mercoledì 17 luglio 2024

Luisa Marchi: Complici


La nascita dei gemelli, due maschi, fu un avvenimento per la piccola città dove non succedeva mai niente di notevole. Tutti trovarono che era qualcosa di cui andare orgogliosi e si complimentarono con lei, Alberta, la madre.
Lei sorrise. Aveva già pronto quel sorriso da quando, dopo l’ecografia, le avevano detto che avrebbe avuto non un figlio ma due. Lei e Walter, suo marito, aspettavano da sette anni quel figlio, che invece non sarebbe stato uno. Avevano fatto delle cure, si erano fatti leggere la mano, avevano pregato perfino. Adesso Walter era eccitatissimo, parlava e parlava.
Esibiva, trionfante, i gemelli ai parenti ed agli amici, rideva ogni momento, senza un ragionevole motivo, diceva sciocchezze.
«Due in un colpo solo, bel colpo eh Alberta? Tu che volevi una famiglia numerosa hai cominciato bene e per un po’ sei a posto!»
Alberta lo guardava agitarsi tanto e stava zitta. Provava un po’ di pena per lui ed un po’ di rabbia.
Essendo figlia unica aveva sempre sognato di avere molti figli, anche quattro forse. Questi figli ipotetici li aveva già amati con l’immaginazione, uno per uno, in un modo che aveva ritenuto splendido.
Sentiva come sarebbe stato, cosa sarebbe avvenuto dentro di lei. Ogni volta il suo amore di madre sarebbe sbocciato lentamente ma fortemente e ad ogni nascita si sarebbe rinnovato, forse moltiplicandosi, forse dilatandosi, ma soprattutto sarebbe rimasto imparziale.
“Ognuno di loro sarà il mio preferito” pensava e si compiaceva di questo pensiero. Lo riteneva bello, saggio, quasi sublime. Pensava che ogni madre, degna di esserlo, così avrebbe dovuto amare i propri figli.
Ma ciò che stava provando adesso con i gemelli non era niente dì simile.
«Sono identici, sai, perfettamente identici!» continuava a ripetere Walter estasiato. I nomi erano già stati scelti, Marco e Marcello, ed una nonna già li aveva ricamati sopra i golfini che erano comunque di colori diversi.
«Vestiremo Marco sempre di azzurro e Marcello sempre di bianco, sarà divertente, no? Finché loro stessi non avranno imparato il proprio nome» sghignazzava Walter.
«Glielo insegneremo subito, come si fa con i cani» disse Alberta «in modo che girino la testa quando si pronuncia “quel” nome e così li distingueremo anche noi. Altrimenti è impossibile distinguerli.» La sua voce suonò acuta ma sottile. Walter pensò che non era stata una battuta felice quella di Alberta, molto grossolana, anzi.
Come poteva venirle in mente di paragonare i propri figli ai cani? Alberta era sempre stata gentile, sensibile e piena di tatto in ogni occasione, ma adesso era stranamente cambiata.
«Sarà stato il trauma del parto o voleva scherzare» pensò generosamente. Le voleva bene.
Appena le fu possibile Alberta mise i due bambini sul letto, uno vicino all’altro. Li spogliò completamente e rimase a contemplarli a lungo. Se ne stavano quieti, senza dormire ma senza piangere, inerti e indifferenti al suo sguardo intenso. Poi si mise ad esaminarli minuziosamente, pezzetto per pezzetto, dalla testa i piedi, per scoprire se uno dei due avesse qualcosa di diverso dall’altro. Non erano neanche belli. Avevano le teste a pera con tanti capelli lunghi e sottili, i nasi schiacciati, i pancini gonfi e le gambe esili e rossicce come quelle dei conigli appena scuoiati.
E non c’era niente in loro che non fosse uguale. Provò un senso di umiliazione e le sembrò di essere stata molto stupida a partorire due gemelli.
«Come ho potuto farlo?» si chiese con sincera meraviglia. Scostò i capelli dalla fronte di uno e poi dell’altro pensando a quello che aveva sempre letto sui capelli dei neonati. Piumosi, così erano definiti in genere, oppure “come lanuggine bionda”. Due angioletti con i capelli piumosi o come lanuggine bionda.
Davanti a lei, sul letto, non c’erano due angioletti. C’era una qualche specie di doppio gambero con un garbuglio di roba nera, simile ad una matassa di ragnatele attaccata alle due teste. Finalmente sotto ad un garbuglio scoprì un piccolo neo scuro perfettamente tondo come un coriandolo di cioccolato, l’unica cosa esemplare in quei due corpicini mediocri. Sotto all’altro garbuglio non trovò niente. I gemelli all’improvviso si misero ad urlare contemporaneamente spalancando contro di lei due piccole cavità ingorde. Alberta si affrettò a rivestirli. A quello con il neo mise il golfino bianco, colore già dall’inizio destinato a Marcello. All’altro, Marco, mise il golfino azzurro.
Poi li attaccò al seno, uno per parte e Marco e Marcello si misero a succhiare vigorosamente.
Walter non fu messo al corrente del neo benché scoprendolo Alberta avesse provato l’impazienza di dirglielo. Ma quella sera non le andò di parlargliene. Era sempre stanca, molto stanca, alla sera e di cattivo umore, sfibrata dal vedersi davanti due bambini uguali. In seguito decise deliberatamente che la faccenda del neo sarebbe stata il suo segreto.
Come una minuscola sorgente di consolazione nei momenti peggiori.
E la vita in casa con i due gemelli le apparve ad un certo punto come un unico interminabile momento peggiore. Walter continuava volenterosamente a pensare che il parto fosse stato un trauma troppo forte per lei, che in qualche modo l’avesse psichicamente bloccata e specialmente lo pensava quando a letto, la notte, Alberta gli si sottraeva inventando ogni genere di motivi. Lui era premuroso e gentile, cercava di aiutarla come poteva ad accudire i gemelli. Dopo la loro nascita lui era sempre su di giri, invece, ed il suo buon umore resisteva impavido anche davanti alla faccia ac cigliata di Alberta, ai suoi silenzi implacabili. Le vedeva la bocca piegata in giù agli angoli come quella di Pierrot, gli occhi un po’ torvi e ci rimaneva male ma non era tipo da analizzare troppo le cose, da sottilizzare o approfondire. Una volta con riluttanza e disagio ne parlò alla suocera e lei disse che allattare spesso faceva quell’effetto a certe donne. Le deprimeva.
E poi due bambini sono due bambini, se proprio non era così stupido da non capirlo, sottinteso, No, che non era così stupido e perciò capiva. Almeno si costrinse a farlo.
Alberta latte ne aveva tanto, giusto per due e Marco e Marcello crescevano bene. Un chilo preciso, tutti e due, al mese. Poco alla volta persero quella loro somiglianza con i gamberi e si avviarono sulla strada di sembrare due angioletti, bruni anziché biondi. Alberta era attenta ai loro bisogni, zelante nel tenerli puliti e profumati con i loro golfini giusti del colore diverso, mentre stava aspettando, e interrogandosi instancabilmente, di provare per loro un sentimento logico e preciso, giusto e lecito anche se non uguale a quello che aveva immaginato di provare quando i figli non arrivavano.
Quando era sola piangeva, a volte senza accorgersene, sommessamente. Si asciugava le lacrime sulle guance bagnate ed allora capiva di avere pianto. A volte scoppiava in singhiozzi e singulti da spaccarsi il petto.
Non sapeva il perché. Non lo sapeva perché si rifiutava di saperlo. Ma alla fine dovette arrendersi alla verità che divenne più forte del suo ri fiutarla. Capì che piangeva perché non riusciva ad amare i gemelli. Non tutti e due. L’amore per un figlio se lo sentiva dentro ardente, quasi feroce come un’unghiata nel cuore ma per uno solo, comunque fosse, ma non per la copia di quell’uno.
Ed allora quale dei due poteva amare? Quale, quale dei due?
Walter li amava tutti e due, era chiaro.
Si divertiva con loro e più li vedeva uguali e più si divertiva. Fossero stati anche tre o di più, uguali, per lui sarebbe andato bene lo stesso.
Alberta incominciò a pensare che fosse completamente ottuso e privo di sensibilità. Assisteva meravigliata a quel suo essere padre di due gemelli in modo tanto semplice, senza problemi e senza dubbi. Era stato capace di dividere il suo amore in parti uguali o di moltiplicarlo per due?
O li amava forse globalmente? Lei lo invidiava ma non provò mai ad imitarlo. Sapeva che non ci sarebbe riuscita.

Marco e Marcello crebbero in fretta e rimasero identici e non come succede a tanti gemelli dei quali uno è più magro dell’altro o più grasso o con il viso più sottile o più paffuto. Avevano imparato assai presto a sapere bene uno di essere Marco e l’altro di essere Marcello ma Alberta continuò a vestirli con due colori diversi. Rosso e blu, giallo e verde, bianco e azzurro. E continuò a consumarsi per lo sforzo ininterrotto di amarne uno almeno ma senza sapere quale. Finalmente si aprì uno spiraglio nella sua inquietante lotta. E fu quando Marco e Marcello incominciarono a rivelare caratteristiche differenti. Marcello era un bambino tranquillo e obbediente, non piantava grane e non faceva capricci. A scuola quando incominciarono a frequentarla, in due classi diverse, se ne stava calmo nel suo banco, non litigava con i compagni, teneva i quaderni puliti e ordinati. Nell’altra classe Marco invece si comportava malissimo. Era vivace e ribelle, disobbediente e spesso maligno. Un pianta-zizzanie nato. Affascinata da un imprevedibile speranza Alberta si accorse di provare simpatia per quella piccola peste. Si sorprendeva a guardarlo ed a sorridere tra sé, quando Marco con il ciuffo sugli occhi e gli occhi sornioni scorribandava per casa e faceva piangere Marcello, vittima designata. Fu una cosa vaga all’inizio che diventò evidente quando Walter si mise a fare con lui il padre severo.
«Non vedrai la televisione per una settimana» gli diceva serio e severo quando Marco tornava da scuola con una nota della maestra, esasperata dalle sue carognate. Ma le note erano tante che le settimane si accumulavano e diventavano mesi. Una volta lo picchiò. Letteralmente gli tirò giù i blue
jeans e lo sculacciò con fervore. Alberta si mise e gridare «No, non farlo». 
Sentì che non poteva sopportare quella violenza sul suo bambino; il suo carissimo bambino. Così, in quell’occasione, seppe finalmente chi dei due gemelli amava. La rivelazione sembrò folgorante e spaventosa, le diede le vertigini. Perché quello? Perché il più cattivo, quello che la faceva continuamente arrabbiare e che certo l’avrebbe fatta soffrire quando fosse stato grande? Lei era stata sempre mite e docile e da bambina esasperatamente buona.
Forse proprio per quello? Perché le pareva che lui potesse riscattarla da tanta, sciocca bontà? Ma era inutile chiedersi il perché di un sentimento scaturito finalmente dopo anni di abulica aridità, un sentimento vigoroso e stimolante che la faceva sentire viva, rinata a vivere. I fatti erano quelli. Lei amava Marco. Tornò ad essere appassionata con Walter a letto, ricominciò a ridere, ad avere pensieri lieti, tante idee nuove in testa, per la casa, per se stessa e per Marco. L’altro, da un giorno all’altro lo capì, era come se non fosse suo, come se non lo avesse realmente partorito lei ma si fosse materializzato da solo, apposta per darle fastidio, per esserle antipatico, per diventare di sua propria volontà un intruso. Incominciò ad evitarlo, gli parlava appena e non rispondeva alle sue domande. E intanto reprimeva, perché gli altri non capissero, l’impulso irresistibile di abbracciare Marco, di tenerselo stretto, di consolarlo quando Walter alzava la voce con lui, lo sgridava e lo castigava. Marcello non sembrava far caso al suo disamore. Giocava o leggeva tranquillo, da solo, quieto, mentre Marco le buttava all’aria la casa e preparava dispetti a tutti, ma soprattutto al fratello. Con il tempo Alberta ebbe un’altra rivelazione. Marco odiava Marcello quanto lo odiava lei. Non potevano esserci dubbi, così pensò dopo averlo scoperto. E lo scoprì, provando un voluttuoso gaudio, negli sguardi torvi e malvagi di Marco quando giocava con Marcello e quei giochi erano sempre lotte, nella violenza di queste sue lotte, nei suoi gesti sgarbati. Quando ne fu sicura fu allora che lei e
Marco incominciarono a scambiarsi occhiatine d’intesa, a sorridersi segretamente, a complottare insieme, pur senza parlarne, qualcosa.
Finì l’anno scolastico, disastrosamente per Marco. Walter decise che il prossimo lo avrebbe frequentato in un collegio. I gemelli avevano quasi dodici anni, ormai.
«È incorreggibile e così non si può andare avanti. Questo bambino ha bisogno di una lezione. Ha bisogno di una mano dura e ferma ma soprattutto di non avere vicino una madre sempre pronta a difenderlo. È un lazzarone e basta. E tu lo sai, Alberta, come lo so io. Questa volta non mi farò impietosire, ficcatelo bene in testa. Ho detto che va punito e lo punirò. Là dentro lo faranno rigare dritto, te lo dico io». Walter parlava sempre a frasi fatte e molto banali ma era candido e sincero perché credeva di essere lui il primo ad averle pensate. Alberta lo trovava insopportabile. Questa volta provò una specie di nausea ed anche la voglia di urlare per l’esasperazione. Marco rise forte con insolenza, per nulla impressionato, lui, dalle minacce paterne.
«Mamma, lascerai che mi metta in collegio?»
Alberta fece cenno di no con la testa, in silenzio. Marcello, da quel bravo bambino che era, si mise a difendere Marco, chiese a suo padre che lo perdonasse.
«Vedrai che starà più bravo, se lo perdoni, papà. Vedrai che andrà più bene a scuola, quest’altro anno. Lo aiuterò io.» Ma Walter sembrava inflessibile. Gli mancava una frase da dire e la disse.
«Lo faccio per il suo bene.»
Alberta sapeva che stava dicendo la verità perché lui amava tutti e due i suoi figli e voleva correggere il peggiore, farlo diventare migliore. Un nodo di dolore e di risentimento le strinse la gola. Perché a lei non era accaduto lo stesso? Perché ne amava uno ed odiava l’altro? Quell’altro così stupido che stava dicendo «Se Marco lo metti in collegio ci voglio andare anch’io, papà!»
Walter sorrise benevolmente, lei e Marco si scambiarono un’occhiata d’ironica intesa. E ad ogni modo c’era tempo per pensare al collegio, c’erano mesi e mesi di vacanza prima, Walter avrebbe forse cambiato idea, forse sarebbe successo qualcosa.
Alberta prese l’abitudine di portare i gemelli, quasi tutte le mattine a fare lunghe passeggiate. La campagna era a due passi dalla loro piccola città, invitante e rigogliosa. Preparava panini, coca cola, tè freddo.
Guidava per qualche chilometro, poi lasciava l’automobile ai bordi della strada in uno spiazzo erboso e tutti e tre proseguivano a piedi, inoltrandosi nei boschi, costeggiando prati folti di trifoglio, campi dove il grano era quasi d’oro. Raccoglievano fragole e lamponi o cercavano funghi. Marcello raccoglieva per lei patetici e disordinati mazzi di fiori, Marco le metteva i ragni sul collo facendola urlare e poi ridere della propria stolta paura. Insieme loro due ridevano con gli occhi scintillanti ed uno sguardo d’amore invisibile che li legava ogni volta di più a filo doppio. Continuavano a complottare con gli occhi, a penetrarsi ed a capirsi.
Poteva contare su Marco, ne era sicura ormai, non l’avrebbe delusa, né tradita.
In una bellissima mattina di luglio inoltrato Alberta disse che avrebbero passato l’intera giornata all’aperto, magari sarebbero arrivati fino ai laghetti e là avrebbero fatto il bagno. Preparò una sacca di cose buone e scelse per i gemelli due magliette comprate da poco, rossa quella di Marco, come sempre, blu per Marcello, come sempre.
L’aria era luminosa ed il sole caldo al punto giusto. Le fronde degli alberi stormivano e i prati erano pieni di margherite bianche e gialle, gli uccelli cinguettavano. Una mattinata perfetta e così sarebbe stata la giornata. Non c’era una nuvola nel cielo, azzurro come porcellana azzurra.
Lei e Marco erano eccitati. Alberta si sentiva tremare e vibrare e qualcosa scalpitava in lei, come un cavallo che sta per essere liberato dal recinto e sa che al di là lo aspetta una lunga entusiasmante galoppata negli spazi verdi.
Strada facendo cambiò idea circa i laghetti. Era Marco dei due quello che non sapeva nuotare. Guidò invece fino ad una radura oltre la quale scorreva un ruscello. I gemelli si erano sempre divertiti molto a saltellare sulle pietre malferme per guadarlo di corsa o fermandosi a dondolarci sopra facendo di tutto per cercarci dentro, e bagnarsi le scarpe. Al di là del ruscello iniziava un piccolo bosco in salita dove erano disseminati grossi scogli ricoperti di muschi alternati a cespugli di mirtilli.
Salendo per il bosco si arrivava ad un minuscolo colle, come una cima in miniatura che da una parte declinava dolcemente in un prato e dall’altra precipitava bruscamente in un crepaccio profondo e pericoloso, irto di pietre che veniva da tutti chiamato “l’orrido”. Nessuna madre di buon senso portava mai i suoi bambini nelle vicinanze dell’orrido ed erano anni che in comune si discuteva se era il caso o no di sbarrarlo in qualche modo, ma lo fosse o no, nessuna decisione era stata ancora presa, confidando evidentemente solo nel buon senso delle madri. «Saliamo fin lassù mamma!» disse Marco.
Alberta si aspettava che lo dicesse ma tuttavia sussultò.
«Va bene, ma state attenti» disse con voce flebile, per fingere con se stessa di non aver detto niente. Non alzò la testa quando si avviarono dopo aver saltato sopra le pietre del ruscello, schizzando un po’ d’acqua e ridendo. Le mancò il coraggio di vedere la maglietta blu allontanarsi e sparire nel bosco. Sopra le cime degli alberi sorgeva la cima del colle che lei, da dove stava seduta poteva vedere benissimo.
Il cuore le batteva pazzamente quando finalmente si mosse e decise di guardare in alto. Li vide arrivare lassù correndo, li vide chinarsi tutte e due a cogliere qualche fiore, alti steli ricoperti di campanule lilla.
Poi si avvicinarono al crepaccio e guardarono in giù, nell’orrido. Poi
Marco con un solo movimento e nemmeno tanto brusco né violento si av vicinò alle spalle di Marcello e gli diede una spinta. Il fratello rotolò dall’altra parte e sparì dalla visuale. Tutto successe in un attimo ma a lei sembrò di vederlo svolgersi al rallentatore, forse perché vista da lontano fu una scena silenziosa, senza suoni, né voci né il minimo rumore di rotolare di sassi. Marcello era precipitato nell’abisso senza un grido o così le parve, perché lei non udì alcun grido ma solo nella sua testa come un rombo di tuono, e davanti agli occhi una vampata accecante, rossa. Subito dopo provò una grande esultanza, a lungo sognata. Marco venne giù attraverso il bosco gridando e piangendo, proprio come lei aveva immaginato che avrebbe fatto.
«Mamma oh mamma! È scivolato giù ed è caduto, là in fondo. È là in fondo, giù, giù. È stata una disgrazia, mamma, io non ho mica colpa, hai visto anche tu che è stata una disgrazia, hai visto vero, mamma?»
Si buttò tra le sue braccia e lei lo accolse con un singulto. Lo aveva adesso il suo bambino, unico, uguale a se stesso e basta, da amare pazzamente allo scoperto con tutta se stessa. Sarebbe stata una buona madre d’ora in poi, severa e giusta, amorosa ma esigente, com’era Walter.
«Lo so, lo so, non piangere così, tesoro mio. Certo che ho visto. Ho visto che è stata una disgrazia e tu non hai nessuna colpa.»
Lo tenne stretto a sé, lo accarezzò e lo cullò, gli scompigliò i capelli. E vide il neo. Il neo di Marcello. Con un grido selvaggio scostò da sé il bambino.
«Ma tu chi sei? Tu!»
Lui ebbe un sorriso furbo ed innocente.
«Lo sai chi sono, mamma! Sono Marcello.»
«Sei Marcello? Ma come è possibile! Poco fa tu… prima, voglio dire eri
Marcello con la maglietta rossa?»
«Abbiamo sempre fatto questo gioco mamma, ci divertivamo a scambiarci, sempre l’abbiamo fatto, per prendervi in giro tu e papà!»
«Cosa vi scambiavate, cosa? Le magliette?»
«Sì, anche, ma non solo quelle. Ci scambiavamo le parti, non lo avevi capito? La parte del bambino buono e quella del bambino cattivo. E oggi toccava a me di fare quella del bambino cattivo. Ho indovinato quello che volevi che facessi e l’ho fatto. Ma adesso come farò senza Marco, mamma, oh mamma, come farò?»
Il gemello rimasto piangeva disperatamente e piangeva davvero. Non erano stati due, pensò Alberta inebetita, ma uno in due. E il bambino rimasto non era uno ma solo la metà di due.
E per quella metà nella sua anima distrutta non era rimasto niente, neppure l’ombra della sua interminabile follia.

 

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