giovedì 22 agosto 2024

Claudio Asciuti: Inventario Eysenck– X


M’ero appena fermato sul limite della curva di Corso Firenze e sbirciavo le luci gialle del porto e le acque torbide e scure e la lunga fila di case che si allungava sotto di me, quando per caso buttai lo sguardo sull’edicola… in titoli di scatola la locandina de “Il Corriere mercantile” m’informava che il corpo della ragazza scomparsa il giorno precedente era stato appena ritrovato… scesi dalla moto, acquistai il giornale… il genere umano, pensai, è di una bestialità davvero impressionante… la ragazza era stata violentata e poi strangolata.
Ero uscito per cacciar lontano la malinconia e mi sentivo ancora più triste… decisi di tornarmene a casa…

Me ne tornai quindi a casa… ancor più abbattuto… e sì che ne ero andato via dall’estremo rifugio perché m’intristivano tutte quelle scadenze sempre più impellenti… diedi da mangiare al gatto, mi versai un martini, m’accesi una sigaretta… attivai la segreteria telefonica.
La prima telefonata era di un tale a cui stavo facendo la tesi che s’informava a che punto ero del lavoro; altrettanto la seconda; la terza era di Fosca e mi annunciava che sarebbe tornata per un po’ di tempo dai suoi; la quarta era di Vanni, che m’invitava al cinema; la quinta era del garagista che finalmente, diceva, tutto va bene con mio figlio e grazie a lei, dottore… grazie di che, risposi io. E rimasi così ad osservare il mondo dalla mia prospettiva. La gente continuava a chiamarmi per chiedere consigli, aiuti, consulenze… volevano che risolvessi le situazioni più strane e più assurde… intanto poi tutto si sarebbe risolto come “doveva” risolversi… non c’era proprio nulla che io potessi fare, e per nessuno… e perché poi… perché questo qualcuno finisse un giorno violentato e ucciso?

Trascorsero pigramente due giorni nei quali tentai in tutti i modi di lavorare ma senza riuscirci… tentai di far qualunque cosa che mi portasse a casa un po’ di lira perché davvero ne avevo bisogno ma non riuscii a combinar nulla.
Avevo altro per la testa, e immagino che lo si notasse e bene dal momento che pure il gatto m’evitava.
Poi seppi del secondo omicidio proprio il giorno in cui al bar dell’università stavo chiacchierando con il committente di una delle tesi a cui lavoravo… porfiria, vampirismo, sangue e sessualità nella letteratura horror… una roba da far vomitare… e lui continuava a darci dentro. Uno squallido tipo, uno di quelli che prendono la laurea per motivi di carriera o per scriverci dottore sul biglietto da visita, che neanche sono capaci di mettere due righe in croce. Aveva un sacco di soldi… avevo già spento l’audio, il tipo continuava a parlare quando uno strillone entrò nel mio campo visivo… un’altra vittima… un secondo omicidio… lasciai a metà il soliloquio del tipo e uscii ad acquistare il giornale… un’altra vittima… violentata e uccisa … il corpo, scoperto all’alba alle pendici del Fasce… il tipo era furibondo ma neppure lo stavo ad ascoltare nelle sue geremiadi… l’articolista descriveva con abbondanza di particolari e tutti macabri il ritrovamento del corpo… è ciò che la gente vuole, pensavo, prima di tutto.
Emozioni di morte a buon mercato, lacrime, dolore e sangue… sofferenza… la gente non ha pietà per nessuno… non conosce il dolore, non concepisce la morte, la fortuna buona o cattiva non la commuove… e intanto lui parlava della sua stupida tesi… lo lasciai al bar, e forse ancora adesso continua a parlare da solo…

La città quella sera non si ripiegò in sé come, temendo qualcosa di nuovo e di orribile, avrebbe potuto fare per proteggersi. Anzi, vidi i luoghi che di solito erano frequentati raggiungere la massima frequenza di pubblico, quasi che i superstiti volessero in tal modo esorcizzare la morte; ma i luoghi deserti, quelli furono ancor più disertati… terra di nessuno…
E certo tv, radio e giornali s’erano indaffarati per montarci su tutta la storia, eccome! Quell’aria di sospetto che spirava tra la gente, quel balenare di sguardi indagatori, no, non era per nulla naturale…
Feci un giro per tastare il polso alla città, in quell’estrema solitudine che costella queste serate di birrerie, di vicoli, di luci spente, di bande di ragazzini in tenuta metropolitana e di irriducibili freaks che hanno la mia età, magari, e vestiti da hippies oh, Dio, che desolazione! E pensavo tra me e me a chi aveva ucciso quelle due ragazze… l’orrore della morte, il dolore… nel buio riflessi sulle vetrine spente splendevano fioche luci come un sepolcreto e i visi delle vittime ritratte nelle foto della cronaca. Una voce dentro di me diceva: tu sai come trovarlo… hai qualche indizio… puoi farlo… fallo!
E l’altro-da-me, l’Hyde della situazione: no, che tanto non ci cavi nulla… ricordati il passato… non t’impicciare…
E fu così che questo tira e molla della coscienza continuò fino al terzo omicidio che avvenne giorni dopo, e allora qualcosa scattò d’improvviso in me e decisi che avrei dovuto iniziare a preoccuparmi anch’io perché, se c’era un tale in giro che si divertiva ad uccidere, era meglio che ci muovessimo in tanti, e più eravamo meglio era. Lasciai perdere le tesi a cui fingevo di lavorare, feci pace con il gatto e trascorsi un paio di pomeriggi in biblioteca a scorrere i quotidiani facendo copie di tutti gli articoli utili… il terzo giorno uscito dalla biblioteca fece il giro lungo per tornare a casa per ascoltare la città silenziosa e ostile, muta, ferita come non lo era mai stata neanche nel Settanta quando l’alluvione ci aveva messo tutti in ginocchio e non c’era stato più verso per un bel pezzo di riprendersi… Genova e i genovesi sotto l’alluvione… questo era invece un’alluvione di sangue che ci avrebbe spazzati tutti via. La gente pareva impazzita; il panico s’era finalmente liberato e serpeggiava e cresceva; tutti avevano paura; le ragazze non uscivano più la sera se non con la vigile e inutile scorta di amici, fratelli o genitori; i cinema erano mezzi vuoti, le strade dopo le nove deserte. Giù, nel Centro Storico, me ne tornavo a casa assaporando nei commenti e nelle parole l’orrore e ancora la paura che stagnava attorno e l’odio che trasudava dagli sguardi quando incappai in una retata… ci cascai dentro come un allocco… la madama aveva fatto cordone tutt’attorno… mi chiesero i documenti e fino a quel punto tutto andò bene; poi l’agente che mi stava di fronte decise di guardare cosa c’era nella mia borsa.
«Ehi» fece all’altro «dacci un po’ un’occhiata. C’è tutto un dossier sugli omicidi.»
Tirai fuori la tessera dell’Ordine degli Psicologi mentre tra le maglie della ronda la gente riprendeva a passare. «È interesse professionale, agente» mormorai.
Stavano cercando il mostro, e non potevo biasimarli.
Già sono molto sospetto al naturale, con la barba sempre di tre giorni e i capelli lunghi e il trench. Ma nella borsa avevo libri di sessuologia, fotocopie di articoli, appunti sull’assassino… cercai di spiegarlo a quegli uomini, ma loro mi rilasciarono dopo che m’ebbero portato in Questura, interrogato e dedotto che non ero io l’assassino; anzi; ero an ch’io della loro squadra, anch’io lo stavo cercando.
Un certo dottor Fontana, un commissario che aveva lo sguardo triste e forse ne aveva visto di tutti i tipi dopo che ebbe ascoltato quello che aveva da dire rispose: «Non credo che il suo metodo possa dare risultati migliori dei nostri; ma se viene a qualche conclusione… ad una sola conclusione, mi chiami».

Per giorni e giorni tentai di applicare le conoscenze che avevo a proposito delle tre vittime, costruendo con l’Eysenck – X un modello tale da farmi intravedere, magari da lontano, il volto dell’assassino.
Sulla carta tutto sembrava molto chiaro.
Le tre vittime erano di età comprese tra i diciotto e i ventidue anni; la prima studiava chimica all’università, la seconda faceva la commessa, in un grande magazzino e la terza frequentava ancora il liceo.
Tutte e tre avevano la stessa tipologia fisica: caratteri longilinei e ossatura sottile, struttura astenica, pochissimo pannicolo adiposo; pelle tendente allo scuro, capelli scuri e lisci, occhi scuri. Se Eysenck – X non m’ingannava, e chissà chi mai poteva sapere se lo stava facendo, l’assassino era alto, robusto, dalla complessione atletica e dalla pelle bianca. Poiché l’indice di correlazione tra colore dei capelli è cosi basso da esser vicino alla sua casualità non potevo avere nessuna informazione; stesso discorso per il colore degli occhi… avrei detto capelli biondi e occhi chiari.
E poi? L’assassino vestiva in maniera ricercata, presumibilmente. Con una certa tendenza ai colori chiari… almeno, stando all’indice di correlazione relativo. Questo corroborava l’ipotesi che avesse gli occhi verdi, azzurri, celesti.
E poi? Le tre vittime amavano far lunghe passeggiate da sole a quanto riferivano i giornali. Ma solo la prima vittima aveva comunicato ai suoi la decisione di uscire a passeggio; la seconda era uscita a comprare le sigarette, la terza a portare il cane a passeggio.
Ed erano scomparse. Le avevano ritrovate, la mattina dopo, morte. Era tutto quello che sapevo fino ad allora. Dovevo scavare di più. Ma nel frattempo chiamai Fontana e gli dissi che volevo parlargli… nel tardo pomeriggio mi presentai in Questura con i miei schemi e miei diagrammi, e gli raccontai ciò che pensavo d’aver scoperto.
Fu molto disponibile ma anche poco convinto.
«D’altronde» gli dissi «non avete nessuna traccia.»
«E lei come lo sa?»
«Lo immagino». L’ufficio era relativamente calmo; ma al di fuori s’intuiva il nervosismo… telefoni, chiamate, rumori di passi. «Non avrebbe perso tutto questo tempo ad ascoltare uno sconosciuto, se avesse un’altra traccia.»
«Lei non è uno sconosciuto. Tanta gente si ricorda di quello che stava facendo.»
Non mi piace parlare del passato; così cambiai discorso:

«Le uniche informazioni che sono riuscito ad ottenere sono queste».
Fontana fece un mezzo sorriso. «Eysenck – X… i famosi inventari sulla personalità di Eysenck sottoposti a revisione “X”… bene… è per questo, vero? Perché non hanno accettato la sua revisione?»
«Ho testato infinite volte questi inventari, con infinite coppie d’ogni età e condizione sociale». Alzai le spalle. «Se nessuno ha voluto accettare questa revisione sono affari loro.» Per me l’assassino ha queste caratteristiche e tutto il resto non ha nessuna importanza…
«Nessuna importanza?» domandò incuriosito Fontana «proprio nessuna?»

Non lavorai più a nulla, se non agli omicidi.
Intervistai i parenti delle vittime, i compagni di studio e di lavoro, gli amici. Poi lavorai ancora su quegli aspetti mentre la polizia brancicava nelle tenebre e psicologi, sociologi, psichiatri e altri imbecilli dicevano la propria opinione spesso non richiesta da tutti i possibili media… mi pareva d’impazzire… il cumulo delle banalità che andavo ascoltando cresceva a dismisura… ma ciò che era peggio erano l’odio, la malvagità, l’orrore che mi ispiravano gli esseri umani… quei buoni padri di famiglia che invocavano sangue, quei democratici convinti che domandavano la pena di morte… ci scappò qualche rissa… presto sarebbe esplosa la caccia al mostro… ci sarebbe scappato il morto, presto o tardi…
E io… sì, avevo delle idee. Volevo tendere la mia trappola all’assassino, ma solo; nessuno mi avrebbe preso sul serio. Conoscevo abbastanza di lui.
Conoscevo bene le sue vittime.
Tutte e tre avevano caratteristiche personologiche simili: personalità di tipo introvertito, poco amanti della compagnia e della socialità: preferivano andare al cinema o al teatro piuttosto che in discoteca; preferivano leggere un libro o guardare la televisione anziché uscire… ma se uscivano spesso erano sole. Inoltre la loro dimensione “stabilità” era molto marcata. Sapevano quello che facevano, con chi s’accompagnavano… le classiche ragazze con la testa a posto. Non sarebbero mai salite in auto con il primo venuto; conoscevano l’assassino; tant’è vero che la terza vittima aveva con sé un cane, e i suoi genitori m’avevano giurato che quello avrebbe sbranato chiunque… il corpo del cane era scomparso, ma quello della vittima no.
Secondo i dati che avevo a disposizione il loro possibile partner, l’assassino, avrebbe dovuto avere interessi simili ma caratteri personologici diversi: si trattava di un individuo dall’alto grado di instabilità e dalla forte estroversione; caratteri questi che s’accordavano entrambi con la sua tendenza omicida e con l’interesse che poteva aver suscitato nelle sue vittime.
L’assassino aveva conosciuto le sue vittime. Aveva intrecciato attorno ad ognuna un gioco clandestino, un gioco nascosto al punto che nessuno degli amici ricordava d’aver mai sentito parlare di qualcuno con somiglianze fisiche o psicologiche simili a quelle che andavo cercando… l’assassino aveva chiesto il silenzio, e l’aveva ottenuto.
Una storia d’amicizia, agli inizi. Forse la possibilità di una relazione.
Una storia che sfociava nella violenza e nella morte. Ma… dove poteva esser iniziata, quella storia?
Quale poteva essere il luogo in cui s’erano conosciuti? Due delle vittime frequentavano sporadicamente i teatri comunali; la terza andava solo a quelli “off”. Nessuna delle tre amava le discoteche o le sale da concerto.
Andavano di rado in paninoteche, birrerie o altri locali d’incontro; ma tutte e tre andavano spesso al cinema… tutte e tre avevano la tessera del cineclub Lumière… un porto di mare, dove ci andavano tutti, dagli intellettuali sradicati ai freaks, dai “politici” agli studenti, dalla gente di tutti i giorni a quella “bene”, da quelli che amavano il cinema a quelli che proprio non ci chiappavano ma faceva “in” presenziare…
Forse s’erano conosciuti al Lumière.
L’unico cineclub dove la gente ci andava per socializzare. L’unico luogo dove due persone dagli interessi simili ma dalle componenti personologiche differenti si sarebbero potute incontrare.

Così iniziai a frequentare il Lumière.
Tutti i giorni, al primo dei due spettacoli quotidiani, verso le otto di sera; quando finiva… restavo dentro… o facevo finta di uscire… o uscivo, e ci tornavo con Fosca e Vanni.
E guardavo la gente. Cercavo l’assassino ma anche la futura vittima… se aveva ucciso in quel modo, avrebbe ucciso ancora… una volta che le acque si fossero calmate… passarono alcuni giorni, una settimana… la città dimentica dell’orrore della morte riprendeva… le accuse di inefficienza verso la polizia andavano calando… io aspettavo… avevo catalogato almeno dieci potenziali assassini e tre vittime… cercavo di prender contatto con loro ma non sapevo cosa fare… se potevo, pedinavo a caso qualcuno… vittima o assassino non aveva importanza… scoprii dove abitavano alcuni, altri no, li persi…
Una sera pedinai una delle possibili vittime fin sotto casa. M’annotai tutto… conoscevo l’abitazione di due delle “vittime” e di quattro degli “assassini” ma immaginavo che tanto non mi sarebbe servito a nulla, finché non l’avessi beccato sul fatto.
Tornando a casa immaginavo che la città risvegliandosi avrebbe ripreso, l’indomani, il suo fluire; e quando fui nel mio studio e guardai giù dalle finestre polverose la Città Vecchia com’era una volta, con i contrabbandieri di sigarette, le puttane incipriate, la bisca clandestina e le volanti blu nella notte che incontravi a Piazza Cavour con gli agenti che mangiavano un panino… la città com’era una volta, appunto…
La segreteria telefonica era accesa.
Mi sedetti, e ascoltai la prima chiamata. Era del tipo che voleva la tesi sui vampiri. Mi insultò in tutti i modi più orribili perché gli portassi almeno un capitolo.
La seconda era di Fosca: m’informava di alcuni guai che la sua convivente combinava… sogghignai, a sentirla. Fosca abita in una casa d’affitto, con altre compagne di studio: due sono studentesse; la terza ha qualcosa di strano che non riesco a capire cosa sia… che spacci, o fumi, o batta.

La terza era di Vanni. M’accennava ad una storia che coinvolgeva. una sua collega e l’uomo di lei… un’altra storia di quelle che mi fanno accapponare la pelle.
La quarta era di Fontana; mi domandava se avevo per caso qualche notizia per lui.
Non volevo sentire il primo, ed tra troppo tardi per chiamare gli altri due, così feci il numero della Questura.
Fu come sempre, gentile e poco convinto.
Immagino che neppure per un istante credette a quanto gli andavo raccontando; ma forse gli fu di sollievo venir a conoscenza del fatto che, oltre a lui, l’unica persona interessata in tutta la città a trovare l’assassino non mollava.

Poi venne il quarto omicidio, e io ci fui in mezzo e la cosa assunse un tono particolare, così che a distanza mi pare di non aver compreso proprio nulla; ma forse è il destino dei cercatori di verità il percorrere infiniti labirinti senza mai approdare a nulla…
Quella sera, dopo lo spettacolo delle 22,30 che era Mano pericolosa di
Samuel Fuller, m’attardai nell’atrio del Lumière con l’idea di seguire la terza possibile vittima, che era presente a differenza dei possibili assassini che invece non c’erano. Fuori pioveva in modo lento e insistente.
Nell’atrio o poco discosti, incuranti della pioggerella, gruppi di sfaccendati chiacchieravano di Fuller, dell’università, dell’amico che faceva le corna alla fidanzata o degli ultimi spezzoni del Movimento.
M’accesi una sigaretta, per ingannare l’attesa.
La ragazza salutò l’amico con la quale era stata fino ad allora e s’avviò verso la fermata dell’autobus.
La seguii, pronto a saltar sulla moto che avevo lasciato nelle vicinanze appena avessi scoperto il numero del bus. Lei proseguì. Forse non aveva voglia di attendere il mezzo; o a dispetto delle raccomandazioni che i suoi potevano averle fatto desiderava camminare a piedi da sola. Sicuramente mostrava di non aver paura di mostri e assassini; camminava spedita, e traversò Piazza Martinez già deserta e svoltò a destra; camminò in quella via così vuota che neppure l’asfalto bagnato e luminoso riusciva a ravvivare e io rasente il muro un cinquanta metri dietro la seguivo; e tutto all’improvviso vidi ebbi solo il tempo di vedere una Volvo grigia segnalare l’accosto; la portiera s’apri; l’auto si fermò; la ragazza dopo essersi voltata disse forse qualcosa, forse sorrise, comunque salì e richiuse la portiera; allora io scattai come una molla urlando ma già la Volvo s’allontanava lentamente… corsi e vidi il pilota, alto, slanciato, un trench grigio, lunghi capelli biondi… usciva a tutto tondo dall’abitacolo… io corsi… … corsi e poi mi fermai che l’auto aveva girato per imboccare uno dei tunnel… non sapevo più che fare… un fuoristrada mi sfiorò suonando il clacson… io ero immobile in mezzo alla via… cercai con lo sguardo una cabina telefonica… In quel mentre, una pantera si bloccò accanto a me; la portiera s’apri: «Presto!» urlò il commissario Fontana sporgendosi a mezzo. «Presto!».
Saltai a bordo e partimmo slittando e carambolando sull’asfalto scivoloso all’inseguimento della Volvo grigia.
«Maledizione!» dissi ancora ansimando. «È lui… l’ho visto… me l’ha fatta… lei è salita…»
«Va bene» rispose Fontana «va tutto bene. Non possono essere troppo lontani. Ha visto la targa?»
«No… troppo lontano…»
«Una Volvo grigia. Quando abbiamo visto la ragazza salire sull’auto, abbiamo dato l’allarme.»
L’auto adesso abbordava una curva verso il tunnel. L’agente di fianco all’autista parlava concitatamente alla radio.
«Non è un caso che siate qui?» domandai.
«La stavamo pedinando. Dopo la nostra ultima conversazione… ci ho ripensato a lungo a ciò che m’ha detto. E anche se non ortodosso il suo metodo non mi pareva male… è un paio di giorni che ci sono i miei ragazzi all’interno e qualcuno fuori con l’auto.»
«Stavate seguendo me… dal vostro punto di vista sono io l’assassino… ma non avevate nulla contro di me e allora avete deciso di seguirmi nei miei pedinamenti; ecco perché eravate così pronti; ecco perché c’è lei in un normale servizio di pattuglia.
Lui non rispose. Da un pacchetto malconcio tolse una sigaretta e l’accese, in silenzio.
L’autista disse: «Laggiù! Stanno girando in Corso Italia!»
«Vagli dietro e chiudili laggiù al semaforo» fece il commissario «e tu chiama gli altri che blocchino le uscite». Stiamo catturando l’assassino, pensai tra di me, e solo perché credono che sia il colpevole. Faceva ridere, quasi.
Gli fummo sopra.
Con un’abile manovra l’autista chiuse la Volvo in curva e l’auto derapò slittò si fermò quasi sul marciapiede; noi saltammo tutti e quattro fuori sotto la pioggia che rinforzava e assieme al suono della mareggiata s’udivano di lontano le sirene.
«Fermo!» fece il commissario puntando la pistola contro l’autista della
Volvo. «Non ti muovere! Fermo!»
Io feci quello che non dovevo fare; aprii la portiera, cacciai dentro le mani e lo afferrai per il bavero tirandolo fuori al volo: «Bastardo!» dissi «dov’è? Dov’è lei?».
Lui era bianco in faccia. Ma era alto come me, e aveva i capelli e la barba neri… mi guardava terrorizzato.
«Non è lui!» urlai sbattendole contro l’auto «non è lui!»
«Stia fermo» diceva Fontana «fermo!»
Intanto gli altri due tiravano dall’altro lato dell’auto qualcuno che si nascondeva… la portarono alla luce… era una ragazza pallida come un cero, alta, bionda… tremava guardando le pistole rivolte contro di lei e io che dicevo: «Dov’è lei? Dove l’hai nascosta?».
Nessuno spiccicava più una parola. Tenevano sotto tiro una coppietta che tornava a casa dal cinema e io malmenavo un uomo che non c’entrava nulla, e intanto il vero assassino chissà dov’era finito, nel frattempo.
«Lo lasci andare» fece nuovamente Fontana «lo lasci. E tu, prendi i documenti a tutti e due… vediamo chi sono…» Avevano sbagliato auto… avevano teso una trappola e la trappola era fallita… una seconda pantera si fermò vicino a noi e scesero altri agenti con le armi in pugno.
La pioggia continuava a scendere, lentissima.

I due parlavano un po’ rincuorati con il commissario mentre uno degli agenti chiamava con la radio in Questura. M’accesi una sigaretta, inspirai a fondo.
«Sembra che abbiamo preso un granchio» fece l’agente che guidava la nostra pantera «un grosso granchio… maledizione, ho confuso la macchina! Ho rincorso una coppietta e ho perso l’assassino… non me lo perdonerò mai…»
«Maledizione» risposi «maledizione… non potevamo saperlo… e io gli sono anche saltato addosso, a quello.»
«Una strana coppia, però» mi fece notare l’agente «lui è più basso di un mezzo palmo e ha indosso quel trench grigio che gli arriva a metà polpaccio. Sta sempre zitto e guardi invece l’altro com’è aggressivo…»
«Il cofano» mormorai improvvisamente «il cofano! Apra il cofano! È la dentro la vittima! Sono loro! Sono due!»
Corsi verso l’uomo che si voltò verso di me: «Il cofano!» urlai.
«Aprite il cofano! Il portabagagli!»
L’uomo tentò una fuga, disperata in avanti, ma gli furono subito addosso… era davvero spaventato…
La ragazza no. Sorrideva.

«Non ho capito proprio nulla» mormorai.
Era già la mezza del giorno dopo, e io e il commissario Fontana stavamo mangiando un panino in un bar di Piazza della Vittoria.
«Ha capito anche troppo. Erano puliti… nessuno avrebbe mai pensato a smontare il portabagagli, a trovare il doppiofondo e in quella specie di vano il corpo di quella poveretta.»
Mi versai ancora un po’ di birra. «Se non mi faceva notare le differenze tra quei due il suo agente, non ci sarei mai arrivato.»
«Lei è uno psicologo, non un poliziotto.»
Scossi il capo. «No, neanche quello. Sono un individuo che gioca a fare lo scienziato ma non è capace a trovare la verità neanche di fronte ai propri occhi.»

«Ma era sulla strada giusta: il suo inventario ha centrato perfettamente l’identikit dell’assassino.»
«Ha sbagliato il sesso, che era la cosa più importante. Avrei potuto cercare tutta la vita l’assassino senza mai riuscire a trovarlo… una donna…»
«E come poteva immaginare che era lei che “sceglieva” le vittime in base ai suoi gusti sessuali? Come poteva immaginare che era il fidanzato a stuprarle e poi era lei a ucciderle?»
«È orribile» mormorai «veramente orribile. Una delle coppie diaboliche peggiori… non ho mai visto una cosa simile. Una parafilia che mescola
yoyeurismo, omosessualità e mania omicida… una donna che sceglie le vittime in base alle componenti fisiche e psichiche del proprio compagno ma che ne cambia sesso… è lei che organizza i piani, che adesca le ragazze presentandosi come un’amica… le abborda… lui esce da quel vano… le immobilizza… poi la violenza… la morte…»
«Se non fosse stato per lei non li avremmo mai presi.»
Mi versai ancora da bere. Il mondo mi pareva un fallimento più dell’ultima volta che avevo cercato di capirci qualcosa, ed era passato già troppo tempo da allora.
«È un caso» risposi «solo un caso, come tutto il resto nella vita… se quella sera non avessero deciso di agire… se io non avessi seguito la ragazza… se non ci fosse stata la vostra auto dietro… tutto un caso.»
«Però abbiamo chiuso tutto. Lei ha dimostrato che il suo inventario Eysenck – X funziona… può fare un gran rientro nel mondo della psicologia, con questa storia.»
«Anzi. Vorrei che di me, se possibile, non se ne parli affatto.» Questa volta Fontana rimase sconcertato. «Scherza?»
«Dico sul serio. Il passato è passato, oramai… è troppo tardi per tornare nel gioco. Facciamo che io non c’entro nulla in questa storia e che il merito è il suo.»
«Vuol spiegarmi il perché?»
«Un giorno. Prima o poi. Un giorno le spiegherò tutto.»
«D’accordo?»
«D’accordo.»
Era l’una. Me ne andai in biblioteca, perché dovevo lavorare alla mia tesi sui vampiri. Poi avrei chiamato Fosca per sapere come stava, e Vanni per domandargli della sua amica. E verso le sette mi sarei fermato sul limite della curva di Corso Firenze a sbirciare le luci del porto che s’accendeva, le acque che divenivano brune e la lunga fila di case sotto di me… la locandina de “Il Corriere mercantile” m’avrebbe informato che l’assassino aveva colpito ancora una volta, ma che era stata l’ultima… avrei acquistato il giornale… sarei tornato a casa per cacciar lontano la malinconia…
 

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