«Sì.»
«Assassinata?»
«Sì.»
«In quel modo?»
«Sì.»
Ci fu un momento di imbarazzato silenzio.
«Venga con me» disse infine l’ispettore «dobbiamo parlare.»
In ufficio mi mostrò le fotografie della ragazza il cui corpo era stato ritrovato proprio nel boschetto vicino alla pensione. Tutto come nel sogno.
«Certo» disse l’ispettore dopo una lunga pausa «le coincidenze sono impressionanti.»
Lo guardai con aria interrogativa.
«Sospetta forse di me?» domandai infine.
«No» rispose l’ispettore «lei ha un alibi di ferro; il giorno della morte di questa ragazza lei era ancora in Italia. Lo abbiamo accertato senza ombra di dubbio.»

«E allora perché m’ha fatto venire nel suo ufficio?»
«Volevo riparlare con tutta tranquillità del suo sogno, volevo accertare se c’è qualche altro particolare che forse non ha raccontato, che magari potrebbe fornire, non so, una indicazione… una qualche traccia…»
«No, mi sembra di avere raccontato tutto quello che ho sognato e come l’ho sognato. Mi dispiace veramente. Non c’è altro.»
«Va bene» disse l’ispettore «se è così…» e allargò le braccia sottolineando, in tal modo, la sua delusione e rassegnazione.
«Ma nel racconto» continuai «c’è tutto, c’è praticamente l’identikit dell’assassino. Basterebbe accertare chi usualmente sogna così.»
«Già» riprese l’ispettore «bisognerebbe indagare perlomeno sui sogni di tutti i letterati inglesi. Non saranno così numerosi come nel suo Paese, ma sono sempre tantissimi.» Sorrise, un po’ stancamente, ma sorrise.
Non avevamo più nulla da dirci. Stava per congedarmi ancora una volta, quando inaspettatamente mi domandò:
«Ma a lei è successo altre volte di fare dei sogni, diciamo pure, incongrui con il suo stile?»
Fui sorpreso dalla domanda; francamente non me l’ero mai posta. Riflettei un po’.
Ma sì, certo, perbacco! «Sì, sì» esclamai «adesso che mi ci fa pensare, tanti anni fa, quando i miei figli erano ancora molto piccoli, una volta, non so più per quale ragione, dormii nel lettino di uno di loro. Mi ricordo che tutta la notte non feci che sogni estremamente infantili.»
L’ispettore rimase un attimo immobile, come folgorato da un’improvvisa illuminazione. Poi:
«Andiamo» esclamò «andiamo di corsa alla sua pensione».
«Che succede?»
«Andiamo, svelto. Capirà.»
Prendemmo una macchina di servizio e ci precipitammo alla pensione. Alla padrona, ancora una volta impressionatissima:
«Ha alloggiato qui un certo William?» domandò l’ispettore.
«Sì» rispose la signora «William Peterson, un romanziere.»

«In quale stanza?»
«Nella numero 5.» Era la mia stanza.
Improvvisamente tutto mi risultò chiaro. I fantasmi, gli eidola, avrebbe detto Democrito, emessi dalle cose e dalle persone coinvolte in questo atroce delitto, i pensieri e i sentimenti intensamente vissuti dal protagonista di questa vicenda aleggiavano ancora nella stanza quando io subentrai nel letto dove aveva dormito Peterson, e non so se attraverso i pori, come sostiene sempre Democrito, o in qualche altro modo erano penetrati nei misteriosi ingranaggi della mia psiche trasformandosi in quella banale e al tempo stesso ricercata, orrenda visione che era stato il sogno. Non poteva essere che così.
Non fu difficile rintracciare William Peterson, uno scrittore abbastanza noto nei circoli letterari di Londra. Alloggiava in una modesta pensioncina in qualche parte della sterminata periferia di Londra, ancora una volta vicino ad un boschetto. Confessò questo ed altri delitti.
Quando l’indomani vidi la sua fotografia sul giornale rimasi colpito come quando, a suo tempo, avevo visto la fotografia della vittima. Allora quella mi ricordava mia cugina Amelia, adesso, per certi tratti del volto, mi sembrava che William Peterson rassomigliasse un poco a me.
Interruppi bruscamente le mie vacanze a Londra e riguadagnai con sollievo il posto nel mio caro, affidabile letto, accanto a mia moglie, la quale è vero che ogni tanto mi trasmette qualche suo sogno cretino ma è anche vero che i suoi tropi, semasiologicamente parlando, non si discostano troppo dai miei. 

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